Compensatio lucri cum damno: l'indennizzo dell'assicurazione infortuni va detratto dal danno risarcibile?

08 Novembre 2022

Nel saggio si verifica perché la questione della defalcabilità dal danno risarcibile dell'indennizzo ricevuto dal danneggiato in ragione di un'assicurazione contro gli infortuni dagli esiti non mortali non sia stata ancora risolta dalla nomofilachia di legittimità e perché le corti di merito non dovrebbero aderire acriticamente all'unico precedente di legittimità che questo esito ha finora giustificato.
Un problema ancora irrisolto dalla nomofilachia di legittimità

L'intera dinamica giurisprudenziale che in anni recenti ha innescato il tentativo di ripensare dalle fondamenta portata ed effetti della compensatio lucri cum damno nel nostro ordinamento, approdato alla ben nota quaterna composta da Cass. Civ. 22 maggio 2018 n. 12564, n. 12565, n. 12566, n. 12567 (in NGCC, 2018, 1407, nt. Izzo, Quando è «giusto» il beneficio non si scomputa dal risarcimento del danno), ha trovato il suo fondamentale punto di attacco nella Cass. civ., sez. un., 10 aprile 2002 n. 5119, una sentenza che si occupava di qualificare la causa del contratto di «assicurazione contro le disgrazie accidentali», formula che conserva ottime ragioni per essere impiegata, anche perché è l'unica espressione che il codificatore del 1942 ha usato — e, come si vedrà, non per caso — per alludere all'esistenza di un tipo assicurativo che nella legislazione di dettaglio del settore assicurativo è riferito al «ramo infortuni» e che nella prassi viene atecnicamente definita «assicurazione infortuni» tout-court.

Quell'arresto è alla base della prima e (mentre si scrive nel novembre 2022) unica sentenza di legittimità che, negli 80 anni trascorsi dalla codificazione, ha elaborato una motivazione tesa a giustificare la necessità di sottrarre per compensatio lucri cum damno l'indennizzo assicurativo — erogato al beneficiario di un'assicurazione infortuni al ricorrere di una disgrazia accidentale esitata in una compromissione della salute dell'assicurato — dal risarcimento del danno che l'assicurato chiede al danneggiante.

Questa sentenza resta Cass. Civ., 11 giugno 2014 n. 13233 (commentata fra gli altri da R. Pardolesi, Sovrapposizione di indennizzo e risarcimento: chi premiare, la vittima o l'autore dell'illecito?, FI, 2014, I, 2064; R. Pardolesi, Santoro, Indennizzo e risarcimento del danno: di cumuli e cavoli, DR, 2014, 1008; Puliga, Riflessi pratici di Cass. n. 13233/2014 sul sistema assicurativo, DR, 2014; Gagliardi, La liquidazione del danno alla persona e il problema del cumulo tra risarcimento del danno e indennità assicurativa, DR, 2016, 465), la quale giunse a ritenere nulla per contrarietà all'ordine pubblico la rinuncia pattizia alla surrogazione recata nella polizza predisposta dall'assicuratore.

Questa pronuncia del 2014 resta tutt'oggi la sola sentenza di legittimità ad aver elaborato un'argomentazione volta a sorreggere la scelta di scomputare dal risarcimento del danno l'indennizzo erogato in forza di assicurazione infortuni, questa prestazione di welfare frutto dell'autonomia privata, non corrispondendo al vero che le argomentazioni prospettate in tale pronuncia abbiano ricevuto avallo dalla risposta nomofilattica formulata dalle Sezioni Unite della Cassazione nel maggio 2018 (sottolineano il dato Villa, La tecnica della compensatio lucri cui damno e i limiti all'autonomia privata, CG, 2018, 1043, 1044 e anche Sartori, Appunti sulle assicurazioni infortuni: funzione indennitaria e vantaggi compensativi, GC, 2019, 809, 829).

È, dunque, falso quanto affermato dalla Cass. Civ., n. 14358/2019 (in FI, 2019, I, 3186, nt. Palmieri, Pardolesi, Sulla incumulabilità di indennizzo e risarcimento: nitore e furore di una costruzione giurisprudenziale), in una motivazione ove si chiosa, senza curarsi di esercitare la necessaria arte del distinguishing, e operando un richiamo che sfiora il travisamento in diritto del precedente nomofilattico richiamato, che le Sezioni Unite del 2018 avrebbero consacrato il dictum della Cass. n. 13233/2014.

