Liquidazione del danno non patrimoniale tramite la rendita vitalizia

27 Ottobre 2022

La scelta di liquidare il danno permanente alla persona tramite una rendita vitalizia ai sensi dell'art. 2057 c.c. è rimessa al prudente apprezzamento del giudice, che può optare d'ufficio per questa soluzione (anche in appello), disponendo in tal caso “opportune cautele”.

Nella determinazione della rendita il giudice deve dapprima determinare la somma capitale, avuto riguardo all'età della vittima al momento del sinistro e alle conseguenti aspettative di vita, senza tenere in considerazione la loro riduzione nel caso concreto, quando dipenda dalle lesioni causate dall'illecito. Deve poi applicare un coefficiente di capitalizzazione, la cui scelta rientra nel suo potere discrezionale; tale coefficiente però, nel rispetto di quanto previsto dall'art. 1223 c.c., deve essere scientificamente fondato, aggiornato, corrispondente all'età della vittima alla data dell'infortunio e progressivo.

Il caso. A causa dell'errata diagnosi in sede di primo accesso al pronto soccorso e del conseguente ritardo nella somministrazione della corretta terapia, un minore subisce lesioni permanenti gravissime. In primo grado il Tribunale, accertati comportamenti imprudenti, imperiti e negligenti del (falso) medico che aveva visitato il bambino, lo condanna in solido con l'azienda socio-sanitaria territoriale al pagamento del danno non patrimoniale subito dalla vittima e del danno patrimoniale e non patrimoniale patito da ogni genitore. In parziale riforma della sentenza, la Corte d'Appello di Milano, tra l'altro, conferma l'ammontare del danno non patrimoniale subito dal bambino, ma di sua iniziativa stabilisce che venga risarcito nella forma di una rendita vitalizia, ritenuta meglio rispondente alle esigenze del danneggiato, «considerata l'impossibilità di stabilire in modo oggettivo una durata presumibile della vita» dello stesso, e tenuto conto altresì del carattere permanente del danno.

Per il calcolo della rendita viene utilizzata la formula impiegata per determinare il valore delle rendite vitalizie di cui all'art. 46, comma 2, lett. c), d.p.r. n. 131/1986. La Corte condanna altresì la compagnia assicuratrice (chiamata in manleva dall'azienda socio sanitaria) a stipulare una polizza fideiussoria con pagamento a prima richiesta, a garanzia della rendita vitalizia costituita a favore del minore.

Il potere del giudice nella scelta della liquidazione del danno sotto forma di rendita vitalizia nell'ambito dell'art. 2057 c.c.

La scelta della Corte meneghina di procedere alla liquidazione di una rendita vitalizia per i gravissimi danni permanenti subiti dal minore scontenta tanto la compagnia assicurativa, che si lamenta della condanna alla costituzione di una polizza fideiussoria pur non essendo stata avanzata domanda in tal senso da nessuna delle parti in causa, quanto i genitori del bambino, che censurano sia la scelta della rendita vitalizia che le modalità del suo calcolo.

La Corte di Cassazione chiarisce che, ai sensi dell'art. 2057 c.c., quando il danno alla persona ha carattere permanente, è facoltà del giudice decidere se procedere alla sua liquidazione sotto forma di rendita vitalizia, tenuto conto delle condizioni delle parti e della natura del danno. Così come, in presenza dei presupposti stabiliti dalla norma, può scegliere in via autonoma - anche in sede di appello - di stabilire una rendita vitalizia, così può ed anzi deve, dopo aver compiuto tale scelta, disporre le “opportune cautele”, volte a garantire l'adempimento dell'obbligo di versamento del rateo di rendita.

I genitori - in sede di ricorso incidentale - avevano lamentato la manifesta ed irriducibile contraddittorietà della sentenza, poiché da un lato aveva rigettato la richiesta di riduzione dell'entità del risarcimento riconosciuto al minore in ragione della sua minore aspettativa di vita, dal momento che questa era stata determinata dalle negligenze dei responsabili, ma dall'altro, proprio tramite la scelta della forma di liquidazione, li avrebbe de facto agevolati, poiché i ratei sarebbero stati versati solo durante la vita del danneggiato, e quindi non per tutti gli anni di vita che sarebbero trascorsi sulla base delle tabelle di mortalità media (sulla cui base si calcola il capitale), ma solo per il numero di anni effettivamente vissuti, che ci si aspetta essere inferiore, in virtù della ridotta aspettativa di vita determinata dalla gravità delle lesioni subite.

