Il danno da tardiva diagnosi oncologica: scenari risarcitori e metodi liquidativi
Diego Modesti
05 Ottobre 2022
Il presente contributo si propone di analizzare i diversi scenari che possono schiudersi in ambito civilistico quando la malpractice è rappresentata dal non infrequente accadimento di tardiva diagnosi oncologica. A tal fine, si procederà con l'analisi delle possibili situazioni fattuali e delle correlate poste di danno risarcibili, accanto ad una breve disamina dei metodi liquidativi maggiormente utilizzati in giurisprudenza.
Introduzione
La tematica in esame – al di là dal grado di severità, spesso esiziale, della malattia – accanto alle questioni attinenti agli aspetti clinico-terapeutici solleva importanti interrogativi sia in ambito giuridico che in quello più spiccatamente bioetico. Ed è attraverso la lente di questa delicata disciplina che è possibile cogliere un'attenzione sempre più crescente nei confronti dei pazienti oncologici quale autonoma categoria di persone portatrici di diritti, facoltà ed aspettative particolarmente meritevoli di protezione.
La concreta attenzione rivolta verso le malattie oncologiche è, peraltro, testimoniata dagli allarmanti dati statistici. Nel nostro Paese, si stima che le nuove diagnosi di tumore siano pari a 377.000 all'anno, mentre il numero di decessi nel 2017 è stato pari a 179.091, come risulta dai dati ISTAT (v. AIRC, Le statistiche del cancro, 25 ottobre 2021, in www.airc.it).
La pandemia, com'è tristemente noto, ha drammaticamente rallentato l'attività di prevenzione: rispetto al 2019, nel 2021 vi è stata una limitazione dell'8% delle nuove diagnosi; i ricoveri per interventi chirurgici sono diminuiti del 3%; il numero di terapie somministrate all'interno delle strutture sanitarie nel 2021 si è ridotto del 13 % (cfr. AIRC, Diagnosi e interventi, i tempi di attesa sono di nuovo lunghissimi, 28 marzo 2022, in www.airc.it. In merito all'interferenza pandemica rispetto a prevenzione, diagnosi e cura delle neoplasie si rimanda a AIOM, Tumori: serve il “Recovery Plan” contro i danni del Covid. Più diagnosi avanzate e assistenza domiciliare solo nel 68% dei centri, 3 febbraio 2022, in www.aiom.it,secondo le cui stime «Nel 2020, in Italia, le nuove diagnosi di neoplasia si sono ridotte dell'11% rispetto al 2019, i nuovi trattamenti farmacologici del 13%, gli interventi chirurgici del 18%. Non solo. Gli screening per il tumore della mammella, della cervice uterina e del colon retto hanno registrato una riduzione di due milioni e mezzo di esami nel 2020 rispetto al 2019. Sono state stimate anche le diagnosi mancate: oltre 3300 per il tumore del seno, circa 1300 per il colon-retto (e 7474 adenomi in meno) e 2782 lesioni precancerose della cervice uterina»).
Con queste non incoraggianti premesse ci si accinge, dunque, ad affrontare la suesposta tematica all'interno delle direttrici operative indicate supra.
Il punto di partenza e l'oggetto stesso d'indagine possono senza dubbio farsi coincidere con la nota Cass. civ., sez. III, sent. 11 novembre 2019, n. 28993, – facente parte del più ampio corpus antologico rappresentato dal c.d. “San Martino II”, – la quale contiene la summa delle possibili conseguenze dannose risarcibili nell'ipotesi di acclarata responsabilità sanitaria con particolare riguardo all'ambito oncologico.
Saranno, dunque, prese in esame le ipotesi in cui la condotta del sanitario:
abbia cagionato la morte del paziente, mentre una diagnosi corretta e/o tempestiva ne avrebbe consentito la guarigione;
abbia cagionato una significativa riduzione della durata della vita del paziente ed una peggiore qualità della stessa per tutta la sua minor durata;
non abbia avuto alcuna incidenza causale sullo sviluppo della malattia, sulla sua durata e sull'esito finale, rilevando esclusivamente sulla qualità ed organizzazione della vita del paziente;
abbia avuto, quale conseguenza, un evento di danno incerto, espresso cioè in termini di insanabile incertezza scientifica rispetto all'eventualità di una maggior durata della vita e di minori sofferenze.
Esaminiamo partitamente le singole casistiche.
L'ipotesi sub a: la condotta del sanitario ha cagionato la morte del paziente, mentre una diagnosi corretta e/o tempestiva ne avrebbe consentito la guarigione
è, in estrema sintesi, il caso in cui, dalla CTU svolta in corso di causa, è emerso che la condotta (molto più frequentemente omissiva) si pone come causa immediata e diretta dell'exitus. Nella trasposizione argomentativa del presente scritto, si tratta, nella sostanza, dell'ipotesi in cui l'omissione diagnostica di una neoplasia ha, di fatto, determinato l'instaurarsi della malattia ad esito letale, quando l'attività doverosa che avrebbe, invece, dovuto attuarsi sarebbe risultata risolutiva quoad vitam et valetudinem sulla base di un giudizio controfattuale. Nel procedere a siffatto giudizio, risulta necessario tenere conto, sotto il profilo causale, dello standard di ricostruzione del nesso rappresentato dalla preponderanza dell'evidenza (e considerare, altresì, che il procedimento logico-giuridico da seguire ai fini della ricostruzione del nesso causale implica che l'ipotesi formulata vada verificata riconducendone il grado di fondatezza all'ambito degli elementi di conferma – e nel contempo di esclusione di altri possibili alternativi – disponibili in relazione al caso concreto secondo la c.d. probabilità logica o baconiana
–
(cfr. Cass. civ., sez. III, ord. 06 luglio 2020, n. 13872).
