Non compatibile con l'ordinamento UE il giudicato nazionale implicito sulla questione di vessatorietà delle clausole dei contratti consumeristici

Giovanni Raiti
Giovanni Raiti
22 Settembre 2022

La sentenza in commento pone il tema della vincolatività del giudicato nazionale implicito sulla vessatorietà delle clausole nei contratti consumeristici e dell'opportunità che questa sia esplicitata o meno in fase di esecuzione.
Premessa

La sentenza in commento (che riunisce le cause C-693/19 e C-831/19, denominate nel prosieguo con i nomi di due dei rispettivi creditori: SPV Project 1503 Srl e Banco di Desio e della Brianza S.p.a.) fornisce un ulteriore tassello del puzzle che la Corte lussemburghese, da vari lustri ormai, compone sul tema dell'impatto che l'ordinamento dell'Unione (e, segnatamente, talune sue regole che potrebbero genericamente definirsi di “ordine pubblico”) determina sulla tenuta dei giudicati civili nazionali. Richiamare entro i limiti di uno scritto che vuol deliberatamente esser breve e di agile lettura i molteplici passaggi di questo ultradecennale cammino non è, evidentemente, possibile.

Mi limiterò a ricordare che – dopo le azzardate espressioni che caratterizzarono una delle pietre miliari della giurisprudenza lussemburghese sul tema (la celeberrima sentenza Lucchini, del 18 luglio 2008, causa C-119/2005), la quale aveva fatto (a torto) ritenere a taluno la generalizzata cedevolezza dei giudicati interni dei quali si predicasse il contrasto con le regole dell'Unione sol in ragione della loro “primazia” – un'opportuna messa a fuoco della materia, compiuta dalla Corte specialmente in pronunce quali Olimpiclub S.r.l. (del 3 settembre 2009, causa C‑2/08), ed Asturcom Telecomunicaciones SL (del 6 ottobre 2009, causa C-40/08), ha chiarito ciò che ancor oggi la sentenza SPV Project conferma: il principio, cioè, secondo cui «è importante che le decisioni giurisdizionali divenute definitive dopo l'esaurimento delle vie di ricorso disponibili o dopo la scadenza dei termini previsti per tali ricorsi non possano più essere rimesse in discussione». Principio affermato a chiare lettere sin dalla risalente Eco Swiss (del 1° giugno 1999, causa C-126/97) e ribadito ancor da ultimo, prima che nella Project SPV (al punto 57 della motivazione), nella sentenza Banco Primus SA, del 26 gennaio 2017.

Vi sono, però, limiti ed eccezioni.

In Lucchini (ricondotta entro l'alveo di una ragionevole ed equilibrata lettura) a giustificare l'affermazione del dovuto travolgimento del giudicato nazionale risultò essere l'esautorazione ad opera del giudicato nazionale delle competenze esclusive della Commissione nella materia degli aiuti di Stato; in Olimpiclub ciò che apparve “improprio” alla Corte fu l'ultrattività dell'effetto preclusivo/conformativo del c.d. giudicato “esterno” tributario (italiano) su questioni comuni ad una medesima pretesa oggetto di nuovo contenzioso con riguardo ad annate fiscali ulteriori rispetto a quelle già formalmente assistite dall'accertamento definitivo (come a dire che, ferma la sacralità del giudicato con riguardo alla pretesa accertata, ragioni di giustizia sostanziale ne inibiscono l'estensione non necessaria ad oggetti formalmente distinti per la diversità della annata fiscale di riferimento); in Asturcom Telecomunicaciones, ben differentemente, ciò che lasciò prospettare alla Corte un solo eventuale travolgimento del giudicato interno fu l'ipotetica circostanza comparativa della revocabilità del giudicato secondo l'ordinamento nazionale implicato dal rinvio (in quella vicenda, l'ordinamento spagnolo) a fronte di un'analoga violazione di una norma di ordine pubblico interno, in circostanze del tipo di quelle oggetto del rinvio – nella specie: un'opposizione all'esecuzione di lodo arbitrale, consolidatosi, con efficacia pari al giudicato, causa l'inerzia difensiva della consumatrice che non aveva mai eccepito la vessatorietà della clausola compromissoria, né mai impugnato il lodo –, ostando al rispetto del giudicato, in siffatto contesto, il dovuto ossequio al principio “di equivalenza” (ma non quello “di effettività” della tutela); in Finanmadrid EFC SA, infine (del 18 febbraio 2016, causa C-49/14), a giustificare l'affermata superabilità del giudicato, incorporatosi secondo l'ordinamento nazionale (ancora una volta, quello spagnolo) in un decreto ingiuntivo non opposto, fu, diversamente, la presa d'atto che il giudice della domanda monitoria fosse privo, secondo la legge processuale nazionale, del potere di rilevare ex officio la natura eventualmente abusiva di una clausola inserita in un contratto tra un professionista ed un consumatore a mente della Direttiva 93/13/CEE, unitamente al ritenuto sussistere del «rischio non trascurabile che i consumatori interessati non propon[essero] l'opposizione all'ingiunzione» per ragioni correlate alla loro strutturale condizione di “inferiorità” contrattuale ed agli angusti termini di proponibilità.