La Suprema Corte, dopo aver ribadito che l'art. 2057 c.c. affida al prudente apprezzamento del giudice la scelta della forma di liquidazione poiché per l'ordinamento civilistico capitale e rendita si equivalgono, ritiene di superare la critica sopra riportata distinguendo il coefficiente utilizzato per la costituzione della rendita dalla durata della stessa. Il primo deve corrispondere all'età del danneggiato al momento del sinistro e utilizzare come riferimento la durata media della vita, ma una volta calcolato correttamente il rateo - che corrisponde al pregiudizio sofferto dalla vittima nel corrispondente arco di tempo - non si viola il principio della riparazione integrale del danno qualora, con la morte ante tempus della vittima - cessi il risarcimento, poiché con il suo decesso cessa il danno da questa sofferto.

D'altro canto, occorre considerare che quando la morte anticipata è stata causata dalle lesioni, accanto alla rendita stabilita per il risarcimento del danno non patrimoniale della vittima per il periodo compreso tra il sinistro e la morte, il responsabile sarà chiamato a risarcire «anche, ed onnicomprensivamente, il danno iure proprio subito dai genitori, in relazione alla ridotta aspettativa di vita ed al presumibile periodo di vita del minore». Se invece il danneggiato dovesse avere una vita più lunga rispetto all'aspettativa di un soggetto sano, sarà lui ad essere avvantaggiato dalla rendita, mentre qualora dovesse morire anticipatamente, ma per cause indipendenti dalle lesioni subite, non si potrà dire che il danneggiante che cessa di pagare la rendita realizzerà un vantaggio patrimoniale, posto che con la morte della vittima cessa il danno che ha causato e che deve risarcire.

La Corte pare dare maggiore rilievo alla funzione, tra le diverse riconosciute alla responsabilità civile, che si concentra sulla vittima e sulla effettiva riparazione del danno. Non sarebbe vero che tale forma si presta ad agevolare il danneggiante e sarebbe pertanto passibile di una valutazione negativa dal punto di vista morale: secondo la Corte, invece, al di fuori del pur vasto territorio dei principi, specie costituzionali, non sembra legittimamente predicabile alcuna considerazione di ‘moralità' con riferimento a specifiche previsioni di legge, quando le forme del risarcimento rispondano tout court (come nel caso della rendita) a principi di effettività, di bilanciamento, di giustizia delle decisioni.

Le ragioni per superare la “non giustificabile diffidenza” nei confronti della rendita vitalizia

I Giudici di legittimità prendono però spunto dalla doglianza dei ricorrenti incidentali circa la mancata specificazione dei criteri di scelta per affermare che invero il danno grave alla persona rappresenta (o dovrebbe rappresentare) proprio il terreno di elezione per il risarcimento sotto forma di rendita, che invece - come noto - è assai scarsamente applicato dalle nostre corti (ma giova rilevare che negli ultimi anni in altre occasioni i giudici meneghini lo hanno scelto).

Con la lunga sentenza in commento, ricca di obiter dicta, la Suprema Corte offre una serie di spunti volti a superare la diffidenza che sembra avvolgere tale forma di liquidazione del danno e a fornire indicazioni per i giudici che nel futuro se ne volessero avvalere. Da un lato, infatti, rammenta che la disciplina ad essa applicabile è quella degli artt. 1872 ss. c.c., che prevedono una serie di disposizioni a favore del creditore (il debitore, infatti, non può liberarsi dall'obbligazione offrendo il pagamento di un capitale né può invocare la risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta - art.1879 c.c.- e in caso di suo inadempimento il creditore della rendita può far sequestrare e vendere i beni dell'obbligato - art. 1878 c.c.). Il giudice inoltre può, in alternativa alle “cautele” previste dall'art. 2057 c.c., disporre l'acquisto di titoli del debito pubblico in favore dell'avente diritto o stipulare in suo favore una polizza vita a premio unico ai sensi dell'art. 1882 c.c.

La rendita potrebbe poi essere in una serie di circostanze la forma di risarcimento del danno che maggiormente tutela la vittima: si pensi alle lesioni subite da un minore, per cui è molto difficile fare una prognosi di sopravvivenza, o alle ipotesi in cui la corresponsione di un ingente capitale potrebbe comportare il rischio della sua dispersione, per esempio perché il danneggiato è persona socialmente debole o non scolarizzata o per il rischio di una cattiva gestione ad opera dei suoi familiari.

Ecco che allora il giudice, valutando i vantaggi e gli svantaggi delle due diverse forme alla luce delle circostanze concrete del caso sottoposto al suo esame, ben potrà (“se non addirittura dovrà” – aggiunge la Corte) privilegiare la forma della rendita e tale scelta è incensurabile in Cassazione se non per illogicità della motivazione o per errore di diritto.