In tal caso – mutuando le parole dell'estensore di Cass. civ., sez. III, sent. 11 novembre 2019, n. 28993 – l'evento (conseguenza del concorso di due cause, ossia la malattia e la condotta colpevole) sarà attribuibile interamente al sanitario).
Profili risarcitori
Riprendendo e proseguendo la narrazione, il sanitario (e, per sineddoche, l'Azienda e/o la Compagnia), sarà chiamato, pertanto, a rispondere del danno biologico causato al paziente e del danno da lesione del rapporto parentale cagionato ai familiari.
Il danno biologico causato al paziente: il danno terminale
Nella prospettiva di un'omessa diagnosi ad esito infausto, spazzati gli equivoci semantici ed epistemologici che derivavano dalla prospettazione di un danno da morte, viene qui in rilievo il c.d. danno terminale (per una valutazione complessiva di tale posta, sia consentito rinviare a D.Modesti, Il danno terminale e la sua liquidazione tra Cassazione, tabelle milanesi e prospettive di riforma, in Il Caso.it, 26 ottobre 2021).
Secondo l'oramai consolidato orientamento della Suprema Corte, il pregiudizio in esame consiste in un danno-conseguenza caratterizzato da un periodo di inabilità temporanea totale, risarcibile iure hereditatis e contrassegnato dal protrarsi dell'invalidità psicofisica nel periodo che intercorre tra il danno e l'exitus. Peraltro, trattandosi di una compromissione dell'integrità psicofisica della vittima, il danno biologico terminale è suscettibile di ristoro esclusivamente nell'ipotesi in cui vi sia stato un apprezzabile “deterioramento della qualità della vita in ragione del pregiudizio alla salute” (cfr. Cass. civ., sez. III, sent., 27 settembre 2017, n.22451).
Accanto a tale profilo biologico, può aggiungersi una componente di sofferenza psichica (c.d. danno catastrofale) nell'ipotesi in cui la vittima abbia lucidamente avvertito l'ineluttabile approssimarsi della propria fine. In altri termini, il danno terminale può sussistere – nella sola componente biologica – a prescindere dalla presenza o meno della “lucida agonia”, la quale, non essendo appunto un elemento necessario del danno terminale, rappresenta un quid pluris che, se provato, è idoneo ad incidere sulla liquidazione della componente biologica (cfr. Cass. civ., sez. VI, ord., 17 settembre 2019, n. 23153.
Da tale indirizzo si discostano, invece, le Tabelle di Milano, le quali offrono una definizione onnicomprensiva del danno terminale, “tale da ricomprendere al suo interno ogni aspetto biologico e sofferenziale connesso alla percezione della morte imminente”. Il danno terminale rappresenta, dunque, la sintesi della componente biologica e di quella psichica, morfologicamente indistinguibili seppure parti del tutto. Ma è solo la percezione della morte imminente che funge da vero elemento catalizzatore, con la conseguenza che l'assenza della formido mortis determina fatalmente il venir meno dello stesso danno.
La ragione sottesa a questa concezione totalizzante del danno terminale è rappresentata, per espressa indicazione dell'Osservatorio, dalla necessità di evitare il rischio di duplicazione di medesime poste di danno, cosicché la categoria del danno terminale andrebbe, appunto, a ricomprendere tanto la componente biologica terminale quanto quella morale catastrofale.
Sotto il profilo risarcitorio, ai fini del riconoscimento della posta di danno in esame, accanto al presupposto imprescindibile della consapevolezza della fine imminente, risulta necessaria la sussistenza, tra lesione e decesso, di un lasso di tempo minimo, ma necessario, per l'elaborazione e la rappresentazione dell'incombente exitus. Ne consegue che qualora la formido mortis non sia accompagnata da un lasso di tempo apprezzabile, non potrà essere riconosciuto alcun risarcimento agli eredi. Alla medesima conclusione si deve giungere nell'ipotesi in cui, tra la lesione ed il decesso, la vittima versasse in stato di incoscienza.
Metodi liquidativi
Il criterio proposto dall'Osservatorio individua il parametro liquidativo del danno terminale sulla base dell'intensità crescente e può essere così riassumibile: il periodo massimo di riferimento è convenzionalmente individuato in cento giorni, oltre i quali il danno non può prolungarsi (tornerà ad essere risarcibile esclusivamente il danno biologico temporaneo ordinario); nei primi tre giorni di danno terminale, il giudice può liberamente – secondo una valutazione personalizzata ed equitativa – liquidare il danno, con il solo limite del tetto massimo fissato in Euro 30.000,00, non ulteriormente personalizzabili. Dal quarto giorno vengono stabiliti dei valori pro die in senso decrescente, i quali possono subire una maggiorazione per effetto della personalizzazione, che – tenuto conto delle circostanze del caso concreto e del particolare sconvolgimento provato – non può superare il cinquanta per cento.
Secondo l'impostazione offerta dalla Suprema Corte, diversamente, ai fini della liquidazione del danno biologico terminale si deve fare riferimento alle tabelle relative all'invalidità temporanea assoluta. Quanto, poi, al danno catastrofale, vi sono due orientamenti: da un lato, se ne affida la liquidazione ad un criterio equitativo puro che tenga conto dell'enormità della sofferenza psichica (cfr. Cass. civ., sez. III, ord., 20 giugno 2019, n. 16592) e, dall'altro, si propone una valutazione da effettuarsi mediante personalizzazione che tenga conto dell'entità e dell'intensità delle conseguenze derivanti dalla lesione della salute in vista dell'exitus (cfr. Cass. civ., sez. III, ord., 6 luglio 2020, n. 13870).