La sentenza SPV Project e Banco di Desio si affianca oggi, in particolare, ai tasselli di Asturcom Telecomunicaciones e di Finanmadrid – da un lato – e – dall'altro – a quello di Banco Primus SA: segnatamente per il fatto di vertere tutte tali pronunce sul comune tema della verifica d'ufficio, pur “oltre” il giudicato, dell'eventuale natura abusiva di clausole dei contratti consumeristici, a mente della Direttiva 93/13/CEE.

Nella specie, la questione pregiudiziale si innesta più precisamente nel sistema italiano di disciplina del rito monitorio; e (del tutto analogamente a quanto accaduto nella vicenda Finanmadrid) specificamente in relazione al mancato ricorrere, secondo la legge processuale nazionale, del potere di rilievo officioso della vessatorietà delle clausole dei contratti consumeristici in capo al giudice dell'esecuzione adito per l'attuazione di un decreto ingiuntivo non opposto; come tale stabilizzatosi, dunque (in Italia, secondo il comb. disposto di cui agli artt. 647 e 656 c.p.c.), in un assetto ritenuto tradizionalmente equivalente a quello del giudicato sostanziale.

La vicinanza dei tasselli richiamati comporta, tuttavia, la preliminare esigenza di verifica sul loro perfetto incastro, quale condizione indispensabile per l'emergere di un disegno chiaro ed unitario. Ciò che – a mio modo di ritenere – invece non accade, causa una parziale frattura che la recente sentenza (come si dirà, infra, al par. 3) determina in rapporto ad una più risalente giurisprudenza lussemburghese.

Il fondamentale nucleo precettivo della sentenza

Proviamo ad esser chiari, anzitutto evidenziando che SPV Project non perviene all'esito del doveroso superamento dell'effetto preclusivo del giudicato incorporatosi nel decreto ingiuntivo non opposto genericamente, ed in ragione, cioè, di qualsivoglia ipotetico suo contrasto con la direttiva n. 93/13. Ben differentemente, la sentenza censura l'evenienza concreta secondo cui un giudicato su contratto consumeristico abbia potuto formarsi senza che dallo stesso emerga apertis verbis la ponderata legittimità, a giudizio dell'autorità giurisdizionale chiamata ad accertarne gli effetti, delle clausole in esso contenute. E contro tale evenienza reagisce, negando forza inibitoria al giudicato “implicito” nei riguardi del giudice dell'esecuzione.

