Resta in salita la strada della tassatività delle misure di prevenzione: il caso delle prescrizioni atipiche

Gennaro Iannotti
22 Settembre 2022

Fino a che punto può spingersi la discrezionalità del giudice della prevenzione nel realizzare un sottosistema di prescrizioni ad personam finalizzato alla tutela della pubblica sicurezza?
Massima

E' legittima la prescrizione di non accedere allo stadio e di mantenersi a distanza dallo stesso durante le manifestazioni sportive, potendo il giudice della prevenzione imporre – mediante il ricorso all'art. 8, comma 5 d.lgs. 159/2011 – tutte le prescrizioni che ravvisi necessarie e che siano giustificate alla luce della pericolosità del soggetto e dei conseguenti pericoli per la società. E ciò anche a prescindere dall'inquadramento personologico del proposto nell'elencazione tassativa dei soggetti destinatari della misura del divieto di accesso a luoghi in cui si svolgono manifestazioni sportive (DASPO), di cui all'autonoma normativa dettata dagli artt. 6, comma 1 e 6-bis l. n. 401/89.

Il caso

La questione portata all'attenzione della II Sezione della Cassazione può essere così riassunta: la Corte d'appello di Milano confermava il decreto del Tribunale di Milano con il quale era stata applicata la misura della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza per la durata di anni due e mesi sei, con l'obbligo di soggiorno nel comune di residenza e il divieto di accesso allo stadio e ai luoghi limitrofi entro il raggio di 2000 metri durante le manifestazioni sportive.

Con un unico motivo di ricorso avverso il provvedimento della Corte distrettuale, il ricorrente deduce la violazione dell'art. 8, comma 4, d.lgs. 159/2011 nella parte in cui viene imposta al ricorrente la prescrizione integrativa di non accedere allo stadio San Siro di Milano durante lo svolgimento di qualsiasi manifestazione sportiva, atteso che lo stadio non è qualificabile come “esercizio pubblico”, né come “locale di pubblico trattenimento”, anche ai sensi dell'art. 80, TULPS. Nella sostanza, secondo il ricorrente, la Corte d'appello milanese avrebbe esercitato una potestà riservata dalla legge ad organi amministrativi (art. 606, comma 1, lett. a) applicando un “DASPO mascherato”, ossia una misura di prevenzione amministrativa tipica riservata al questore che prescrive, nei confronti di coloro che hanno tenuto comportamenti violenti nell'ambito o nel contesto di eventi sportivi, il divieto di partecipare a determinate manifestazioni sportive.

Il Procuratore generale – ma ciò lo si rileva solo ad abundantiam – concludeva per l'accoglimento del ricorso perché fondato.

La questione

La clausola di cui all'art. 8, comma 5 d.lgs. 159/2011 consente al giudice della prevenzione di imporre prescrizioni ulteriori e specifiche quali quella del divieto di accesso ai luoghi in cui si svolgono manifestazioni sportive, sì da rendere “personalizzata” la misura di prevenzione personale in considerazione delle caratteristiche e degli elementi oggettivi acquisiti a carico del proposto al fine di garantire l'effettività della tutela preventiva volta a scongiurare la commissione di futuri reati. Fino a che punto può spingersi la discrezionalità del giudice nel realizzare un sottosistema di prescrizioni ad personam finalizzato alla tutela della pubblica sicurezza?

Le soluzioni giuridiche

La Corte di cassazione dichiara inammissibile il motivo di ricorso, ritenendo che il provvedimento impugnato abbia fatto buon governo dell'art. 8, comma 5, d.lgs. 159/2011, norma, quest'ultima, che riconosce al tribunale di prevenzione la possibilità di imporre prescrizioni che, pur non appartenendo al compendio che obbligatoriamente deve accompagnare l'applicazione della misura di prevenzione, rappresentano degli strumenti aggiuntivi da prescriversi qualora le esigenze del caso concreto ne rendano necessario l'impiego.