Il danno causato ai familiari: la perdita del rapporto parentale
L'esito infausto, come indicato supra, può certamente incidere sull'insieme dei rapporti che i familiari intrattenevano con il paziente, potendo, altresì, comportare loro un danno economicamente risarcibile.
Non è questa la sede per attardarsi in approfondimenti definitori. Basterà richiamare gli ormati noti princìpi ribaditi dalla Suprema Corte e fatti propri dalle tabelle dell'Osservatorio in subiecta materia ed altresì ricordare che, per giurisprudenza costante, i familiari, non essendo considerati terzi protetti dal contratto di spedalità, hanno l'onere di agire nel termine quinquennale previsto per il danno aquiliano.
Metodi liquidativi
La nota Cass. civ., sez. III, sent. 21 aprile 2021, n.10579, seguita successivamente da altre pronunce, aveva assestato una decisa spallata al metodo milanese c.d. “a forbice” in favore di un sistema liquidativo a punti maggiormente eclettico e composito.
L'Osservatorio ha immediatamente reagito alle indicazioni provenienti dalla Suprema Corte ed ha prontamente varato la c.d. “tabella a punti”, partendo dai valori monetari previsti dalla precedente formulazione della tabella, “ricavando il ‘valore punto' per il caso di perdita di genitori/figli/coniuge/assimilati nonché per il caso di perdita di fratelli/nipoti rispettivamente di € 3.365,00 e di € 1.461,20 e proponendo poi una distribuzione dei punti:
secondo i parametri di fatto indicati dalla Corte di cassazione (e già previsti in linea generale dalla precedente versione milanese) corrispondenti all'età della vittima primaria e della vittima secondaria, alla convivenza tra le due, alla sopravvivenza di altri congiunti, alla qualità e intensità della specifica relazione affettiva perduta;
- tenendo conto delle risultanze del monitoraggio di circa 600 sentenze di merito in tema di liquidazione del danno in esame
- e prevedendo poi, sempre per adeguarsi agli esiti del monitoraggio nel rispetto dei valori monetari delle precedenti tabelle, che i punti astrattamente attribuibili siano maggiori di 100 (118 e 116 rispettivamente) con un “cap” pari al valore monetario massimo della ‘forbice' delle precedenti tabelle, così consentendo la liquidazione del massimo valore risarcitorio in diverse ipotesi e non in un solo caso, salva sempre la ricorrenza di circostanze eccezionali” (cfr. Osservatorio sulla giustizia civile di Milano, Nuovi "Criteri orientativi per la liquidazione del danno non patrimoniale derivante da perdita del rapporto parentale - Tabelle integrate a punti Edizione 2022").
L'ipotesi sub b: la condotta del sanitario ha cagionato una significativa riduzione della durata della vita del paziente ed una peggiore qualità della stessa per tutta la sua minor durata
Nel caso in esame, la tardiva diagnosi della patologia tumorale ha comportato un'accelerazione del processo morboso terminale del paziente, concretizzandone la perdita anticipata della vita. Questa, in ambito sanitario, si verifica nell'ipotesi in cui il danneggiato, già in condizioni invalidanti idonee a condurlo alla morte a prescindere da eventuali condotte di terzi, deceda a seguito dell'intervento (commissivo od omissivo) dei sanitari.
In tali casi,
–
afferma la Suprema Corte
–
, la risarcibilità iure proprio del danno patrimoniale e non patrimoniale riconosciuto ai congiunti potrà subire un ridimensionamento in considerazione del verosimile arco temporale in cui i congiunti avrebbero potuto ancora godere, sia sul piano affettivo che economico, del rapporto con il soggetto anzitempo deceduto (sul danno da perdita anticipata del rapporto parentale si consenta il rinvio a D. Modesti, Il danno da perdita anticipata del rapporto parentale: spunti per la quantificazione, in Ri.Da.Re,Focus del 31 maggio 2022).
L'ipotesi in parola, va rimarcato, non è affatto diversa morfologicamente da quella afferente al danno da perdita del rapporto parentale, essendo con quest'ultimo in relazione meramente dimensionale. Ed infatti, non dà corpo ad extra petita la liquidazione giudiziale del danno, identificato nella perdita anticipata del rapporto parentale, effettuata circoscrivendo la portata dell'originaria domanda (perdita del rapporto parentale tout court) in via d'interpretazione dell'atto di citazione del tipo quanti minoris - purché fondata sul medesimo fatto storico e sui medesimi elementi costitutivi
–
(così Cass. civ., sez. III, sent. 9 marzo 2018, n. 5641).
Sussistendo il nesso causale diretto tra omissione ed exitus, il sanitario – afferma l'estensore – “sarà chiamato a rispondere dell'evento di danno costituito dalla perdita anticipata della vita e dalla sua peggior qualità, senza che tale danno integri una fattispecie di perdita di chance - senza, cioè, che l'equivoco lessicale costituito dal sintagma ‘possibilità di un vita più lunga e di qualità migliore' incida sulla qualificazione dell'evento, caratterizzato non dalla ‘possibilità di un risultato migliore', bensì dalla certezza (o rilevante probabilità) di aver vissuto meno a lungo, patendo maggiori sofferenze fisiche e spirituali”.
Profili risarcitori
La ricostruzione del nesso di derivazione eziologica esistente tra la condotta del debitore o del danneggiante e le conseguenze dannose risarcibili implica la scomposizione del giudizio causale in due autonomi e consecutivi segmenti. Segnatamente, il primo è volto ad identificare – in applicazione del criterio del “più probabile che non” – il nesso di causalità materiale che lega la condotta all'evento di danno (che, in questo caso, è pacificamente sussistente), mentre il secondo è diretto ad accertare il nesso di causalità giuridica che lega tale evento alle conseguenze dannose risarcibili, accertamento, quest'ultimo, da compiersi in applicazione dell'art. 1223 c.c., norma che pone essa stessa una regola eziologica (cfr. Cass. civ., sez. III, sent. 17 settembre 2013, n. 21255).
