Vizi della vendita forzata: la parte del processo esecutivo di quali strumenti può avvalersi?
07 Novembre 2022
Massima
Le parti del processo esecutivo hanno l'onere di denunciare con l'opposizione ex art. 617 c.p.c. l'erroneo trasferimento all'aggiudicatario di un cespite che è oggetto di pignoramento, essendo inammissibile un'azione (nella specie di rivendica) autonoma, cioè distinta dai rimedi tipici dell'esecuzione forzata, da esse proposta per contrastare gli effetti dell'esecuzione, ponendoli nel nulla o limitandoli. Il caso
La vicenda giudiziaria sfociata nel provvedimento che si commenta è stata innescata dall'azione di rivendicazione di un terreno proposta da chi assumeva esserne legittima comproprietaria nei confronti del soggetto risultato acquirente del medesimo terreno in virtù di decreto di trasferimento ex art. 586 c.p.c., emesso all'esito di una procedura di espropriazione immobiliare. L'adito Tribunale di Chieti accoglieva parzialmente la domanda, condannando il convenuto a ripristinare lo status quo ante, alterato dalle opere realizzate dal medesimo su area di proprietà dichiarata comune e non esclusiva: il giudice di prime cure rilevava, infatti, che nel processo di esecuzione forzata l'immobile era stato suddiviso in diversi lotti (il primo attribuito al convenuto e il quarto all'attrice), ai quali era comune la pertinenziale area oggetto di contesa. Il convenuto proponeva appello, chiedendo la riforma della sentenza di primo grado per avere inciso la stabilità e definitività del decreto di trasferimento del bene, atto traslativo a suo favore della proprietà esclusiva del terreno, non impugnato con opposizione ex art. 617 c.p.c. dall'attrice, pur essendo quest'ultima parte del processo esecutivo. La Corte d'appello di L'Aquila, in parziale riforma della sentenza impugnata, condannava l'attrice al risarcimento del danno per ritardato rilascio del bene e alla rimessione in pristino respingendo, per il resto, il gravame del convenuto. Avverso tale sentenza, il convenuto proponeva ricorso per cassazione articolato, per quanto di interesse ai fini del presente commento, in due motivi. In primo luogo, denunciava violazione e falsa applicazione degli artt. 576, 586 e 617 c.p.c. e 2919 e 2921 c.c., per avere la corte di merito ritenuto ammissibile l'iniziativa processuale dell'attrice. In particolare, la stessa aveva contestato l'acquisto della proprietà risultante dal decreto di trasferimento, avverso il quale la medesima non aveva svolto alcune tempestiva opposizione, pur essendo stata parte (esecutata) del processo di esecuzione: il ricorrente sostiene, pertanto, che l'azione di rivendica non potesse essere legittimamente promossa dall'attrice – peraltro, a sei anni dal decreto di trasferimento -, con conseguente dovere per la Corte d'appello di escludere la possibilità, per l'aggiudicatario, di subire l'evizione per effetto di un'autonoma azione dell'esecutato, asseritamente contitolare del cespite acquisito dall'aggiudicatario. Con il secondo motivo, il ricorrente denunciava violazione e falsa applicazione dell'art. 2929 c.c. e dell'art. 187-bis disp. att. c.p.c., per avere il giudice d'appello leso il legittimo affidamento del ricorrente (aggiudicatario all'esito del processo esecutivo) sull'acquisto, di buona fede, compiuto in tale sede; si sostiene che eventuali nullità degli atti esecutivi, peraltro non tempestivamente denunciate ex art. 617 c.p.c., non possano riverberare effetti in danno dell'aggiudicatario, salva l'ipotesi di collusione col creditore procedente (nel caso non configurabile). La questione
La questione risolta dal provvedimento in commento attiene alla possibilità, per il soggetto esecutato, tramite un'iniziativa assunta in sede ordinaria (nel caso di specie, tramite un'azione di rivendicazione) promossa dopo la conclusione del processo esecutivo, di caducare l'acquisto del diritto di proprietà avvenuto in capo al soggetto acquirente, e consacrato nel decreto di trasferimento ex art. 586 c.p.c., in assenza di reazione, all'interno dell'espropriazione forzata, nelle forme dell'opposizione agli atti esecutivi ex art. 617 c.p.c. Le soluzioni giuridiche