Il fondamento concettuale della pronuncia permane quello, già molte volte espresso dalla Corte lussemburghese, secondo cui la potestà giudiziale di rilievo officioso dell'eventuale vessatorietà delle clausole dei contratti fra consumatori e professionisti, strutturalmente connotati dalla sproporzione fra le rispettive forze (e, segnatamente, com'è evidente, dalla “inferiorità” del consumatore), costituisce il solo valido antidoto a quella sproporzione; di modo che il sistema processuale nazionale deve prevederne l'esercizio in seno, anzitutto, al giudizio di cognizione. A ciò si aggiunge una considerazione che costituisce il perno motivazionale peculiare alla pronuncia: il fatto, cioè, che per quanto il sistema processuale nazionale possa prevedere in astratto la rilevabilità d'ufficio della vessatorietà della clausola in sede cognitoria (come accade nel sistema italiano della tutela per decreto ingiuntivo), ciò che la direttiva 13/93 impone, alla luce delle garanzie di effettività delle tutele solennemente sancite dall'art. 47 della Carta di Nizza, è che il giudice ne effettui un concreto ed esplicito esercizio.

In mancanza di esso, infatti, l'accennata funzione di compensazione della debolezza contrattuale del consumatore risulterebbe frustrata e non “effettiva”, evidentemente non ritenendo la Corte – a differenza di quanto, ad altro titolo ed in pur simili contesti, si ritiene nell'ordinamento interno italiano (si pensi al diritto vivente sul giudicato implicito di non nullità dei contratti, inaugurato dalle celeberrime sentenze a sez. un. n. 26242 e 26243 del 12/12/2014) – che il silenzio dell'autorità giurisdizionale sulla (non) vessatorietà della clausola possa equivalere ad una pronuncia che apertamente la affermi.

Ciò è quanto emerge – nitidamente, direi – dai passaggi della sentenza (contenuti ai paragrafi 65 e 66) nei quali:

a) preso preliminarmente atto che «una normativa nazionale secondo la quale un esame d'ufficio del carattere abusivo delle clausole contrattuali si considera avvenuto e coperto dall'autorità di cosa giudicata anche in assenza di qualsiasi motivazione in tal senso contenuta in un atto quale un decreto ingiuntivo può, tenuto conto della natura e dell'importanza dell'interesse pubblico sotteso alla tutela che la direttiva 93/13 conferisce ai consumatori, privare del suo contenuto l'obbligo incombente al giudice nazionale di procedere a un esame d'ufficio dell'eventuale carattere abusivo delle clausole contrattuali», se ne trae la conclusione

b) che «in un caso del genere, l'esigenza di una tutela giurisdizionale effettiva impone che il giudice dell'esecuzione possa valutare, anche per la prima volta, l'eventuale carattere abusivo delle clausole del contratto alla base di un decreto ingiuntivo emesso da un giudice su domanda di un creditore e contro il quale il debitore non ha proposto opposizione».

I riportati passaggi della motivazione della sentenza lasciano agevolmente ritenere quanto sopra anticipato: non è il giudicato ipoteticamente violatore della disciplina sostanziale sulla vessatorietà delle clausole dei contratti consumeristici il bersaglio della Corte, quanto la circostanza per cui a quel giudicato si sia pervenuti mediante una valutazione implicita di non vessatorietà della clausola, avendo, per ipotesi, il giudice omesso di esplicitare le ragioni della sua solo presumibile ponderazione della questione di vessatorietà, dovuta ex officio.

In sintesi, potrebbe dirsi che – secondo SPV Project e Banco di Desio – non un qualsivoglia giudicato sul contratto consumeristico del quale successivamente si revochi in dubbio la legittimità relativamente alla questione di vessatorietà di talune sue clausole merita di esser superato, costituendo il giudicato un presidio di civiltà giuridica e di certezza in linea di principio da salvaguardare, pur a fronte di ipotetiche sue violazioni di norme di ordine pubblico (secondo la linea chiarita in Asturcom). Ad esser stigmatizzato è – in modo più circoscritto – l'estensione del giudicato alla deducibile, e tuttavia, non dedotta, questione di vessatorietà, con perdita della garanzia di effettività della tutela riconnessa al ponderato esercizio esplicito della potestà di rilievo officioso funzionale alla tutela del consumatore.