La differenza rispetto all'ipotesi sub 1, per gli effetti e come detto, risulta meramente “quantitativa”. Ed infatti, dalla tardiva diagnosi vi sarà, per il paziente, una possibile verificazione di un danno biologico, mentre i familiari potranno invocare, sussistendone i presupposti, il danno da perdita anticipata del rapporto con il proprio congiunto, come si passa di seguito ad esaminare.
Il danno biologico causato al paziente: il danno terminale
L'ipotesi in parola è del tutto analoga a quella esaminata supra, alla quale si rinvia integralmente.
Il danno causato ai familiari: la perdita anticipata del rapporto parentale
Come effetto della tardiva diagnosi, il decesso del paziente che si verifica anzitempo può, dunque, comportare ai familiari la contrazione del lasso temporale nel quale avrebbero ancora potuto godere del rapporto con il proprio congiunto.
In tali evenienze, come ricordato, la risarcibilità iure proprio del danno patrimoniale e non patrimoniale riconosciuto ai congiunti potrà subire un ridimensionamento in considerazione del verosimile arco temporale in cui i congiunti avrebbero potuto ancora godere, sia sul piano affettivo che economico, del rapporto con il soggetto anzitempo deceduto
Se, a livello definitorio, le indicazioni della Suprema Corte non abbisognano di ulteriori commenti esplicativi, le difficoltà iniziano quasi fatalmente ad intravedersi sul versante operativo: come si liquida il danno da perdita anticipata del rapporto parentale?
Metodi liquidativi
Nel tentativo di dare concretezza all'insegnamento della Suprema Corte, in giurisprudenza si sono affacciati diversi indirizzi applicativi, non sempre del tutto appaganti, in relazione al metodo utilizzato ed alla quantificazione che ne è conseguita (per brevità, si richiama ancora D. Modesti, op. cit, pag. 3).
Se, si è osservato, costituisce ius receptum il fatto che, nel caso di danno da perdita anticipata della vita, il risarcimento spettante iure proprio ai familiari possa essere ridotto sulla base del periodo di tempo ad essi concretamente sottratto nel godere del rapporto con la persona deceduta anzitempo, ciò equivale ad affermare che il danno dovrà essere valutato proporzionalmente, sulla base cioè dello scarto temporale tra la durata della vita effettivamente vissuta dalla vittima e quella che la stessa, in assenza dell'errore medico, avrebbe verosimilmente potuto sperare, secondo le regole della causalità giuridica (v. D. Modesti, op. cit, pag. 5).
Il termine temporale di riferimento in relazione alla speranza di vita del paziente non è, dunque, rappresentato dalla durata media della vita, ma dalla durata della vita della vittima in assenza dell'errore medico. In una proporzione, tale valore costituirà il primo termine e corrisponderà percentualmente al 100%, cioè al massimo di quanto la vittima avrebbe potuto ancora sperare di vivere. Il tempo di vita sottratto a causa dell'errore medico corrisponde al “torto” effettivamente subìto dalla vittima e rappresenterà il terzo termine della proporzione. Il quarto termine (incognito) restituirà il valore percentuale del tempo sottratto alla vittima per effetto dell'errore medico in funzione della durata di vita sperata in assenza di tale errore. La formula è così sintetizzabile:
(età raggiungibile dal paziente senza l'errore medico, in mesi): (100) = (mesi di vita sottratti) : (X)
Spostandoci, ora, sul versante del danno parentale, poiché, come detto supra, il danno da perdita anticipata del rapporto parentale va commisurato proporzionalmente allo scarto temporale tra la durata della vita effettivamente vissuta dalla vittima e quella che la stessa, in assenza dell'errore medico, avrebbe verosimilmente potuto sperare e poiché tale scarto temporale corrisponde al dato già espresso in termini percentuali, per la determinazione dell'ammontare del danno iure proprio sarà, quindi, sufficiente moltiplicare il danno da perdita del rapporto parentale tout court (calcolato secondo le nuove tabelle meneghine) per la percentuale come sopra individuata.
Schematicamente, avremo:
DANNO DA PERDITA ANTICIPATA DEL RAPPORTO PARENTALE =
FORMULA (percentuale) X DANNO DA TABELLA
(per una disamina approfondita della teoria esposta, unitamente allo svolgimento di alcune esemplificazioni, si perdoni ancora il rinvio a D. Modesti, op. cit, pagg. 6 e ss.).
L'ipotesi sub c: la condotta del sanitario non ha avuto alcuna incidenza causale sullo sviluppo della malattia, sulla sua durata e sull'esito finale, rilevando esclusivamente sulla qualità ed organizzazione della vita del paziente
La condotta del sanitario, poi, potrebbe aver causalmente inciso non già sullo sviluppo della malattia, sulla sua durata e sull'esito finale, ma unicamente sulla qualità ed organizzazione della vita del paziente. In siffatto caso si realizza una lesione c.d. “pura” del fondamentale diritto di autodeterminazione del paziente (art. 32 Cost.) da cui consegue l'evento di danno rappresentato dalla diversa e peggiore qualità della vita. L'autodeterminazione, come meglio si dirà infra, può essere definita come l'espressione della condizione esistenziale della possibilità di scelta.
