Il progettista può beneficiare dell'esimente da accettazione dell'opera se ci sono vizi conoscibili dal committente?

Alessandro Benni de Sena
30 Settembre 2022

In presenza di vizi del progetto (conosciuti o facilmente conoscibili) il progettista può avvalersi della speciale disciplina dell'art. 2226 c.c. se vi è accettazione dell'opera da parte del committente?

Relativamente alla responsabilità del progettista, quest'ultimo, relativamente a vizi riguardanti il progetto dallo stesso elaborato, può beneficiare dell'esimente prevista dall'art 2226 1° comma c.c., consistente nell'accettazione dell'opera, da parte del committente (con correlativo pagamento del corrispettivo), in presenza di vizi conosciuti o facilmente conoscibili?

La questione merita di essere articolata in diverse ipotesi.

In primo luogo, è interessante verificare il rapporto con l'art. 1669 c.c. e il regime di responsabilità.

In via generale, quando l'opera eseguita in appalto presenta gravi difetti dipendenti da errata progettazione, il progettista è responsabile, con l'appaltatore (ed eventualmente anche con il direttore dei lavori, ove presente), verso il committente, ai sensi dell'art. 1669 c.c., a nulla rilevando in contrario la natura e la diversità dei contratti cui si ricollega la responsabilità, perché “l'appaltatore ed il progettista, quando con le rispettive azioni od omissioni — costituenti autonomi e distinti illeciti o violazioni di norme giuridiche diverse — concorrono in modo efficiente a produrre uno degli eventi dannosi tipici indicati nell'art. 1669 c.c., si rendono entrambi responsabili dell'unico illecito extracontrattuale, e rispondono entrambi, a detto titolo, del danno cagionato.

Trattandosi di responsabilità extracontrattuale, specificamente regolata anche in ordine alla decadenza ed alla prescrizione, non spiega alcun rilievo la disciplina dettata dagli artt. 2226 e 2330 c.c., e si rivela ininfluente la natura dell'obbligazione — se di risultato o di mezzi — che il professionista assume verso il cliente committente dell'opera data in appalto (Cass. civ., sez. II, 21 maggio 2012, n. 8016).

Infatti, «la previsione dell'art. 1669 cod. civ. concreta un'ipotesi di responsabilità extracontrattuale, con carattere di specialità rispetto al disposto dell'art. 2043 cod. civ., fermo restando che - trattandosi di una norma non di favore, diretta a limitare la responsabilità del costruttore, bensì finalizzata ad assicurare una più efficace tutela del committente, dei suoi aventi causa e dei terzi in generale - ove non ricorrano in concreto le condizioni per la sua applicazione (come nel caso di danno manifestatosi e prodottosi oltre il decennio dal compimento dell'opera) può farsi luogo all'applicazione dell'art. 2043 cod. civ., senza che, tuttavia, operi il regime speciale di presunzione della responsabilità del costruttore contemplato dall'art. 1669 cod. civ., atteso che spetta a chi agisce in giudizio l'onere di provare tutti gli elementi richiesti dall'art. 2043 cod. civ., compresa la colpa del costruttore» (per tutti, Cass. civ., Sez. Un., 3 febbraio 2014, n. 2284).

Dunque, il progettista potrebbe essere responsabile restando irrilevante l'art. 2226 c.c.

In secondo luogo e fuori di queste ipotesi, con riferimento al quesito posto (responsabilità del progettista per vizi riguardanti il progetto stesso) si pone la questione dell'applicabilità dell'art. 2226 c.c. in caso di accettazione dell'opera da parte del committente in presenza di vizi conosciuti o facilmente riconoscibili.

Ebbene, la giurisprudenza, pur nell'incertezza iniziale, ha evidenziato che «l'obbligazione del professionista non è soggetta alla disciplina della decadenza e della prescrizione previste a riguardo della garanzia nel contratto d'opera, e ciò a prescindere dalla distinzione tra obbligazioni di risultato e c.d. obbligazioni di mezzi, distinzione che va respinta in quanto tutte le obbligazioni implicano un risultato e unica è la responsabilità del debitore, professionista o non professionista.