SPV Project 1503 Srl ed Asturcom Telecomunicaciones SL

Ciò chiarito, va ulteriormente evidenziato che la sentenza Asturcom, ove la questione di vessatorietà si appuntava intorno alla clausola negoziale compromissoria, ed il giudicato risultava dunque incarnato in un lodo arbitrale consolidatosi a seguito della mancata proposizione dell'azione di annullamento prevista dall'ordinamento spagnolo, la Corte aveva ritenuto non imporre il superamento del giudicato medesimo una volta preso atto – segnatamente – che tanto in seno al giudizio arbitrale, quanto in seno a quello (successivo ed eventuale) di annullamento del lodo, la questione di vessatorietà, che avrebbe potuto ben pur emergere ex officio), non fosse invece emersa anche a causa della «completa passività» (per dirla con la Corte) della consumatrice; la quale, rimasta contumace nel giudizio arbitrale, aveva di poi, altresì, omesso di proporre il giudizio di annullamento del lodo, per quanto strutturato secondo termini non passibili di vulnerare il principio di libero accesso alla giustizia (a differenza di quanto accaduto , per come sottolineato dalla Corte al paragrafo 33 della sentenza, nella vicenda di cui alla sentenza Mostaza Claro – causa C-186/05, del 26 ottobre 2006 – ove si imponeva unicamente dalla Corte la dovuta proponibilità ex parte, o la rilevabilità ex officio della eventuale vessatorietà di una clausola compromissoria pur solo, per la prima volta, nel giudizio per annullamento del lodo).

Dalla comparazione delle due vicende (la Asturcom e le attuali) emerge – direi – uno iato, reso evidente dalla radicale diversità degli esiti, (pur) a fronte della comune rilevanza, nei due casi, della questione di vessatorietà di clausole di contratto consumeristico, e del fatto che il giudicato che appariva escluderla fosse, in tutte, implicito (sì da abbisognare i giudici dell'esecuzione di un precetto proveniente dalla Corte onde farla emergere, per la prima volta, in seno ai procedimenti esecutivi dinanzi a loro pendenti con esercizio di una potestà loro negata dagli ordinamenti nazionali).

Perché se in SPV Project il carattere implicito del giudicato pare atteggiarsi quale condizione sufficiente ad imporne il doveroso suo superamento, in Asturcom Telecomunicaciones ciò che ne inibì all'opposto il superamento (del tutto ininfluente risultando in quel caso il carattere implicito della pronuncia di non vessatorietà) fu la condizione, a quel fine sufficiente, della “completa passività” della condotta difensiva del consumatore. Di modo che la potenziale coerente composizione fra le due pronunce abbisognerebbe della dimostrazione che la condizione sufficiente alla salvaguardia del giudicato enunciata in Asturcom mancasse in SPV Project, sì da potersi successivamente predicare il sussister dell'ulteriore condizione necessaria per il travolgimento del giudicato quivi affermata, data dal carattere implicito dello stesso sul tema della vessatorietà. Come a dire – schematicamente – che un giudicato va salvaguardato, ancorché implicito, solo se il consumatore è stato inerte nel difendersi fino al suo formarsi, e che, mancata tale inerzia (pur solo per l'azionarsi di una domanda residua di controllo del dictum giudiziale anteriormente al giudicato), solo il carattere implicito della pronuncia sulla (non) vessatorietà della clausola può giustificarne il travolgimento.

Così ricostruito in astratto il (macchinoso, ma, in thesi, coerente) sistema precettivo delle due pronunce, v'è da chiedersi, tuttavia, se le stesse “tengano” alla prova delle evenienze di specie; e, segnatamente, alla prova della verifica in merito alla condotta difensiva del consumatore: dato che la ratio di SPV Project (e Banco di Desio), come detto, può coordinarsi con quella di Asturcom solo a condizione che nella vicenda culminata nella sentenza oggi in commento possa dirsi esclusa la “completa passività” della condotta difensiva del consumatore.