Si omette di dire che le S.U. si sono fin qui potute pronunciare solo su un contratto di assicurazione contro i danni a cose. È pertanto destituita di fondamento l'affermazione recata in questo arresto, a tenore del quale le argomentazioni recate in Cass. n. 13233/2014 identificherebbero «un indirizzo che ha, di recente, ricevuto il pieno avallo dalle Sezioni Unite di questa Corte, avendo esse ribadito, con l'arresto di cui sopra si diceva, che nella assicurazione contro i danni “l'indennità è erogata in funzione di risarcimento del pregiudizio subito dall'assicurato in conseguenza del verificarsi dell'evento dannoso ed essa soddisfa, neutralizzandola in tutto o in parte, la medesima perdita al cui integrale ristoro mira la disciplina della responsabilità risarcitoria del terzo autore del fatto illecito” (Cass. Sez. Un., 22 maggio 2018, n. 12565), ravvisandosi, così, nella percezione dell'indennità assicurativa un'ipotesi di c.d. “compensatio lucri cum damno”» (così, Cass. 27 maggio 2019 n. 14358).

Lo stesso travisamento ricorre nella quasi coeva Cass.n. 14361/2019: «la questione era stata tuttavia medio tempore esaminata dalle Sezioni Unite e risolta, mesi prima del deposito della memoria, da Cass. S.U. n. 12565 del maggio 2018, dando continuità all'indirizzo, già espresso da Cass. n. 12333 del 2014, secondo il quale l'assicurazione contro gli infortuni non mortali costituisce un'assicurazione contro i danni ed è soggetta al principio indennitario, in virtù del quale l'indennizzo non può mai eccedere il danno effettivamente patito».

Questo grave aggiramento del problema nodale che si agita attorno alla possibilità di ritenere che le logiche proprie del principio indennitario possano trasmodare senza colpo ferire da un aeromobile a una persona, suggerisce di allestire una trattazione del problema che affronti il tema nella sua non eludibile complessità, perché solo un'analisi attenta a dar conto delle implicazioni storiche, economiche e comparatistiche che il tema prospetta permette di articolare una risposta affidante a una questione tecnica che, mentre si scrive, continua a produrre effetti strategicamente distonici sul mercato assicurativo.

Il «gioco delle due carte» degli assicuratori e «l'impeto scomputatorio» delle corti di merito

Le compagnie assicurative, infatti, seguitano a offrire sul mercato polizze infortuni che prospettano all'assicurato contraente la volontà di rinunciare convenzionalmente all'esercizio del diritto di surrogazione. Ma quando, assumendo un diverso ruolo negoziale, esse vengono convenute in giudizio, quali assicuratori della responsabilità civile a seguito del verificarsi di sinistri implicanti danni importanti — in casi che rendono conveniente eccepire che, in conseguenza del medesimo sinistro, il danneggiato ha percepito l'indennizzo in forza di assicurazione infortuni di cui beneficiava — le compagnie assicurative si affettano a far leva sulle indicazioni che lo stato assai confuso della giurisprudenza di legittimità sul tema oggi prospetta, e si appellano alla isolata autorità di Cass. n. 13233/2014, per chiedere che dalla richiesta risarcitoria, di cui devono rispondere quali assicuratori del civilmente responsabile, sia detratto l'importo già incamerato dal danneggiato in virtù dell'operatività della polizza c.d. first party (si veda, fra i molti casi di merito che attestano il diffondersi di questa prassi giudiziale, Trib. Chieti, sez. dist. Ortona, 8 novembre 2017, n. 225, in Thun Hohenstein Welsperg, Il “ciclista previdente” che si scontrò due volte: con un'auto e col principio indennitario applicato all'assicurazione infortuni, Trento LawTech Student Paper n. 46, Trento, 2019 e la dettagliata analisi della giurisprudenza di merito post 2014 ivi condotta, cui adde, in un campionamento rapsodico della giurisprudenza di merito degli ultimi anni: Trib. Milano, sez. X, 15 dicembre 2021, n. 10405; Trib. Torino, sez. IV, 17 maggio 2021, n. 2438.