Le Sezioni Unite, componendo un contrasto di giurisprudenza, hanno infatti stabilito che le disposizioni di cui all'art. 2226 c.c. in tema di decadenza e prescrizione dell'azione di garanzia per vizi sono inapplicabili alla prestazione d'opera intellettuale, in particolare alla prestazione del professionista che abbia assunto l'obbligazione della redazione di un progetto di ingegneria o della direzione dei lavori ovvero dell'uno o dell'altro compito, cumulando nella propria persona i ruoli di progettista e direttore dei lavori» (Cass. civ., Sez. Un., 28 luglio 2005, n. 15781; Cass. civ., sez. II, 24 marzo 2014, n. 6886).

In effetti, l'art. 2226 c.c. si applica al contratto d'opera, dunque presuppone che il lavoro sia sfociato nel compimento di un opus o nello svolgimento di un servizio.

Viceversa, il progettista è un prestatore d'opera intellettuale: in ogni caso assume un'obbligazione di mezzi per cui non è concepibile una “consegna” e pur quando concorra funzionalmente alla realizzazione di un opus, l'accettazione dell'opera da parte del committente non esonera da responsabilità per inadempimento dell'obbligazione di mezzi (Cass. civ., sez. II, 21 ottobre 1991, n. 11116; MUSOLINO G., Il direttore dei lavori. L'incarico e la relativa responsabilità, in Resp. civ. e prev., 2020, 404).

In generale, quindi, le disposizioni dell'art. 2226 c.c. sono inapplicabili alla prestazione d'opera intellettuale (come il progettista) in considerazione dell'eterogeneità della sua prestazione rispetto a quella manuale, cui si riferisce l'art. 2226 c.c. Quest'ultima norma non è da considerare fra quelle richiamate dall'art. 2230 c.c. in tema di prestazione d'opera intellettuale: alle disposizioni sul contratto d'opera manuale il legislatore rinvia solo se compatibili con le statuizioni specifiche sulla prestazione professionale e con la natura del relativo rapporto (Cass. civ., sez. II, 20.12.2013, n. 28575; Cass. civ., sez. II, 24 marzo 2014, n. 6886).

In terzo luogo, rispetto al quesito posto, residua un dubbio (più teorico che reale, probabilmente) sulla rilevanza del pagamento del corrispettivo da parte del committente in presenza di vizi (specie se) conosciuti. Così, si potrebbe pensare a vizi marginali.

Fermo che al professionista spetterebbe una rigorosa prova, in presenza di inadempimenti del tutto marginali (e conosciuti) e del pagamento, potrebbe ipotizzarsi una rinunzia implicita e risultante da atti univoci (i cosiddetti facta concludentia), dai quali possa desumersi che il creditore abbia ritenuto più conforme ai propri interessi procedere all'esecuzione del contratto, accettando la prestazione pur in presenza di vizi conosciuti, senza contestazione, così affermando la persistenza del proprio interesse alla prestazione.

È chiaro che questa ipotesi, molto limitata e complessa, attiene all'apprezzamento delle specificità e delle circostanze del singolo caso concreto.

«La stipulazione di un contratto a prestazioni corrispettive e l'inadempimento di uno dei contraenti sono, ai sensi dell'art. 1453 c.c., i fatti costitutivi del diritto dell'altro contraente ad ottenere la risoluzione del contratto, ovvero l'adempimento, ed in ogni caso il risarcimento del danno; ma ciascuno di tali diritti, configurandosi in termini di diversità ed autonomia rispetto a ciascun altro, può legittimamente costituire oggetto di rinuncia senza che, per ciò solo, gli effetti di tale rinuncia debbano automaticamente estendersi anche agli altri (nella specie, senza che la rinuncia all'azione esperita per ottenere il risarcimento dei danni comporti, ipso facto, rinuncia all'azione di adempimento in forma specifica), a meno che l'atto abdicativo non si atteggi, in concreto, come rinuncia "tout court" a far valere tutti i diritti conseguenti al fatto dell'inadempimento della controparte» (Cass. civ., sez. III, 10.12.2019, n. 32126; Cass. civ., sez. II, 12.10.2000, n. 13598).

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