Ben tradisce la necessità del ricorrere di detto elemento discriminante fra i due casi (quale condizione per un esito opposto a quello di Asturcom, che le ordinanze di rinvio sollecitano alla Corte) l'atteggiamento tenuto dal Tribunale rinviante nella vicenda Banco di Desio. Verosimilmente ben consapevole di quanto la non assoluta inerzia difensiva del soggetto da tutelarsi contasse al fine della ipotetica riconoscibilità del rilievo officioso della vessatorietà pur “oltre” il giudicato, il giudice milanese scriveva infatti che «a differenza del consumatore nella causa che ha dato origine alla sentenza del 6 ottobre 2009, Asturcom Telecomunicaciones, ZW, nella controversia di cui al procedimento principale, ha manifestato la propria volontà di avvalersi del carattere abusivo di talune clausole e ha così posto fine all'inerzia manifestata fino alla formazione del giudicato implicito sui titoli esecutivi»; e, consapevole altrettanto che l'inerzia rimproverata alla consumatrice di Asturcom fosse quella avuta anteriormente al formarsi del giudicato, si preoccupava di evidenziare le ragioni di discolpa del consumatore de quo – avente anche ruolo di fidejussore –per non essersi prima del giudicato avvalso dello strumento oppositorio [ravvisandole, segnatamente, nella circostanza secondo cui «al tempo della emissione dei decreti ingiuntivi, non solo non v'erano ancora state le decisioni con le quali la Corte di Lussemburgo ha indicato i parametri alla stregua dei quali anche il fideiussore può essere considerato consumatore […], ma, anche e soprattutto, la costante giurisprudenza di legittimità escludeva la qualifìcabilità del fideiussore, garante di una persona giuridica, quale consumatore.

Pertanto, pur essendo in astratto prevista la possibilità per un (qualsiasi) consumatore di far valere, anche in sede di opposizione a decreto ingiuntivo, la vessatorietà delle clausole contenute nel contratto concluso con il professionista, una simile possibilità era, stante il diritto vivente in vigore, di fatto preclusa alla ZW, la quale (proprio alla luce del costante orientamento della giurisprudenza di legittimità) neppure ha avuto la possibilità di valutare il proprio status di consumatore»]. Tanto scrupolo argomentativo non è stato tenuto in considerazione dalla Corte. La quale, verosimilmente per il fatto che nelle due cause riunite non poteva dirsi ricorrere la stessa peculiare evenienza del consumatore-fidejussore di Banca di Desio, ha preferito escludere senz'altro alcun rilievo al fatto che l'esecutato non conoscesse giustificatamente prima del formarsi del giudicato di potersi dire un consumatore ai sensi della direttiva 13/93, valorizzando, tout court, le esigenze di tutela della parte debole in generale.

A voler, del resto, mettere a confronto la condotta difensiva dei debitori delle cause implicati nelle due vicende dell'odierna pronuncia con quella della consumatrice di Asturcom anteriormente alla formazione del giudicato, è molto difficile cogliere una significativa differenza. Non ravviso, infatti, significative differenze tra chi, contumace nel procedimento arbitrale, lasci poi consolidare il lodo, omettendo di proporre l'istanza di annullamento del medesimo, e chi – fisiologicamente estraneo al contraddittorio nella fase monitoria del procedimento per decreto ingiuntivo – ometta di proporre la domanda di opposizione al decreto, favorendone parimenti il suo stabilizzarsi nel giudicato sostanziale.

Non può dirsi diversamente incompatibile la ratio decidendi della odierna pronuncia con quella di Finanmadrid. In quest'ultima sentenza condizione sufficiente per la ante litteram ammessa potestà di rilevo officioso della vessatorietà della clausola da parte del giudice dell'esecuzione pur dopo la formazione del giudicato incarnatosi in un decreto ingiuntivo non opposto era la peculiare configurazione del rito monitorio spagnolo dopo la riforma realizzata con la legge 13/2009 (in vigore dal 4 maggio 2010), la quale escludeva la sussistenza in capo all'Ufficio giudiziario della fase monitoria (ed in particolare in capo al «Secretario judicial» cui la riforma attribuiva la competenza ad adottare una decisione di ingiunzione di pagamento) della potestà di verifica della vessatorietà della clausola, unita al ravvisato «non trascurabile» rischio che i consumatori interessati non proponessero in quel sistema l'opposizione richiesta, anzitutto a causa del termine particolarmente breve previsto a tal fine: si tratta, dunque, di ragioni strettamente radicate nell'ordinamento spagnolo e non ricorrenti in quello italiano, ove – come noto – il giudice del monitorio anzitutto può ben conoscere delle ragioni in iure di (in)validità dell'accordo negoziale costituente titolo della pretesa ingiuntiva ed il termine per la proposizione dell'opposizione, inoltre, non è particolarmente stringente.