Tale è l'«impeto scomputatorio» che pervade le corti territoriali, che può capitare che una corte di merito si spinga a defalcare l'importo dell'indennizzo ricevuto dall'assicurato in forma di polizza infortuni personale dall'importo chiesto dall'INAIL esercitando il regresso per le somme erogate al lavoratore infortunato nei confronti del datore di lavoro, come correttamente stigmatizzato, riformando la sentenza che così aveva deciso, da App. Perugia, sez. lav., 8 aprile 2021, n. 71).

Alle radici del problema: codificazione e assicurazione «contro le disgrazie accidentali»

L'equivoco può comprendersi solo riportandosi al modo nel quale a ridosso del 1942 assicurazione e responsabilità civile, quali sistemi di regole fatalmente interrelati, furono messi allo specchio nel por mano all'assetto che l'assicurazione avrebbe ricevuto nella codificazione.

Quando si scelse di proporre la disciplina del contratto di assicurazione nel IV libro del codice si negò spazio a una considerazione autonoma del sottotipo del contratto sull'assicurazione contro gli infortuni non mortali.

Accanto al contratto di assicurazione sulla vita, il nuovo codice identificava un unico, indistinto, tipo assicurativo destinato ad assorbire contrattualmente i fenomeni dannosi nella società — destinato a obbligare l'assicuratore «a rivalere l'assicurato, entro i limiti convenuti, del danno ad esso prodotto da un sinistro» (art. 1882 c.c.).

Questa identificazione avveniva — se si è d'accordo nel ritenere che l'idea del danno sul piano logico preceda l'idea dell'assicurazione concepita per assorbire gli effetti della prima di queste idee — avendo a mente la nozione di danno in voga negli anni in cui il codice prendeva forma (per un'analisi di dettaglio su protagonisti e scelte operate nella redazione di quella parte del Codice civile, Izzo, La «giustizia» del beneficio. Fra responsabilità civile e welfare del danneggiato, Napoli, 2018, 222 ss.).

Alla vigilia del 1942 le geometrie patrimoniali nelle quali il danno alla persona si esaurisce, quando esso non trovi la propria differente ragion d'essere nell'ideale punitivo cui l'art. 2059 c.c. stava per fare implicito rinvio, assorbono ed esprimono tutto il valore assicurabile agganciato al pregiudizio di cui la «persona» può risentire dopo aver subito un infortunio non mortale conseguente a disgrazia accidentale.

Coerentemente, con l'avvento del Codice il valore della persona che risente di un danno, sul versante assicurativo si avviò a restare inglobato in una concezione del danno (« ;sofferto dall'assicurato in conseguenza del sinistro ;», come recita l'art. 1905 c.c.) avvinta in modo rigoroso ed esclusivo alla considerazione di un individuo non ancora persona, oggetto di valutazione per il diritto civile dei danni solo nella misura in cui tale individuo sapesse produrre di reddito (così, ancora e convintamente, Durante, L'assicurazione privata contro gli infortuni, Milano, 1960, 306).

Non per caso, la disciplina recata dagli artt. da 1904 a 1918 c.c. (quella rubricata sotto la rubrica assicurazione contro i danni) — che pure all'occorrenza non rinuncia a enunciare regole che mostrano di considerare da presso la peculiare natura del bene oggetto di assicurazione (basti pensare alla mortalità del bestiame, art. 1913, comma 2, c.c.) — elegge a paradigma definitorio la nozione di « ;cosa assicurata ;» (richiamata espressamente negli artt. 1906, 1907, 1908, 1909, 1914, 1918 c.c.) in luogo di quella, più neutra sotto il profilo qui considerato, di «bene assicurato» (per un'analisi delle ragioni per le quali le regole assicurative informate al principio indennitario presuppongono il verificarsi di un danno di natura patrimoniale, che trovi direttamente nel mercato il proprio dispositivo di misurazione, Izzo, La «giustizia», cit., 229 ss.).

In una disciplina codicistica dell'assicurazione che rispecchia una cesura netta fra valori connessi a logiche di tutela e tecniche di commisurazione radicalmente divergenti — il valore delle cose e quello della vita — quando ancora l'idea di risarcire la compromissione della persona in sé considerata è lungi dall'apparire sui radar, non assume senso prevedere valvole normative predisposte a rapportarsi alla natura non patrimoniale del danno derivante dalla distruzione del valore della integrità della persona, ove tale distruzione non raggiunga la massima intensità con la perdita della vita destinata ad essere compensata ai congiunti. Il valore di questa integrità, al tempo, per il diritto civile italiano semplicemente non esiste. Se non perde la vita, la persona colpita dalla disgrazia accidentale non può lamentare altro che la sua incapacità di produrre reddito, che, non per caso, è la stessa perdita cui supplisce l'assicurazione obbligatoria contro gli infortuni del lavoro.