Si intuisce subito la prospettiva racchiusa nel testo della sentenza in commento. C'è un invito a consolidare i principi esposti dalle sezioni unite Acquaviva (Cass. pen., 28 marzo 2019, n. 46595), le quali – a fronte del seguente principio di diritto affermato: «La prescrizione di non partecipare a pubbliche riunioni, che deve essere in ogni caso dettata in sede di applicazione della misura di prevenzione della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza ai sensi dell'art. 8, comma 4, d.lgs. 159/2011, si riferisce esclusivamente alle riunioni in luogo pubblico» - hanno ulteriormente precisato che: «la ridotta estensione dell'antescritta prescrizione non incide sulla possibilità, per il giudice che applica la misura di prevenzione, di imporre tutte le prescrizioni che ravvisi necessarie, avuto riguardo alle esigenze di difesa sociale», richiamando, appunto, l'art. 8, comma 5, d.lgs. 159/2011. Ed in tale prospettiva, la prescrizione aggiuntiva ben può riguardare anche la partecipazione a riunioni che non sono "pubbliche riunioni" nel significato ristretto che le sezioni unite hanno attribuito all'espressione, ma riunioni che si svolgono in luoghi aperti al pubblico – come gli stadi - nei quali si tengono delle manifestazioni sportive.

Come dimostra la lettura della sentenza che si annota, le “rassicurazioni” delle sezioni unite Acquaviva hanno colto nel segno: sebbene le manifestazioni sportive che si svolgono in stadi o palasport esulino dal perimetro delle riunioni in luoghi “aperti al pubblico”, il giudice, nel decreto applicativo della misura di prevenzione, potrà prevedere eventualmente anche il divieto di partecipare a riunioni di tipo diverso, ad esempio “in luoghi aperti al pubblico”, purché siano giustificate con adeguata motivazione le ragioni che hanno imposto l'adozione delle limitazioni ulteriori rispetto al corredo prescrizionale ordinario.

Altra questione che affronta la sentenza è quella relativa alla modulazione discrezionale delle prescrizioni facoltative lì dove il proposto sia un soggetto che – a prescindere dalla riconducibilità o meno nella categoria di soggetto dedito alla commissione di reati in occasione o a causa dello svolgimento di manifestazioni sportive (art. 6, l. n. 401/89) - sia portatore di un quid pluris di pericolosità non sovrapponibile con i presupposti di applicazione del cd. DASPO (dal testo della sentenza si ricava che il ricorrente avesse la disponibilità di armi).

Partendo dalla premessa che la prescrizione deve essere sostanzialmente funzionale alla misura, ne discende che il giudice della prevenzione può disporre discrezionalmente prescrizioni diverse da quelle previste obbligatoriamente dal legislatore, calibrate sul profilo personologico del proposto, «al fine di garantire l'effettività della tutela preventiva onde scongiurare la commissione di futuri reati».

Osservazioni

La sentenza è particolarmente interessante in quanto stimola nel lettore un duplice sforzo intuitivo che andremo ad analizzare in ordine di rilevanza.

Il primo poggia sulla circostanza che - nel testo della sentenza - non viene mai operato alcun riferimento all'inquadramento soggettivo del ricorrente nelle categorie dei soggetti destinatari delle misure di prevenzione personali. Infatti, è solo dalla lettura del paragrafo 5 della sentenza in commento che si intuisce (ma, si ripete, non c'è scritto) che il ricorrente sia inquadrabile sotto l'egida dei soggetti di cui all'art. 1, comma 1, lett. c), d.lgs. 159/2011, vale a dire «coloro che per il loro comportamento debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto, comprese le reiterate violazioni del foglio di via obbligatorio di cui all'articolo 2, nonché dei divieti di frequentazione di determinati luoghi previsti dalla vigente normativa, che sono dediti alla commissione di reati che offendono o mettono in pericolo l'integrità fisica o morale dei minorenni, la sanità, la sicurezza o la tranquillità pubblica».

In questo quadro, desta non pochi dubbi una motivazione che non si confronta con la descrizione dei parametri fattuali rappresentati da quel ‘fascio di condotte' (le ipotesi di pericolosità generica nella quale rientra l'art. 1, comma 1, lett. c) d.lgs. 159/2011 che fanno scattare le prescrizioni facoltative di cui all'art. 8, comma 5 d.lgs. 159/2011; dubbi che si trasformano in perplessità se si volge lo sguardo alla stabilizzazione del paradigma della tassatività intrapreso da circa un decennio dalla Corte di cassazione secondo il quale la descrizione della ‘categoria criminologica' di cui agli artt. 1 e 4 d.lgs. n. 159/2011 riveste il medesimo «valore» che nel sistema penale è assegnato alla norma incriminatrice. Sotto tale profilo, la sentenza presenta aspetti di indeterminatezza quasi paragonabili all'istituto delle prescrizioni facoltative.