L'impatto che la pronuncia determina sull'ordinamento processuale italiano

Preso atto della frattura che – a nostro modo di vedere – la pronuncia in commento determina specificamente in rapporto alla giurisprudenza Asturcom Telecomunicaciones, e ritenuto, dunque, che alla luce della nuova posizione della Corte anche l'inerzia difensiva assoluta del consumatore che, con effettiva possibilità di accesso alla giustizia, abbia omesso di opporsi al decreto ingiuntivo italiano, non osta al superamento del giudicato implicito sulla vessatorietà, va meglio analizzato l'impatto che nel nostro ordinamento processuale la pronuncia determina.

A tale riguardo, escluderei anzitutto che da SPV Project e Banco di Desio debba derivare – de iure condendo – la posizione di un apposito nuovo motivo revocatorio, come potrebbe – invece – legittimamente predicarsi per illegittimità del tipo di quella emersa dalla giurisprudenza Lucchini (Consolo, Il primato del diritto comunitario può spingersi fino a intaccare la “ferrea” forza del giudicato sostanziale? in Corr. giur., 2007, p. 1189 ss., passim).

Il vulnus che la pronuncia pregiudiziale stigmatizza deriva – come già chiarito – dal silenzio serbato dal giudice sulla dovuta ponderazione da parte sua in merito alla vessatorietà delle clausole dei contratti consumeristici: vulnus chela Corte ritiene adeguatamente riparabile ravvisando in sede esecutiva il contesto entro cui poter far emergere quella medesima questione: o per l'avanzarsi della relativa eccezione da parte dell'interessato, o per il rilievo officioso di essa. Si tratta di un rimedio che assicura alla questione di vessatorietà della clausola lo status di questione sottratta all'effetto preclusivo del giudicato sul deducibile, ma non dedotto; e la sede processuale ritenuta dalla Corte del Lussemburgo idonea al rilievo appare incompatibile con la scelta di un rimedio impugnatorio come la revocazione; la quale, peraltro, considerato il carattere non occulto del vizio in questione, dovrebbe essere quella ordinaria, che ragioni sistematiche escludono possa ricorrere per vizi ulteriori rispetto ai due che la storia dell'istituto ha eccezionalmente riservato ad essa.

Coerentemente con tale ricostruzione sistematica ha da ritenersi che per l'ipotesi di pronunce sul contratto parimenti manchevoli di una valutazione esplicita di (non) vessatorietà della clausola, ma a carattere dichiarativo (sì da non potersene predicare l'efficacia di titolo esecutivo), la parte possa azionare una domanda di accertamento della vessatorietà in prime cure, non preclusa dal silenzio del giudice sulla questione.

Può trarsi dalla sentenza pregiudiziale in questione l'ulteriore conseguenza dell'incompatibilità con l'ordine dell'Unione del controverso istituto del giudicato implicito, che – come noto – il diritto vivente italiano amplia ormai da tempo a contenuti di merito su questioni pregiudiziali alla pronuncia resa in ragione del loro contenuto logicamente necessitato rispetto ad essa (come esemplarmente si è ritenuto far valere per la pronuncia implicita di “non nullità” negoziale, allorquando il giudice abbia deciso su un qualsivoglia effetto contrattuale, e, se del caso, altresì sulle vicende di rescissione/risoluzione o di annullamento negoziale)?

Personalmente, non ritengo che il tenore motivazionale di SPV Project e Banco di Desio possa indurre a tale estensione di senso precettivo.