È questa la fondamentale analogia assiologica che, indicando l'opportunità di istituire un trattamento giuridico del tutto omogeneo sul piano della dogmatica del tempo, nel codice del 1942 indusse ad accomunare, in base a una evidente razionalità tecnica, le due ipotesi dell'assicurazione obbligatoria contro gli infortuni e dell'assicurazione contro le disgrazie accidentali nel richiamo unitario operato dal quarto comma dell'art. 1916 c.c.

Il progressivo, fatale, tramonto del modo di concepire quell'analogia fra l'ubi consistam dell'assicurazione infortuni contro le disgrazie invalidanti e l'assicurazione contro gli infortuni sul lavoro lascerà in quel lapidario richiamo dell'art. 1916, comma 4, c.c. l'unico dato normativo col quale fare i conti per ricostruire le regole applicabili all'assicurazione facoltativa contro le disgrazie accidentali suscettibili di colpire la persona, avviando una vera logomachia in seno a una dottrina assicurativa tanto attenta a ragionare tecnicamente in base alle geometrie e ai dispositivi interni alla disciplina positiva coltivata con estrema attenzione specialistica, quanto incapace di trarre le dovute conclusioni dalla necessità di avvedersi che nel frattempo, nel contiguo e forse da questi studiosi poco sorvegliato campo della responsabilità civile, il concetto civilistico di danno si andava radicalmente trasfigurando nella lunga stagione che segnò il progressivo adeguamento del codice ai valori sociali e personalistici della Carta del 1948.

Sessant'anni di dibattiti nella dottrina assicurativa…

Il dibattito degli assicurazionisti per decenni si polarizzò su due ipotesi interpretative. Da un canto i fautori di un ideale tertium genus tipologico del contratto di assicurazione, atto a riflettere la particolare natura del bene esposto a rischio (né cosa, né vita, ma salute e integrità psicofisica), e tale da concedere di individuare volta per volta, in una prospettiva incline a valorizzare l'autonomia negoziale, le regole applicabili a questo ibrido contrattuale, col rinvio alle regole di quello che, fra i plessi di regole dedicati a regolare i due macrotipi normativi dell'assicurazione, rispettivamente, « ;danni ;» e « ;vita ;», si fosse rivelato più adatto a rispondere allo specifico problema applicativo che il contratto « ;infortuni ;» in concreto avrebbe posto all'interprete (Salandra, Natura giuridica dell'assicurazione facoltativa infortuni, ASS, 1942, II, 119; id., Natura e disciplina giuridica della assicurazione privata contro gl'infortuni, ASS, 1948 I, 3; Pasanisi, L'assicurazione infortuni nella disciplina legislativa del contratto di assicurazione, ASS, 1962, I, 361; Donati, Il concetto giuridico di assicurazione negli orientamenti della dottrina italiana, in AA.VV., Studi in onore di Alberto Asquini, I, Padova, 1965 368, e v. La Torre, Un convegno di studi sull'assicurazione infortuni, in LA TORRE, Cinquant'anni col diritto, II, Milano, 2008, 557, 568).

Dall'altro quanti — convinti della necessità di impedire che il contratto in parola potesse degenerare in uno strumento di illecito arricchimento, atto a stimolare la realizzazione del rischio descritto in polizza — erano persuasi che il principio indennitario, proprio della disciplina dell'assicurazione contro i danni, fosse destinato ad imbrigliare anche la natura ontologicamente non patrimoniale del rischio legato alla compromissione della integrità fisica della persona assicurata contro le disgrazie accidentali non mortali (Fanelli, Natura giuridica dell'assicurazione privata contro gli infortuni ed insieme un contributo alla teoria giuridica dell'assicurazione, ASS, 1943, 186; id., L'assicurazione privata contro gli infortuni, Roma, 1945; id., La « ;summa divisio ;» delle assicurazioni private: riflessioni su di un vecchio problema, FI, 1962, IV, 51).