La Suprema Corte affronta congiuntamente i motivi di ricorso presentati, ritenendoli fondati. Come subito vedremo, i giudici di legittimità non si discostano dai consolidati orientamenti, da tempo vigenti, in materia di stabilità degli effetti sostanziali dell'esecuzione forzata. Nell'articolazione del suo ragionamento la Cassazione si concentra, in particolare, sul profilo attinente all'originaria ammissibilità dell'azione di merito proposta dall'esecutata, in relazione al fatto che, secondo la ricostruzione del ricorrente: a) la stessa non avrebbe potuto avvalersi dell'art. 2919 c.c., essendo invece tenuta a svolgere le proprie contestazioni tramite le opposizioni esecutive; e che b) doveva ritenersi irrilevante, ex art. 2929 c.c., per l'aggiudicatario, l'esistenza di eventuali vizi, oltretutto non denunciati con tempestiva opposizione ex art. 617 c.p.c., afferenti agli atti esecutivi e, segnatamente, al decreto di trasferimento che al convenuto ha espressamente trasferito anche l'area oggetto di rivendica. A tal riguardo, il provvedimento ricorda come il legislatore abbia inteso strutturare l'espropriazione forzata quale procedimento idoneo ad assicurare, ai terzi interessati all'acquisto del bene oggetto di espropriazione, la sicurezza e la stabilità degli effetti del provvedimento conclusivo, il che impone - a salvaguardia dell'affidamento qualificato dell'aggiudicatario sulla stabilità della vendita giudiziaria (sul punto, diffusamente, Cass. 8 febbraio 2019, n. 3709) - che eventuali irregolarità occorse nelle fasi della procedura esecutiva debbano emergere entro un tempo circoscritto e mediante l'impiego dei rimedi processuali a ciò appositamente deputati. Richiamando il precedente di Cass. 8 maggio 2003, n. 7036, la Suprema Corte afferma, infatti, che ammettere la proposizione, dopo la conclusione dell'esecuzione e la scadenza dei termini per le relative opposizioni, di azioni volte a contrastare gli effetti dell'esecuzione stessa ponendoli nel nulla o limitandoli, contrasterebbe sia con i principi ispiratori del sistema, sia con le regole specifiche relative ai modi e ai termini delle opposizioni esecutive. Ciò significa che colui il quale intenda contestare la legittimità di un atto del processo esecutivo nel quale abbia assunto la qualità di parte ha l'onere di dispiegare i relativi strumenti processuali, con le forme e le modalità previste dalla disciplina di rito; in mancanza, egli decade dalla possibilità di fare valere le relative ragioni. Il medesimo principio è stato successivamente ripreso (ed esteso nella sua portata) dalle statuizioni di Cass. 20 ottobre 2020, n. 22854, secondo cui ogni questione relativa alla validità ed efficacia dell'aggiudicazione e della vendita forzata deve essere fatta valere, tanto dalle parti del processo esecutivo quanto dall'aggiudicatario, nell'ambito del processo esecutivo stesso, attraverso i rimedi impugnatori ad esso connaturali (e, quindi, in primo luogo attraverso l'opposizione agli atti esecutivi di cui all'art. 617 c.p.c.), non potendo ritenersi ammissibile una autonoma azione di ripetizione (in tutto o in parte) del prezzo di aggiudicazione, nei confronti dei creditori che hanno partecipato al riparto ovvero del debitore al quale sia stato attribuito l'eventuale residuo (e comunque qualsiasi azione volta a contestare l'efficacia della vendita forzata ovvero il prezzo della stessa), al di fuori del processo esecutivo; si sottraggono a tale principio esclusivamente i casi eccezionali in cui il proponente dimostri che l'esperimento dei rimedi endoesecutivi non gli era in alcun modo possibile prima della definitiva chiusura della procedura esecutiva, in ragione della data in cui era insorta l'effettiva e concreta possibilità di far valere la causa di invalidità, nonostante una condotta improntata all'ordinaria diligenza. Sulla base di tali principi, come detto acquisiti nella giurisprudenza di legittimità, la Suprema Corte