Vi è, indubbiamente, nella sentenza un esplicito disfavore verso l'idea che possa considerarsi coperta dall'efficacia preclusiva del giudicato l'implicita pronuncia su una questione rilevabile ex officio in merito alla quale, a corollario del silenzio serbato dal giudice su di essa, non si sia esercitato alcun contraddittorio fra le parti, né si sia fornita alcuna motivazione.

Tale disfavore, tuttavia, par trovare giustificazione sul terreno propriamente sostanziale della specifica posizione di interesse da tutelarsi e non – nonostante l'evocazione dell'art. 47 della Carta di Nizza – sulla scorta di ragioni di effettività della tutela colte in funzione di valori schiettamente processuali.

I confini entro i quali opererebbe secondo tale visione lo stigma della Corte lussemburghese verso il giudicato implicito sono dunque quelli dei giudicati riguardanti, analogamente a quanto valevole per la pronuncia in questione, eccezioni rilevabili ex officio a carattere di merito per le quali possa predicarsi un valore di norma imperativa analogo a quello proprio della disciplina sulla illegittimità delle clausole vessatorie a carico dei consumatori (un contesto analogo potrebbe forse cogliersi in discipline riguardanti altra “parte debole” di un rapporto negoziale, quali i lavoratori subordinati, o determinate minoranze presuntivamente vittime di discriminazioni), ma non ritengo possa estendersi a questioni di merito coinvolgenti interessi fra parti equiparate fra loro sul piano dei rapporti socio-economici.

(segue) Alcune conseguenze eterodosse per il sistema italiano delle quali prender atto in ossequio alla giurisprudenza lussemburghese

Ribadito che la pronuncia in commento incide, dunque, sul riconoscimento di un potere di rilevazione officioso sulla vessatorietà della clausola di cui il giudice dell'esecuzione deve esser munito, vi è, peraltro, da sciogliere il nodo della esatta sede in cui ciò debba poter accadere.

A leggere le vicende dei giudizi di provenienza dei due rinvii riuniti [le relative ordinanze, della III sez. civile del Trib. di Milano, del 10 agosto 2019 (relativa alla causa C-693/19) e del 31 ottobre 2021 (relativa alla causa C-831/19) - sono consultabili alle pagine web: curia.europa.eu] può evincersi che per entrambi la dichiarazione di volersi avvalere della abusività delle clausole (nel caso SPV Project, la clausola determinativa della misura dell'interesse moratorio; nel caso Banco di Desio, numerose clausole opposte al consumatore/fideiussore contenute nei contratti di fideiussione conclusi con i creditori muniti di titolo esecutivo) fosse scaturita dalla sollecitazione proveniente officiosamente dal giudice dell'esecuzione, di modo che, pur essendosi premurato il Tribunale di rammentare, in un passaggio dell'ordinanza di rinvio relativa alla causa Banco di Desio (cfr. § 2, quartultimo cpv.), la giurisprudenza della Cassazione secondo cui «la proposizione di un'opposizione all'esecuzione non richiede particolari forme, potendo la stessa essere formulata anche oralmente nell'udienza avanti al giudice dell'esecuzione ovvero mediante deposito, in tale udienza, di una comparsa di risposta» (e ciò era quanto verosimilmente accaduto nella specie al fine della dichiarazione da parte del debitore esecutato di avvalersi della vessatorietà, ricevuta però sollecitazione originaria dal giudice), non può negarsi che la questione della titolarità del potere di rilievo officioso della vessatorietà resti propriamente radicata in seno al procedimento esecutivo e non in quello di opposizione all'esecuzione.

E su tale scia, del resto, si collocano le espressioni della motivazione e del dispositivo della sentenza lussemburghese, che sempre parlano di «giudice dell'esecuzione», limitandosi solo a rammentare, in un passaggio della porzione narrativa della sentenza, la pari assenza nel sistema italiano di poteri officiosi di controllo sul contenuto intrinseco del titolo causata dall'effetto preclusivo del giudicato (o dall'eventuale pendenza cognitoria sul credito) oltre che per il giudice dell'esecuzione in quanto tale, altresì in capo allo stesso quale giudice dell'opposizione all'esecuzione.

L'effetto che deriva a carico del sistema nazionale è piuttosto dirompente.