In questo contesto, fino al 2002 la giurisprudenza di legittimità aveva dato prova di grande elasticità nell'attingere ai due plessi di regole del sottotipo dell'assicurazione contro i danni e di quello dell'assicurazione sulla vita quante volte la disciplina di uno dei due sottotipi si fosse mostrata adatta a risolvere uno specifico problema posto da questo strumento assicurativo (per un'analisi di dettaglio sulle ipotesi nelle quali la Cassazione, nei 60 anni correnti fra il 1942 e il 2002, ha applicato al contratto « ;infortuni ;» la disciplina dell'assicurazione vita e di quelle nelle quali sono state, invece, le regole dell'assicurazione danni a trovare applicazione, Izzo, La «giustizia», cit., 239 ss.).

(Segue) …cancellati dal tratto di penna di un estensore

Vagliando il caso di un assicurato che aveva concluso una pluralità di polizze infortuni (fra le quali solo una contemplava la comune volontà dei contraenti di disapplicare al contratto l'art. 1910 c.c., secondo quanto l'art. 1932 c.c. facoltizza a prevedere), le sezioni unite del 2002 ritennero che fosse tempo di operare un completo restatement del panorama giurisprudenziale di legittimità stratificatosi nei sessant'anni di vita del codice civile sul tema dell'assicurazione infortuni (Cass. sez. un., 10 aprile 2002 n. 5119, cit.).

Si è così sancito che, mentre «alla assicurazione contro le disgrazie accidentali (non mortali), in quanto partecipe della funzione indennitaria propria dell'assicurazione contro i danni, va estesa l'applicazione dell'articolo 1910, trattandosi di norme dettate a tutela del principio indennitario, per evitare che, mediante la stipulazione di più assicurazioni per il medesimo rischio, l'assicurato, ottenendo l'indennizzo da più assicuratori, persegua fini di lucro conseguendo un indebito arricchimento», questo non accade nel caso delle assicurazioni contro le disgrazie accidentali mortali, alle quali il principio indennitario è estraneo, con l'effetto di rendere inapplicabile in tale ipotesi la disciplina dettata dall'art. 1910 c.c.

L'annoso dibattito in merito alla qualificazione dell'assicurazione contro le disgrazie accidentali è stato così superato a piè pari nel 2002, ipostatizzando artificialmente il rilievo della distinzione fra salute e vita, quali beni unitariamente minacciati dal rischio di disgrazia. Così, mentre la prassi negoziale s'ingegna di contrastare unitariamente la minaccia della disgrazia accidentale, proponendo ai potenziali acquirenti contratti che prevedono la congiunta copertura di tale rischio, sia quando esiti nella perdita della vita, sia quando esso si risolva in una compromissione della salute dell'assicurato, per le S.U. vita e salute, una volta incisi dal verificarsi della disgrazia accidentale, assumono rilievo negoziale differenziato, perché espressione di funzioni assicurative e tecniche di commisurazione distinte, che, come tali, sarebbero capaci da retroagire sulla causa del contratto, differenziandone l'ascrivibilità al tipo negoziale dell'assicurazione contro i danni (quando la disgrazia si limiti a colpire, anche se con effetti devastanti, la salute dell'assicurato) o al tipo dell'assicurazione sulla vita (al verificarsi di una disgrazia letale).

Ne conseguono per le S.U. due negozi collegati.
Il primo causalmente riconducibile all'assicurazione danni, e quindi retto dal principio indennitario, destinato a regolare il rapporto, quando la prestazione risponda a una disgrazia che vulneri la salute dell'assicurato.
Il secondo, causalmente assimilabile al tipo dell'assicurazione vita, e quindi libero dalle costrizioni del principio indennitario, destinato a regolare il rapporto quando la disgrazia esiti nel totale azzeramento dell'esistenza dell'assicurato. Si gettano così le basi per sostenere che la peculiare struttura causale del contratto contro le disgrazie accidentali obblighi le parti a ponderare l'opportunità dello scambio economico sotteso al negozio tenendo fermo l'assioma che uno dei valori economici implicati nella prestazione assicurativa, quale indennizzo erogabile al verificarsi del rischio dedotto in polizza, nel realizzare lo scopo della neutralizzazione del rischio cui tende il contratto, non possa mai superare il valore del danno risarcibile che l'ordinamento attribuisce alla salute dell'assicurato, perché il «bene salute» colpito dalla disgrazia non può in alcun caso vedersi attribuire una stima economica superiore a quella che il medesimo bene riceve in sede risarcitoria.