Mutuando le parole da Cass. civ., sez. III, 23 marzo 2018, n. 7260, il senso della compromissione di tale situazione soggettiva di libertà appare d'immediata comprensione non appena si rifletta sulla circostanza per cui, non solo l'eventuale scelta di procedere (in tempi più celeri possibili) all'attivazione di una strategia terapeutica o la determinazione per la possibile ricerca di alternative d'indole meramente palliativa, ma anche la stessa decisione di vivere le ultime fasi della propria vita nella cosciente e consapevole accettazione della sofferenza e del dolore fisico (senza ricorrere all'ausilio di alcun intervento medico) in attesa della fine, appartengono, ciascuna con il proprio valore e la propria dignità, al novero delle alternative esistenziali che l'assenza di informazioni dei sanitari ha per sempre impedito che si attuassero come espressioni di una scelta personale.
Profili risarcitori
Il danno in esame, che deve essere sempre allegato e provato da chi ne invoca il risarcimento, può comprendere, a titolo esemplificativo, la mancata possibilità per il danneggiato tanto di accedere alla medicina palliative quanto di provvedere alla pianificazione delle cure.
E proprio sotto tale ultimo profilo, infatti, l'art. 5 della l. n. 219/2017 ha introdotto la possibilità per il paziente di provvedere alla pianificazione delle cure. Ciò, si badi, va tenuto distinto dalle c.d. disposizioni anticipate di trattamento (DAT), attraverso le quali, infatti, una persona maggiorenne e capace di intendere e volere, in previsione di una eventuale futura incapacità di autodeterminarsi e dopo aver acquisito adeguate informazioni mediche sulle conseguenze delle sue scelte, può esprimere le proprie volontà in materia di trattamenti sanitari, nonché il consenso o il rifiuto rispetto ad accertamenti diagnostici, scelte terapeutiche e singoli trattamenti.
La pianificazione delle cure, invece, riguarda l'evolversi delle conseguenze di una patologia cronica e invalidante o caratterizzata da inarrestabile evoluzione con prognosi infausta. Deve trattarsi, dunque, di una patologia dalla quale il paziente risulta già affetto e di cui è possibile prefigurare l'evoluzione.
Tale pianificazione, inoltre, si svolge interamente all'interno della relazione tra medico e paziente, il quale dev'essere adeguatamente informato, in particolare, sul possibile evolversi della patologia in atto, su quanto egli può realisticamente attendersi anche in termini di qualità della vita, sulle possibilità cliniche di intervento nonché sulle cure palliative.
La pianificazione in parola è suscettibile di aggiornamenti – su suggerimento del medico e, in ogni caso, con il consenso del paziente – in ragione del progressivo evolversi della malattia. Proprio in virtù dei connotati appena delineati, la pianificazione può essere qualificata come una sorta di consenso informato temporalmente esteso, caratterizzato da una attualità prospettica.
Per quanto concerne la scelta del paziente di ricorrere alla terapia del dolore (c.d. cure palliative) – tema anch'esso strettamente connesso a quello del consenso informato quale termine essenziale della relazione di cura – di particolare rilievo è il riconoscimento di un vero e proprio diritto del malato a non soffrire. Su tale diritto si è espresso altresì il Comitato Nazionale di Bioetica, il quale, nel parere datato 14 luglio 1995, ha dato atto dell'importanza delle cure palliative, definendole come “una risposta adeguata al bisogno di assistenza del paziente” che si pone, come primario obiettivo, “il mantenimento di una accettabile qualità della vita anche nella sua fase terminale” e da non intendere quale prolungamento ad ogni costo della vita del paziente (i.e. accanimento terapeutico). Le cure palliative, infatti, non garantiscono e nemmeno tendono alla guarigione del paziente, bensì costituiscono strumenti in grado di lenire la sofferenza, l'angoscia esistenziale ed il dolore fisico del malato. Muovendo da queste premesse, dunque, risulta agevole comprendere che le cure palliative e, dunque, la terapia del dolore fungono da presidio volto a tutelare la dignità del paziente.
Non vanno trascurate, infine, le ripercussioni che una tardiva diagnosi oncologica può generare anche nella dimensione strettamente personale e/o professionale del paziente. A mero titolo esemplificativo, si pensi alla sistemazione degli affari, all'amministrazione del patrimonio anche in vista della propria dipartita nonché agli aspetti affettivi e domestici.
Ad ogni buon conto, è indubbio come vi sia una stretta correlazione tra esercizio dell'autodeterminazione del paziente e preventivo obbligo di informazione in capo al medico. È evidente che, nell'ipotesi di tardiva diagnosi oncologica, l'obbligo informativo deve essere collocato nel momento in cui il medico avrebbe dovuto avvedersi della malattia oncologica. In quel momento, infatti, il paziente avrebbe dovuto essere edotto circa la propria situazione clinica, le possibilità di intervento terapeutico e farmacologico, i relativi rischi e benefici, la possibilità di accedere alla medicina palliativa nonché di pianificare le cure. A ciò deve aggiungersi che, una volta ricevute le dovute informazioni in conformità a quanto prescritto dalla citata l. 219/2017, al paziente verrebbe garantita la possibilità di determinarsi anche in merito agli aspetti, poc'anzi accennati, più intimi della propria vita.
Più in generale, dunque, si può affermare che, attraverso la prospettazione del ventaglio di opzioni accessibili, viene concessa al malato l'opportunità di operare delle scelte in termini di qualità e di programmazione della propria vita (v., ex multis, Cass. civ., sez. III, sent. 17 novembre 2021, n. 34813).
Nell'ipotesi in cui la condotta dei sanitari abbia leso il diritto di autodeterminazione, ut supra declinato, il paziente potrà domandare il risarcimento del relativo danno, il quale – come ribadito dalla citata Cass. civ., sez. III, sent. 11 novembre 2019, n. 28993 – dovrà essere adeguatamente allegato e provato.