Lungi, infatti, dal dover pretendersi l'avanzamento di un giudizio di opposizione all'esecuzione (se del caso, pur ad altro titolo avviato dal debitore) quale sede cognitoria in seno alla quale il giudice adito eserciti la potestà di rilievo officioso in merito alla vessatorietà delle clausole attribuitagli dalla pronuncia, il sistema vedrà del tutto innovativamente arricchito l'armamentario dei poteri di controllo officiosi del giudice dell'esecuzione in quanto tale, sebbene, per come dovuto in base alla specifica disciplina sulle nullità di protezione, il relativo esercizio aprirà ad un esplicito contraddittorio inter partes sul thema preliminarmente al fine di sollecitare la scelta del consumatore di volersi avvalere o meno della nullità.

Si tratta di un esito, del resto, funzionale alla effettività della tutela per come perseguita dalla pronuncia, non potendosi ragionevolmente subordinarla alla mera occasionale evenienza del pendere di una opposizione all'esecuzione ad altro titolo avviata dal debitore; né, del resto, la garanzia imposta dalla Corte potrebbe subordinarsi alla circostanza che la questione di vessatorietà costituisca quella propria della opposizione all'esecuzione da avviarsi ad opera del legittimato, a pena di smentire frontalmente il riconosciuto carattere officioso della rilevabilità della questione medesima.

In termini pratici, credo opportuno sottolineare due circostanze.

La prima: che il giudice italiano del decreto ingiuntivo, in quanto titolare del potere di valutazione officiosa della vessatorietà eventuale delle clausole del contratto consumeristico, dovrà sempre avere l'accortezza di non tacere sulla questione; allorché ritenga la vessatorietà, quale passaggio per la provocazione del consumatore, in sede di opposizione, a manifestare la propria volontà di avvalersi o meno della clausola (volontà che la mancata opposizione esprimerà tacitamente in senso ammissivo); allorché non la ritenga, affermandolo onde escludere una pronuncia implicita che la giurisprudenza in commento sottrarrebbe, altrimenti, alla portata oggettiva del futuro ed eventuale giudicato.

Quanto alla seconda circostanza, essa attiene alla opportuna evenienza che, in assenza di pronuncia espressa del giudice della fase monitoria, sia il giudice dell'opposizione a decreto (se adìto) a farsi carico di esplicitare la propria posizione sul thema della vessatorietà (con sollecitazione del contraddittorio ante sententiam). E ciò, per ragioni di economia processuale (e pur contrastando la tradizionale sistematica sull'ordine delle pronunce), anche quando – direi – l'opposizione avesse da dichiararsi inammissibile in rito, con conseguente consolidamento del decreto (per il caso di mancata iniziativa impugnatoria in appello).
Tale indubbiamente eterodossa pratica appare infatti funzionale a scongiurare che il thema emerga per la prima volta in sede esecutiva (per iniziativa originaria del giudice dell'esecuzione, o per effetto della proposizione di apposita opposizione all'esecuzione), con dispendio di tempo e di risorse ed eventualità di condotte maliziose del debitore. Il legittimato che intendesse accedere ad una censura in appello sulla questione di vessatorietà per come decisa in seno alla sentenza definitoria della opposizione a decreto non avrebbe, peraltro, l'onere, per ottenerne cognizione in seconde cure, di impugnare anche il capo sulla inammissibilità (essendo il sistema stesso, per le illustrate ragioni, ad autorizzare l'anomalo frammento di pronuncia sul merito accessoriamente a quella di inammissibilità).

Si tratta, di un innesto marcatamente eterodosso (non potendosi di regola tollerare, ovviamente, una volta ritenuta l'inammissibilità in rito della domanda, alcuna fisiologica pronuncia accessoria sul merito della stessa); un innesto cui, tuttavia, la giurisprudenza SPV Project induce: ad evitare la traslazione in avanti della sede cognitoria sulla questione di vessatorietà fin lì taciuta, a tutela dell'interesse collettivo e di quello del creditore, con risparmio – comune – di tempo e di risorse.

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