È questo il punto fondamentale della decisione che stiamo ripercorrendo, che è poi quello che, come adesso vedremo, attira la critica più radicale che si deve muovere a questa sentenza di nomofilachia, che quando apparve non ricevette l'attenzione che avrebbe meritato da parte della dottrina civilistica.

Ripensare le Sezioni Unite

Il ragionamento seguito dalle Sezioni Unite 10 aprile 2002 n. 5119 approda a ritenere che il valore (stipulativo: sarebbe il caso di tenerlo sempre a mente) della salute, letto forzosamente (e contro la sua ontologia natura) nel prisma del principio indennitario, debba trovare un limite non valicabile nel prezzo convenzionale che si attribuisce alla salute compromessa quando la causa giuridica di tale compromissione sia una disgrazia accidentale cagionata da un terzo che debba risponderne civilmente.

Alla base di questa conclusione, la convinzione che, così non facendo, le parti (e, più nello specifico, i sempre vigili assicuratori, forse la categoria di paciscenti storicamente più attenta a soppesare contrattualmente la convenienza e la sostenibilità economica della propria proposta negoziale) non sarebbero in grado di regolare i propri interessi all'interno di uno scambio assicurativo liberamente concepito dall'autonomia contrattuale e, in ultima analisi, che questo scambio, laddove ammettesse che l'indennizzo pattuito per rispondere alla compromissione della salute dell'assicurato possa sopravanzare quanto riconosciuto per il risarcimento della lesione dell'integrità fisica causata da un illecito, alimenterebbe il moral hazard dell'assicurato. È la stessa ossessione esibita dai cultori del revirement sulla compensatio lucri cum damno nella sentenza che nel 2014 dichiarò l'esistenza di un assai discutibile (amplius sul punto, Izzo, La «giustizia», cit., 307 ss.) «contrasto occulto» su questo tema, dando luogo a tutto quello che ne è seguito.

Il modo di vedere le cose fatto proprio dalle sezioni unite nel 2002 con la penna assai nitida di Roberto Preden si espone a una critica radicale. Perché ignora il modo nel quale si è evoluta nel corso del Novecento la relazione fra contratto di assicurazione e responsabilità civile. E manca di considerare in una prospettiva storicamente consapevole che la curvatura «surrogatoria» dell'assicurazione contro le disgrazie accidentali iscritta nell'art. 1916 c.c. è legata a doppio filo all'idea di una «persona» che con la disgrazia è (o meglio: a quel tempo era) destinata a perdere solo la propria attitudine reddituale, l'unica perdita suscettibile di essere processata quale danno risarcibile nel 1942.

La medesima curvatura gira invece a vuoto e va attentamente riconsiderata rispetto ai suoi termini originari ottant'anni dopo, in un tempo nel quale la funzionalità risarcitoria della responsabilità civile rispetto alla persona si sviluppa saldamente nel campo del non patrimoniale, ove l'idea della «riparazione integrale», connaturata alla compensazione economica per equivalente, con tutte le regole che in concreto si preoccupano di declinarne gli effetti, si rende a dir poco evanescente, perdendo ogni aggancio con la realtà cui pretenderebbe d'essere riferita (difficile, sotto questo profilo, non concordare con le considerazioni di Salvi, Il risarcimento integrale del danno non patrimoniale, una missione impossibile. Osservazione sui criteri per la liquidazione del danno non patrimoniale, EUR DIR PRIV, 2014, 517, 530; id., La responsabilità civile3, Trattato Iudica-Zatti, Milano, 2019, 40 ss. e 258).

In questo scenario la concezione indennitaria nella quale le sezioni unite del 2002 «costringono» la perdita non patrimoniale risentita dalla persona colpita dalla disgrazia accidentale esita in un paradosso, perché traspone una regola di commisurazione sviluppata nel tempo per gestire stipulativamente il problema di attribuire valore alla persona nell'ambito del dispositivo risarcitorio che muove tipicamente da una prospettiva ex post al diverso contesto, predisposto ad ammettere negozialmente la determinazione monetaria ex ante di quel medesimo interesse, del contratto per l'assicurazione « ;first party ;» contro gli infortuni.

È stato a tal proposito osservato con giustificati toni critici che ;«sull'incredibile incomprensione di questo carattere-altro del danno non-patrimoniale si fondano Cass. sez. un., n. 5119/2002 e n. 13233/2014, che, in modo a dir poco stupefacente, riducono il risarcimento del danno alla persona al risarcimento del danno alle cose e su questa base pretendono di ricondurre l'assicurazione contro gli infortuni e le disgrazie accidentali alla medesima causa dell'assicurazione contro i danni alle cose: come se un risarcimento pari al prezzo di listino per la distruzione di una Panda sia la stessa cosa del risarcimento di € 500.000 liquidato per la perdita del marito o del figlio.