conclude ritenendo di dover riconoscere al principio in questione validità generale, per tutte le ipotesi di contestazioni attinenti alla regolarità della vendita coattiva, ivi comprese le ipotesi in cui venga in discussione l'entità del prezzo di aggiudicazione. Nel caso di specie, l'azione di rivendica proposta in via ordinaria costituisce l'iniziativa di un soggetto che ha partecipato alla procedura esecutiva: l'unico strumento a sua disposizione per reagire a una vendita considerata illegittima, però, era da identificarsi nell'opposizione agli atti esecutivi, con preclusione di qualsiasi altro rimedio. L'erroneo trasferimento al convenuto di un bene oggetto di pignoramento (l'area contesa), cioè, doveva essere denunciato dalle parti del processo esecutivo e dagli altri soggetti in esso coinvolti - e, dunque, anche dall'esecutata - con una tempestiva opposizione all'atto esecutivo asseritamente erroneo, ai sensi dell'art. 617 c.p.c. Conseguentemente, la Cassazione ha dichiarato l'inammissibilità originaria dell'azione proposta dall'attrice, con cassazione senza rinvio della sentenza di seconde cure, nella parte in cui ha confermato le statuizioni di primo grado di accoglimento della domanda di rivendica della controricorrente. Osservazioni
La pronuncia in epigrafe coinvolge il tema della stabilità degli effetti della vendita forzata, ossia un principio che, nel nostro ordinamento, appare salvaguardato da una pluralità di disposizioni legislative. La prima norma a venire in rilievo è, ovviamente, l'art. 2929 c.c., il quale, in materia di nullità del processo esecutivo, prevede che «le nullità degli atti esecutivi che hanno preceduto la vendita o l'assegnazione non ha effetto riguardo all'acquirente o all'assegnatario, salvo il caso di collusione con il creditore procedente». Tale garanzia, come noto, è estesa anche all'aggiudicazione (anche provvisoria) dall'art. 187-bis disp. att. c.p.c., secondo cui «in ogni caso di estinzione o di chiusura anticipata del processo esecutivo avvenuta dopo l'aggiudicazione, anche provvisoria, o l'assegnazione, restano fermi nei confronti dei terzi aggiudicatari o assegnatari, in forza dell'art. 632, secondo comma, del codice, gli effetti di tali atti». Altra manifestazione di tale principio può poi essere rinvenuta nell'art. 2920 c.c. il quale, in caso di vendita forzata di una cosa mobile, prevede che i terzi che avevano la proprietà o altri diritti reali su di essa, ma non abbiano fatto valere le loro ragioni sulla somma ricavata dall'esecuzione, non possano «farle valere nei confronti dell'acquirente di buona fede». La salvaguardia degli effetti sostanziali della vendita forzata ha peraltro conosciuto una certa intensificazione ad opera dell'interpretazione offerta dalla giurisprudenza di legittimità la quale, come visto, in via generale onera le parti della procedura esecutiva di far valere eventuali vizi della stessa, idonea a caducare i predetti effetti, tramite i rimedi interni all'esecuzione forzata, con esclusione della possibilità di agire in via ordinaria, successivamente alla chiusura del processo esecutivo. Nel caso di specie, l'attrice ha preteso di denunziare, al di fuori del processo esecutivo e quale vizio della vendita ivi perfezionatasi, la circostanza che sia stato aggiudicato un bene sul quale la stessa vantava un diritto di comproprietà. A tal proposito, possiamo senz'altro richiamare anche l'art. 2919, comma 1, c.c., che sancisce la natura derivativa dell'acquisto in executivis e, con esso, il principio secondo cui nemo plus iuris quam ipse habet transferre potest; da tale riconoscimento deriva che il giudice dell'esecuzione forzata non possa trasmettere un diritto reale maggiore (per qualità o estensione) rispetto a quello che è stato oggetto di pignoramento e, conseguentemente, che il decreto di trasferimento in favore dell'aggiudicatario, pur costituendo titolo d'acquisto, non lo rende immune da pretese di terzi e dal rischio di evizione. Tale principio vale però, appunto, esclusivamente per i terzi, i quali, in quanto rimasti