È stato oramai superato quell'orientamento, tutt'altro che datato, incline ad ammettere la risarcibilità della posta di danno in esame anche laddove il paziente si limiti ad allegare generiche “conseguenze dannose, di natura non patrimoniale, in termini di sofferenza soggettiva e contrazione della libertà di disporre di sé stesso, psichicamente e fisicamente” (così Cass. civ., sez. III, sent. 5 luglio 2017, n. 16503). Così operando, a ben vedere, il pregiudizio da lesione del diritto di autodeterminazione diverrebbe, di fatto, un danno in re ipsa.
Per scongiurare una simile evenienza, dunque, risulta di fondamentale importanza indagare attentamente le scelte alternative (ed altamente probabili) compromesse attraverso l'allegazione e la prova di specifiche circostanze fattuali qualificabili come conseguenze dannose risarcibili (cfr. Cass. civ., sez. III, ord. 4 novembre 2020, n. 24471; Cass. civ., sez. III, sent. 11 novembre 2019, n. 28985; Cass. civ., sez. III, sent. 12 marzo 2010, n. 6045. V., altresì, Osservatorio sulla Giustizia civile di Milano, ed. 2021, p.69). A riguardo, di particolare pregio risulta quanto espresso nella sentenza Trib. Milano, 29 marzo 2005, n. 3520 (rel. Spera): “Alla comprovata lesione dell'interesse di rango costituzionale relativo all'autodeterminazione non consegue ipso iure un danno risarcibile. Non si può infatti ritenere che il danno lamentato dalla paziente sia in re ipsa (…), essendo invece necessaria l'allegazione e la prova dell'entità dello stesso che deve comunque essere apprezzabile per poter dare luogo a risarcimento. (…) In definitiva, anche in relazione al danno-conseguenza risarcibile in esame, devono applicarsi le regole ed i principi sull'onere della prova del danno subito, selezionando le conseguenze risarcibili dell'illecito, rispetto a quelle non risarcibili, in base ai criteri della causalità giuridica”.
Metodi liquidativi
Per quanto concerne, infine, la liquidazione del danno in esame, in mancanza di parametri normativi, appare inevitabile il ricorso, da parte dei giudici di merito, al criterio dell'equità.
In siffatto contesto affiora l'importanza dei criteri orientativi per la liquidazione del danno da mancato/carente consenso informato in ambito sanitario elaborati dall'Osservatorio sulla Giustizia civile di Milano.
Partendo, infatti, da un campione di sentenze di merito pronunciate dal 2012 al 2019 all'interno del territorio nazionale, l'Osservatorio meneghino ha proceduto ad analizzare gli importi liquidati ed i parametri a tal fine considerati dalla giurisprudenza per giungere, poi, all'elaborazione di criteri orientativi con l'oramai noto obiettivo di agevolare l'uniformità e la prevedibilità delle decisioni. Dall'indagine condotta è emerso che le circostanze prese in considerazione dai giudici di merito per evidenziare il grado di intensità della lesione al diritto di autodeterminazione da risarcire possono essere così sintetizzate: entità delle ricadute sul bene-salute del danneggiato del trattamento sanitario non preceduto da idoneo consenso informato, caratteristiche del trattamento sanitario non preceduto da idoneo consenso informato, caratteristiche personali del danneggiato, entità della sofferenza del danneggiato conseguente alla compressione della libertà di disporre di sé e, infine, caratteristiche dell'inadempimento al dovere informativo (cfr., ampiamente, Osservatorio sulla Giustizia civile di Milano, cit., pagg. 68-76).
L'individuazione di siffatti criteri generali ha permesso, inoltre, di elaborare degli indici descrittivi (sul punto, si rinvia a Osservatorio sulla Giustizia civile di Milano, cit., pagg. 75 e 76) in presenza dei quali il danno all'autodeterminazione può essere definito di lieve, di media, di grave o di eccezionale entità. Ad ogni categoria, dunque, corrisponde un diverso quantum liquidabile e segnatamente:
Entità del danno all'autodeterminazione
Lieve
Media
Grave
Eccezionale
Importo liquidabile
da €1.000,00 ad €4.000,00
da €4.001,00 ad €9.000,00
da €9.001,00 ad €20.000,00
oltre €20.000,00
(fonte: Osservatorio sulla Giustizia civile di Milano, cit., pagg. 75 e 76)
L'ipotesi sub d: la tardiva diagnosi ha avuto, quale conseguenza, un evento di danno incerto, espresso cioè in termini di insanabile incertezza scientifica rispetto all'eventualità di una maggior durata della vita e di minori sofferenze
L'ultima disamina sui danni derivanti da tardiva diagnosi in ambito oncologico attiene al danno da perdita di chance. Risulterebbe distante dall'obiettivo del presente lavoro ricostruire cronologicamente le vicende che, con riguardo all'istituto in esame, hanno trovato compiuta sintesi nell'approdo giurisprudenziale in commento. Sarà sufficiente ricordare come la chance si caratterizzi per l'incertezza eventistica, per avere, cioè, la condotta determinato un evento di danno incerto: per usare le parole dell'estensore, la chance si sostanzia, in definitiva, nell'incertezza del risultato, la cui “perdita”, ossia l'evento di danno, è il precipitato di una chimica di insuperabile incertezza, predicabile alla luce delle conoscenze scientifiche e delle metodologie di cura del tempo rapportate alle condizioni soggettive del danneggiato.
Proseguendo nella lettura della motivazione, tale evento di danno sarà risarcibile a seguito della lesione di una situazione soggettiva rilevante – che pur sempre attiene al “bene salute” – sempre che esso sia stato allegato e provato in giudizio nella dimensione di apprezzabilità, serietà, consistenza, e non già soltanto in base alla pura e semplice relazione causale tra condotta ed evento, in guisa di danno in re ipsa.