Che le tabelle del Tribunale di Milano o di Roma esibiscano la medesima “verità” ed il medesimo “senso” dei listini di una casa automobilistica è una cosa che può concepire solo chi ha smarrito la costitutiva complicazione del rapporto tra universo giuridico e mondo reale» (così M. Barcellona, Compensatio lucri cum damno e causa del contratto di assicurazione, Intervento al convegno Risarcimento del danno e welfare del danneggiato nel prisma del diritto civile, Facoltà di Giurisprudenza, Università di Trento, 7 dicembre 2018).

Commisurare l'interesse extrapatrimoniale alla salute ex ante ed ex post non risponde a logiche omogenee e non rende la natura dell'indennità sovrapponibile al danno risarcibile ai fini delle compensatio lucri cum damno.

Tutto ciò ignora che il punto di osservazione dal quale muovere per venire a capo del problema di pervenire ad attribuire valore monetario alla perduta integrità corporale della persona risulta conformativo rispetto alla scelta dei parametri che possono essere seguiti per giungere alla commisurazione di questo valore. Poiché, nella prospettiva temporale (sempre successiva rispetto al momento in cui sorge la necessità di effettuare la quantificazione) a partire dalla quale si procede a commisurare il danno civilmente risarcibile alla persona, il quantum del risarcimento, pur se personalizzabile (sempre comunque in una misura forfettaria) nell'ambito di ciascuna vicenda processuale e in relazione alle caratteristiche esibite del danneggiato di turno, nella più ampia prospettiva del contenzioso ripetuto e seriale nel quale si situa ciascuna vicenda risarcitoria è, in realtà, cumulativamente destinato a passare da una pluralità di convenuti a una pluralità di attori, il più delle volte giovandosi della riallocazione sociale collettiva che l'operare dell'assicurazione contro la r.c. sempre più resa obbligatoria permette di agevolare.

Oltre a riflettere la necessità di assecondare le molteplici funzioni di cui il dispositivo del risarcimento del danno alla persona si rende interprete (compensare ed esprimere deterrenza, in primis), la determinazione della misura del danno (sempre stimata ex post) in questo contesto deve essere impostata ossequiando un canone di razionalità suscettibile di favorire sia la composizione delle liti, che lo stesso funzionamento del meccanismo attuariale dell'assicurazione r.c. (e non è un caso che l'idea di equità collettiva nella stima del danno non patrimoniale alla persona, giustamente valorizzata dalla nostra giurisprudenza costituzionale, sia stata esplicitamente messa in relazione al canone di eguaglianza, Corte cost. 16 ottobre 2014 n. 235, su cui Grisi, Sviluppi sul terreno della liquidazione equitativa del danno e dintorni, CI, 2014, 1171, 1177).

Questa esigenza di razionalità si fa tutt'uno con la direttiva di cui l'art. 3 Cost. impone il rispetto nel procedere alla commisurazione del danno non patrimoniale alla persona (nella storia del pensiero giuridico occidentale, l'emersione del concetto di eguaglianza risale a quando si forgiò l'idea di individuo/persona nella Modernità fra tardo Cinquecento e Seicento, allorché fra il c.d. «paradigma dell'individuale» e dell'umano e l'idea di eguaglianza si creò un legame indissolubile, v. Schiavone, Eguaglianza. Una nuova visione sul filo della storia, Torino, 2019, 82-98; e vedi, più specificatamente, Navarretta, ΔΊΚΑΙΟΝ come ΝΌΜΙMΟΝ e ΔΊΚΑΙΟΝ come 'ΊΣΟΝ: riflessioni in margine all'ingiustizia del danno, in AA.VV., Liber amicorum per Francesco D. Busnelli. Il diritto civile fra principi e regole, I, Milano, 2008, 617, 620).