A questo punto è necessario aprire una breve parentesi sulle prescrizioni facoltative. Rispetto ad esse, la discrezionalità del giudice può riguardare solo l'an dell'applicazione, ma non il contenuto della prescrizione, il quale è determinato dalla legge: trattasi delle prescrizioni facoltative a contenuto vincolato; oppure la discrezionalità del giudice può addirittura estendersi allo stesso contenuto della prescrizione: trattasi delle prescrizioni facoltative a contenuto libero.

La prescrizione facoltativa di cui si duole il ricorrente nella sentenza che si annota – vale a dire il divieto di avvicinarsi a determinati luoghi frequentati abitualmente dalle persone cui occorre prestare protezione o da minori - è una prescrizione facoltativa a contenuto vincolato. Trattasi di prescrizione imponibile solo a soggetti inquadrati nella fattispecie di pericolosità generica di cui all'art. 1, lett. c), d.lgs. 159/2011 ovvero nella fattispecie di pericolosità qualificata di cui all'art. 4, lett. i-ter) d.lgs. 159/2011 (soggetti indiziati del delitto di maltrattamenti contro familiari o conviventi o del delitto di atti persecutori).

Questa prescrizione – il cui contenuto è assimilabile al divieto di avvicinamento di cui all'art. 282-ter c.p.p. – può essere imposta solo se necessaria «avuto riguardo alle esigenze di difesa sociale» (sulle quali il giudice dovrà motivare in maniera congrua).

Chiusa questa breve parentesi relativa alla duplice veste delle prescrizioni facoltative e inquadrata correttamente la prescrizione imposta al ricorrente di cui ci occupiamo, lascia perplessi il percorso attraverso il quale, nel caso esaminato, la Cassazione supera il problema dell'inquadramento soggettivo del ricorrente: la sentenza risolve tutte le questioni che il rispetto del principio di tassatività impone canalizzandole – massivamente – nell'istituto delle prescrizioni facoltative a contenuto libero le quali – secondo l'orientamento consolidato della Corte – consentono di adattare le esigenze di difesa sociale connesse alla misura di prevenzione alle emergenze del caso concreto.

Siamo alla “notte in cui tutte le vacche sono nere”; famoso aforisma di un esponente dell'idealismo tedesco che trova copertura – nel caso che ci occupa – dalla tutela delle esigenze di difesa sociale, obiettivo di politica criminale pienamente compatibile con i principi costituzionali (Cfr., Cass. pen., sez. I, n. 12889/2018).

Ed è proprio da qui che, allora, conviene partire per verificare la compatibilità costituzionale – il riferimento è agli artt. 13 e 23 Cost. - dell'imposizione di obblighi non espressamente previsti dalla legge (id est: prescrizioni facoltative a contenuto libero).

A parere di chi scrive, il vero problema delle prescrizioni facoltative a contenuto libero è trovare il punto di equilibrio tra base legale (connotata da sufficiente determinatezza e prevedibilità) e discrezionalità del giudice. Difficile perciò non riconoscere centralità al ruolo del giudice il quale – in sede di applicazione della prescrizione – dovrà filtrare la “provvista conoscitiva” con la lente dei canoni di extrema ratio e di proporzione, allo scopo di impedire il sacrificio di facoltà e di beni giuridici di primario rango costituzionale. Questa centralità dovrà ricercarsi nella motivazione del provvedimento che dovrà essere particolarmente rigorosa sulle ragioni della loro necessità e della inadeguatezza delle prescrizioni ordinarie.

Come è stato giustamente rilevato, bisognerà sempre tener presente – in sede di applicativa della prescrizione – «la linea di elaborazione tracciata dalla Corte costituzionale con la sentenza 126/1983 secondo la quale non possono essere imposte al sorvegliato speciale limitazioni di diritti costituzionalmente garantiti in casi e per fini non previsti dalla Costituzione stessa». A dire il vero, la sentenza costituzionale innanzi citata non è dotata di un alto grado di concretezza, tant'è che la giurisprudenza ha ritenuto legittima e possibile fonte di responsabilità penale la violazione (Cass. pen., 26 febbraio 2018, n. 12889, non massimata) di una prescrizione atipica (ricollegabile alla previsione di legge per cui il Tribunale può imporre tutte quelle prescrizioni che ravvisi necessarie avuto riguardo alle esigenze di difesa sociale) che risulti dotata di sufficiente specificità (nel caso della sentenza citata in parentesi: detenzione di apparecchi di telefonia mobile) e funzionalmente non in contrasto con le necessità inibitorie della constatata pericolosità.