I Giudici di legittimità colgono l'occasione per affermare anche che deve ritenersi in astratto ammissibile la revisione della rendita negli stessi limiti in cui è ammessa una nuova domanda risarcitoria per l'insorgere di danni del tutto imprevedibili e non accertabili nel primo giudizio (con un rimando ai principi esaminati approfonditamente da Cass. 27031/2016), e che per ovviare al problema della perdita di valore della rendita a causa della svalutazione monetaria (che secondo alcuni costituisce una delle ragioni di scarso successo dell'istituto) il giudice - in applicazione delle “cautele” consentite dall'art. 2057 c.c. - potrebbe prevedere ex ante dei meccanismi di adeguamento rispetto al potere di acquisto della moneta, dal momento che la mancanza di siffatti meccanismi impedirebbe il risarcimento integrale del danno (come già affermato da una parte della giurisprudenza di merito).

Merita notare che la Corte di Cassazione nel proprio iter argomentativo fa riferimento anche alle scelte effettuate da due strumenti c.d. di soft law, “sia pure de iure condendo”: i Principles of European Tort Law (il cui art. 10:102 attribuisce al giudice il potere discrezionale di scegliere la forma più appropriata di risarcimento, specificando però che i pagamenti periodici possono essere particolarmente utili in caso di danni permanenti) e il Draft Common Frame of Reference (cfr. art. 6:203, che prevede invece che compensation is to be awarded as a lump sum unless a good reason requires periodical payment).

Il Collegio osserva inoltre che la liquidazione in forma di rendita non risulta «in alcun modo opportuna nel caso in cui le lesioni siano di lieve o media entità, in quanto il relativo gettito sarebbe così esiguo da non arrecare alcuna sostanziale utilità al danneggiato» e afferma altresì - in obiter - che potrebbe invece trovare il suo terreno di elezione anche in caso di perdita o riduzione del reddito da parte del danneggiato.

I criteri per la quantificazione della rendita

Se il giudice ha la facoltà di liquidare il danno in forma di rendita (“se del caso, come opzione risarcitoria privilegiata”), questa deve però avere un valore finanziariamente equivalente al capitale da cui è stata ricavata, per l'intera durata della vita del beneficiario. La base di calcolo è la somma capitale (che la Corte di Appello aveva correttamente individuato), che va divisa per un coefficiente, il quale è oggetto di valutazione e di scelta discrezionale del giudice, ma nel rispetto di alcuni parametri: dovrà, infatti, essere «a) scientificamente fondato; b) aggiornato; c) corrispondente all'età della vittima alla data dell'infortunio; d) progressivo, cioè variabile in funzione (almeno) di anno, se non di frazione di anno». Dividendo il capitale per tale coefficiente si ottiene il rateo annuo, che andrà ulteriormente diviso per dodici, se si vuole liquidare una somma mensile invece che annuale.

Nel caso in commento la Corte di Appello di Milano aveva usato per la quantificazione del danno un criterio giuridicamente scorretto. Aveva infatti fatto ricorso al coefficiente di cui all'art. 46, lettera (c), d.p.r. n. 131/1986, dettato per la determinazione della base imponibile dell'imposta di registro dovuta per gli atti di costituzione di rendite vitalizie, che presenta però una progressione che non corrisponde all'età del beneficiario. Esso, per esempio, è invariato per le persone di età compresa tra 0 e 20 anni; la sua applicazione nella liquidazione del risarcimento per danno da invalidità permanente comporterebbe pertanto lo stesso risarcimento per un neonato e per un ventenne, in violazione dell'art. 1223 c.c.

La Suprema Corte osserva che non offrono un criterio corretto neppure le tabelle INAIL per gli infortuni mortali sul lavoro allegate al d.m. 1.4.2008 e successive modifiche, poiché prevedono coefficienti diversi a seconda del grado di invalidità permanente, e cioè - a parità di età - inversamente proporzionali al grado di IP, sulla base del presupposto che più alta è l'invalidità, minore è la speranza di vita.

Come già osservato, però, la minore aspettativa di vita che sia conseguenza dell'illecito non deve rilevare nella determinazione del coefficiente per il calcolo della rendita vitalizia ex art. 2057 c.c.

Il Collegio in conclusione offre “un utile riferimento paranormativo”, che a loro avviso può essere lo stesso già suggerito per la liquidazione del danno da incapacità lavorativa diffuso dal CSM (cfr. Nuovi orientamenti e nuovi criteri per la determinazione del danno, in Quaderni del CSM, 1990, n. 41, pp. 127 e ss).

Accogliendo quindi il ricorso incidentale per questo motivo, la Corte rinvia ad altra sezione della Corte di Appello di Milano per una corretta quantificazione della rendita vitalizia, sulla base dei principi di diritto esposti.

(Fonte: dirittoegiustizia.it)