Sotto il profilo causale, infine, andrà preliminarmente e necessariamente accertata la sussistenza della relazione eziologica tra la condotta e l'evento (cfr., ex multis, Cass. civ., sez. III, sent. 16 ottobre 2007, n. 21619: “come per la causalità ordinaria, anche per la causalità da chance perduta … l'accertamento del nesso di causalità materiale implica sempre l'applicazione della regola causale di funzione, cioè probatoria, del più probabile che non").
Profili risarcitori
Quasi specularmente rispetto ai casi esaminati supra in riferimento alle condotte omissive che hanno comportato il decesso, anche anticipato, del paziente, due sono, sostanzialmente, le pretese che possono essere avanzate dai congiunti della vittima: la prima si sostanzia nel danno da perdita di chance di sopravvivenza che i congiunti potranno far valere iure hereditario, mentre la seconda si concretizza nel danno da perdita di chance di godere del rapporto parentale che i congiunti potranno richiedere iure proprio.
Esaminiamole partitamente.
La perdita di chance di sopravvivenza
Si tratta del danno, patito dalla vittima primaria, consistente nella perdita della chance di una maggiore sopravvivenza a seguito dell'omessa diagnosi di un processo morboso terminale.
La relativa domanda giudiziale va introdotta iure successionis dai congiunti della vittima. Il danno che sarà eventualmente riconosciuto, unico nella sua valutazione e liquidazione, andrà, poi, suddiviso pro quota in base al rapporto che il singolo erede vantava con il de cuius.
Trattandosi, infine, di un danno che era entrato a far parte del patrimonio della vittima per effetto di malpractice, il termine prescrizionale per proporre la relativa domanda sarà quello ordinario decennale.
La perdita della chance di godere del rapporto parentale
È questo il danno che possono vantare i congiunti per effetto dell'exitus allorché la vittima sia deceduta a seguito della condotta omissiva dei sanitari che abbia determinato la privazione di chance di una maggiore sopravvivenza.
Non si tratta, si badi, di un danno da perdita del rapporto parentale tout court, giacché questo presuppone che il decesso del congiunto sia l'effetto diretto della colposa omissione diagnostica, cosicché i familiari possono dolersi della perdita (anche anticipata) del rapporto con il proprio parente. Nel caso di cui qui si discute, invece, la vittimaha perduto, per effetto della malpractice, la chance di una maggiore sopravvivenza, vale a dire quella mera speranza di vivere più a lungo che dà corpo all'incertezza eventistica. Correlativamente, il congiunto avrà perduto la chance di potere godere più a lungo del rapporto con il proprio familiare, chance che, evidentemente, presenta i medesimi crismi di quella di cui è portatrice la vittima.
La precisazione non appare di poco momento. Secondo il costante insegnamento della Suprema Corte in subiecta materia, infatti, la domanda per perdita di chancesèontologicamente diversa dalla domanda di risarcimento del danno da mancato raggiungimento del risultato sperato, perché in questo secondo caso l'accertamento è incentrato sul nesso causale, mentre nel primo oggetto dell'indagine è un particolare tipo di danno, e segnatamente una distinta ed autonoma ipotesi di danno emergente, incidente su di un diverso bene giuridico, quale la mera possibilità del risultato finale.
Con la non trascurabile conseguenza che la liquidazione di quest'ultimo non può essere operata d'ufficio dal giudice, non essendo la relativa domanda insita, come un minus, in quella volta a far valere il pregiudizio derivante dal mancato raggiungimento del risultato sperato in quanto trattasi di domanda tutt'affatto diversa, sulla quale, ove non proposta, il giudice non può pronunciare (ex multis, Cass. civ., sez. III, sent. 29 novembre 2012, n. 21245. In dottrina, si richiama E.F.Ronchi, L. Mastroroberto, U.Genovese, “Guida alla Valutazione Medico Legale dell'Invalidità Permanente”, Giuffrè Francis Lefebvre, Milano, 2015, pagg. 97 e 98, che escludono la predicabilità “del ‘danno da lutto' agli eredi della vittima ove la morte non sia stata posta in comprovato nesso causale con la malpractice, ma configurata come solo danno alla perdita di chances”).
La domanda, infine, va proposta iure proprio da ciascun congiunto e sconta il termine prescrizionale quinquennale.
Metodi liquidativi
La perdita della chance di sopravvivenza
La chance – ha cura di precisare Cass. civ., sez. III, sent. 11 novembre 2019, n. 28993 – risulta un diminutivo astratto dell'illecito, inteso come sinonimo di possibilità priva di misura (ma non di contenuto), da risarcirsi equitativamente, e non necessariamente quale frazione eventualmente percentualistica del danno finale.
La liquidazione del danno non potrà che essere rapportata alla riduzione del periodo di sopravvivenza provocata dall'errore medico, nonché alla percentuale di possibilità astratta di conseguire il risultato massimo raggiungibile data la situazione concreta (Cass. civ., sez. III, sent. 27 marzo 2014, n. 7195).
Trasponendo fedelmente il dictum di legittimità, per la liquidazione di tale posta di danno la giurisprudenza di merito adotta generalmente il seguente metodo di calcolo (ex multis, si vedano Trib. Latina, sez. II, 20 marzo 2018; Trib. Ferrara, 18 giugno 2018 n. 476; Trib. Milano, 28 dicembre 2016 n. 14161; Trib. Latina, sez. II, 16 ottobre 2016):
a) si determina la somma che sarebbe spettata alla vittima nel caso di invalidità permanente pari al 100%;
b) sidivide tale somma per il numero di anni della vittima;
c) si moltiplica il risultato per il numero degli anni cui viene di norma proiettata la possibilità di sopravvivenza;
d) si calcola sull'importo così ottenuto la percentuale di possibilità di guarigione perduta.