estranei al processo esecutivo, non sono legittimati alla proposizione dell'opposizione ex art. 617 c.p.c., e possono allora vedersi riconoscere la legittimazione ad agire a tutela delle proprie ragioni (e, segnatamente, a rivendicare la titolarità dei cespiti oggetto dell'espropriazione) con autonome azioni di accertamento della proprietà, oltre che, se ancora pendente l'espropriazione, con l'opposizione di terzo ex art. 619 c.p.c. (in termini, Cass. 13 novembre 2012, n. 19761). Diversa è la situazione con riferimento alle parti del processo esecutivo, rispetto alle quali, come già ricordato, la giurisprudenza di legittimità ha progressivamente costruito un “sistema chiuso” per l'emersione dei vizi della procedura esecutiva (e, segnatamente, della vendita forzata), allo scopo di assicurare il già richiamato valore della stabilità degli effetti del processo esecutivo: esempio emblematico di tale tendenza è rappresentato dalla pronuncia di Cass. 2 aprile 2014, n. 7708, la quale ha convogliato nelle forme dell'opposizione ex art. 617 c.p.c. le doglianze (sostanziali) dell'aggiudicatario in caso di alienazione di aliud pro alio. È dunque questa esigenza di garantire stabilità agli effetti degli atti dell'esecuzione forzata a imporre l'inammissibilità di un'azione autonoma (cioè distinta dai rimedi tipici del processo di esecuzione forzata), proposta da una delle parti del processo esecutivo - ivi legittimata all'opposizione ex art. 617 c.p.c. – per contrastare gli effetti dell'esecuzione, ponendoli nel nulla o limitandoli (sul punto, Cass., sez. un., 28 novembre 2012, n. 21110; Cass. 8 febbraio 2019, n. 3709); e ciò, a maggior ragione, laddove si intendesse attentare all'acquisto a favore dell'aggiudicatario, la cui situazione giuridica soggettiva, ai sensi dell'art. 2929 c.c., non può essere incisa - salvo il caso di collusione col creditore - da iniziative extra ordinem dell'esecutato, quand'anche attinenti a pretesi vizi relativi all'assegnazione o alla vendita. Simili affermazioni, peraltro, sono riscontrabili anche in relazione alla stabilità riconosciuta al riparto. Emblematica, a tal riguardo, è la pronuncia di Cass. 22 giugno 2020, n. 12127, secondo la quale il provvedimento che chiude il procedimento esecutivo, pur non avendo, per la mancanza di contenuto decisorio, efficacia di giudicato, è, tuttavia, caratterizzato da una definitività insita nella chiusura di un procedimento esplicato col rispetto delle forme atte a salvaguardare gli interessi delle parti ed incompatibile con qualsiasi sua revocabilità, in presenza di un sistema di garanzie di legalità per la soluzione di eventuali contrasti, all'interno del processo esecutivo; ne consegue che il soggetto espropriato non può esperire, dopo la chiusura del procedimento di esecuzione forzata e sul presupposto dell'illegittimità per motivi sostanziali dell'esecuzione forzata, l'azione di ripetizione di indebito contro il creditore per ottenere la restituzione di quanto costui abbia riscosso. Relativamente a detto principio, non può tacersi della posizione dottrinale che, in critica a tale indirizzo, ammette il debitore esecutato ad agire, in sede ordinaria, una volta chiuso il processo esecutivo, per la ripetizione dell'indebito, sulla base dell'illegittimità o della illiceità sostanziale dell'azione esecutiva: questo in quanto all'interno del processo esecutivo non si svolge attività di cognizione su diritti soggettivi e non si perviene alla pronuncia di un provvedimento idoneo al giudicato ex art. 2909 c.c., sicché nessun effetto preclusivo può davvero prodursi. In definitiva, la preclusione della condictio indebiti non potrebbe mai derivare dal provvedimento di riparto bensì, tutt'al più, solo da un provvedimento emesso all'esito di un giudizio di cognizione, che accerti con efficacia di giudicato il diritto del creditore a ottenere la prestazione conseguita con il riparto. Riferimenti
Sulle specifiche questioni si rinvia, oltre alla giurisprudenza citata nel testo, a:
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