Come può notarsi, il tema mantiene una forte vitalità interpretativa, pur essendosi radicata la linea interpretativa per cui il contenuto generico della prescrizione ne infirma la validità in chiave di presupposto di una penale responsabilità in caso di violazione.

Altro sforzo intuitivo da compiersi, con intensità decrescente, concerne l'inserimento in motivazione – in maniera del tutto inspiegabile – del principio di autonomia del procedimento di prevenzione rispetto a quello penale.

Sul punto la sentenza non è autosufficiente.

Due sono le ipotesi: o è una digressione del tutto inutile rispetto all'oggetto del ricorso oppure la eccessiva contrazione descrittiva del contenuto della decisione e dei motivi di ricorso pone il lettore nella condizione di non comprenderne la rilevanza.

Qual era l'episodio su cui il ricorrente era stato assolto? Non si sa.

In ogni caso, a volerla ritenere una parte utile rispetto alla decisione annotata, va rilevato che non può condividersi l'assunto secondo cui la sentenza di assoluzione “con formula piena” sia l'unico strumento che impedisce al giudice della prevenzione di prendere in considerazione come elemento indiziante ai fini del giudizio un fatto escluso irrevocabilmente in sede penale.

Il principio richiamato nella sentenza commentata va precisato nei termini di seguito indicati, al fine di evitare l'innalzamento dei limiti – soglia del rischio confusione.

In particolare, ferma restando la riaffermazione degli spazi di autonomia del giudice della prevenzione, va precisato che il generale principio di non-contraddizione dell'ordinamento, in uno con la scelta legislativa di accordare tendenziale preferenza al giudicato penale favorevole (nel merito della responsabilità), impone di costruirne il senso in termini di possibile valorizzazione di dati obiettivi che si pongano come fattore di giustificazione all'applicazione della misura di prevenzione, pure a fronte di un "incidente" giudicato penale di assoluzione. E qui soccorrono gli insegnamenti della sentenza Righi (cfr., Cass. pen., sez. I, n. 43826/2018): lì dove la "interferenza cognitiva" tra i due procedimenti (di prevenzione e penale) vada a cadere su un ingrediente essenziale della parte ricostruttiva del giudizio di prevenzione, è da escludersi che possa farsi leva su tale spazio di autonomia per giustificare il mantenimento in essere del provvedimento applicativo della misura di prevenzione. Ciò perchè il recupero di tassatività descrittiva delle categorie tipiche di pericolosità è stato realizzato proprio attraverso la valorizzazione della "correlazione" con uno o più delitti realizzati dal soggetto proposto (sicché, lì dove la valutazione del giudice della prevenzione sia poi smentita dal giudice della cognizione penale) viene meno uno dei presupposti tipici cui era ancorata la misura di prevenzione). E' viceversa possibile applicare la misura – lì dove il segmento fattuale "azzerato" dal diverso esito del giudizio penale si inserisca come ingrediente fattuale solo concorrente e minusvalente rispetto ad altri episodi storici rimasti confermati (o non presi in esame in sede penale), o dove il giudizio di prevenzione si basi su elementi cognitivi realmente autonomi e diversi rispetto a quelli acquisiti in sede penale, o ancora lì dove la conformazione legislativa del tipo di pericolosità prevenzionale risulti essere realizzata in modo sensibilmente diverso rispetto ai contenuti della disposizione incriminatrice oggetto del giudizio penale (è il caso del rapporto che intercorre tra la nozione di "appartenenza" e quella di "partecipazione" alla associazione di cui all'articolo 416-bis c.p.).

A fronte di un simile quadro interpretativo, qui brevemente rievocato, non può ritenersi appagante il percorso della sentenza che si annota la quale ultima risolve il problema dell'autonomia del procedimento di prevenzione in base alla formula assolutoria adottata dal giudice penale. Non è un problema di formule.

Detto ancor più chiaramente, la possibilità di recupero della rilevanza di un fatto storico su cui è intervenuta sentenza di assoluzione resta possibile – nel solo settore delle pericolosità qualificata – ma non certo in quello della pericolosità semplice (che è la pericolosità di cui si sarebbe dovuta occupare la sentenza).

Può dunque confermarsi l'idea iniziale che ci eravamo fatti: il punto processuale appena affrontato è un accostamento non condivisibile e, comunque, fuorviante.

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