Si riporta di seguito un'esemplificazione, tratta direttamente dalla citata Trib. Ferrara, 18 giugno 2018, n. 476 e riportata da D. Zorzit, Perdita di chances in materia sanitaria (danno da), in Ri.Da.Re., La Bussola.
Tizio, di 77 anni, a causa della colposa omessa tempestiva diagnosi di neoplasia, ha perso il 40% di possibilità di sopravvivenza. Il Giudice riconosce a titolo di danno da perdita di chanceiure hereditario l'importo di € 15.836,00 così ottenuto: IP al 100% di un uomo di 77 anni = € 762.097,00 (da Tabella del Tribunale di Milano); vita media residua secondo percentuali ISTAT: ulteriori 4 anni; € 762.097 : 77 (anni del defunto) = € 9.897,00 (valore di un anno di vita); Euro 9.897 per gli anni di vita perduti, ossia 4 = € 39.588,00; poiché però il paziente aveva solo il 40% di possibilità di sopravvivere, la somma è proporzionalmente decurtata :40% di € 39.588,00 = € 15.836,00.
La perdita della chance di godere del rapporto parentale
Analogamente all'ipotesi del danno da perdita anticipata del rapporto parentale, anche per il danno che i congiunti lamentano in relazione alla chance di godere più a lungo del rapporto con il proprio familiare il punto di partenza è necessariamente rappresentato dal danno da perdita di chance della vittima primaria. Andrà, infatti, mantenuta la proporzione tra il dannosubìto dal pazientee quello patito da ciascun familiare, e ciò allo scopo sia di evitare liquidazioni affidate all'applicazione dell'equità, con le possibili distorsioni applicative che ciò può comportare, sia di raggiungere un metodo liquidativo uniformemente applicabile (sul punto, cfr. D. Modesti, op. cit, pagg. 5 e ss.).
Bisognerà, dunque, calcolare anzitutto il danno da perdita di chance di sopravvivenza della vittima primaria seguendo il metodo sopra indicato.
Il rapporto tra il quantum che sarebbe spettato alla vittima nel caso di invalidità permanente pari al 100% ed il danno risultante dalla predetta operazione di calcolo rappresenta il torto effettivo, espresso in termini percentuali, che la vittima ha dovuto subire a causa dell'omessa diagnosi.
La formula è così sintetizzabile:
IP 100% : DANNO FINALE = 100 : X
Per determinare, ora, il danno iure proprio da perdita di chance del congiunto di godere più lungamente del rapporto parentale occorrerà riferirsi al valore risultante per la perdita del congiunto sulla base delle recentissime tabelle milanesi e, quindi, moltiplicare il dato per la percentuale sopra individuata.
Schematicamente, avremo:
DANNO DA PERDITA DI CHANCE DI GODERE DEL RAPPORTO PARENTALE =
DANNO DA TABELLA X FORMULA (percentuale)
Riprendendo l'esempio relativo al danno da perdita di chance della vittima primaria e mantenendo, per comodità, i valori indicati, la formula relativa alla percentuale tra la somma che sarebbe spettata alla vittima nel caso di invalidità permanente pari al 100% ed il danno risultante dalla predetta operazione di calcolo risulta dalla seguente operazione: 762.097,00 : 15.836,00 = 100 : X. La percentuale è, dunque, pari a 2,08%.
Si supponga, ora, di calcolare, secondo la tabella di Milano, edizione 2022, il danno da perdita del rapporto parentale patito da un figlio di 50 anni che viveva in un'altra città rispetto al padre. Gli ulteriori ipotetici valori che andranno a completare la liquidazione secondo il sistema a punti attengono alla presenza di due superstiti nel nucleo familiare primario del de cuius e la sporadica frequentazione con il genitore, limitata alla festività.
Questi sono i punti corrispondenti:
età della vittima primaria: 77, punti 12;
età della vittima secondaria: 50, punti 20;
convivenza: no, 0 punti;
sopravvivenza di congiunti del nucleo familiare primario del de cuius: 2, punti 12;
qualità ed intensità della relazione affettiva: punti 2.
Totale punti: 46 X € 3.365,00 = € 154.790,00.
Applicando, infine, a tale valore la percentuale sopra individuata avremo: € 154.790,00 X 2, 08% = € 3.219,63, importo che rappresenta il danno patito dal figlio per la perduta chance di godere più a lungo del rapporto con il proprio padre.
L'eventuale convivenza (16 punti) e la presenza di una solida relazione affettiva (30 punti) avrebbe, invece, restituito il seguente valore: 92 X € 3.365,00 X 2,08% = € 6.439,26.
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Sommario
L'ipotesi sub a: la condotta del sanitario ha cagionato la morte del paziente, mentre una diagnosi corretta e/o tempestiva ne avrebbe consentito la guarigione
L'ipotesi sub b: la condotta del sanitario ha cagionato una significativa riduzione della durata della vita del paziente ed una peggiore qualità della stessa per tutta la sua minor durata
L'ipotesi sub c: la condotta del sanitario non ha avuto alcuna incidenza causale sullo sviluppo della malattia, sulla sua durata e sull'esito finale, rilevando esclusivamente sulla qualità ed organizzazione della vita del paziente
L'ipotesi sub d: la tardiva diagnosi ha avuto, quale conseguenza, un evento di danno incerto, espresso cioè in termini di insanabile incertezza scientifica rispetto all'eventualità di una maggior durata della vita e di minori sofferenze