Questa razionalità si pone a fondamento del meccanismo tabellare e dei valori commisurativi che convenzionalmente trovano dispiegamento nelle tabelle impiegate per quantificare il danno non patrimoniale alla persona, dove si può dire che il valore base della salute perduta dall'uomo sia «escogitato» (proprio nel senso «dell'essere pensato a partire da») in una visuale che abbraccia la relazione fra eguaglianza e impersonalità dell'uomo su cui invita a riflettere Schiavone, cit. 281 ss. È solo nella visuale dell'ex post che una misura di denaro perimetrata dal dispositivo della responsabilità civile (quale possa essere in concreto la fonte dell'obbligazione risarcitoria) nella consistenza rispondente alle logiche proprie di questo dispositivo ha ragione di mettere in relazione il patrimonio di un attore con quello di un convenuto attraverso il sorgere dell'obbligazione risarcitoria. Solo nell'ambito di una relazione di tal fatta la valenza paranormativa associabile al principio della riparazione integrale del danno — con tutti i dubbi indissipabili che l'invocazione di questo principio genera quando esso viene invocato sul terreno della extra patrimonialità — può trovare modo di giustificarsi con sufficiente ragionevolezza.

Questa logica complessiva viene impropriamente riproposta dalla Cassazione del 2002 in uno scenario radicalmente diverso, dove mancano i presupposti in fatto per seguire un ragionamento suscettibile di concedere spazio alle conseguenze che il principio di eguaglianza imprime al tentativo di istituire la commisurazione convenzionale del danno alla persona. Nello scenario dell'assicurazione contro le disgrazie accidentali — quando, in ragione delle modalità di realizzazione dell'evento disgrazia accidentale, che, nel suo darsi quale rischio unitario da cui l'assicurato vuole cautelarsi al momento della conclusione del contratto, le parti considerano unitariamente, senza sapere se, in esito al modo di verificarsi della disgrazia, la prestazione dovuta in forza del contratto sarà destinata a reagire alla compromissione della integrità fisica dell'assicurato o si rivolgerà ai beneficiari, ove la disgrazia ponga termine alla vita di quest'ultimo — l'identificazione del valore non patrimoniale della persona si predispone costitutivamente ad essere oggetto di commisurazione ex ante (l'assicuratore propone un prodotto contrattuale destinato a essere acquistato da chi vuole cautelarsi dalla disgrazia, il quale non può sapere se — e soprattutto come, con quale eziologia e quali conseguenze — s'invererà l'evento avverso dal cui rischio di verificazione discende l'interesse che muove l'acquirente del prodotto assicurativo all'incontro negoziale con l'assicuratore).

In questo scenario, gli artefici di questa ponderazione pattizia (proprio nel senso di una determinazione esclusivamente rimessa all'incontro di volontà dei paciscenti) di tale valore si muovono in un terreno di computo del tutto indifferente all'imperativo di rispettare canoni di uguaglianza costituzionale. Difetta qui la preoccupazione di dar voce alle logiche che, invece, intervengono a spiegare, in una considerazione collettiva, la traslazione seriale di un danno che è anche un costo sociale da una pluralità di convenuti a una pluralità di attori. Nella prospettiva ex ante che l'assicurazione infortuni imprime alla commisurazione di una entità sottratta alla determinabilità collettiva del valore di scambio espressa dal mercato, com'è quella dell'integrità fisica o «bene salute» e come pure è quella della vita o «bene vita», la misura di tale valore trova identificazione in un circuito che non può che essere lasciato alla razionalità mercantile dei protagonisti dello scambio (va richiamata qui la lettura della causa negoziale del contratto di assicurazione messa a fuoco da M. Barcellona, Della causa. Il contratto e la circolazione della ricchezza, Vicenza, 2015, 440 s.) in una dimensione rigorosamente individuale, neutrale anche rispetto a preoccupazioni di taglio distributivo, perché la scelta di assicurarsi di fronte al rischio della disgrazia accidentale — con o senza esiti mortali — resta del tutto discrezionale e dipende, in un ultima analisi, da una disponibilità di risorse che si dà, in capo a chi la effettua, per compiere un investimento previdenziale, prima e a prescindere della scelta negoziale e dell'operazione economica che tale scelta mira a realizzare.

Tutto ciò mette fuori dal gioco il richiamo alla necessità di applicare, nel portare a compimento l'operazione di scomputo dell'indennizzo assicurativo di una polizza infortuni dal danno risarcibile, «un rigoroso metodo di comparazione» (così Papoff, Compensatio lucri cum damno nell'assicurazione privata contro gli infortuni, in questa Rivista, 11 luglio 2022) verificando se le attribuzioni indennitarie recate dalla polizza infortuni corrispondano a voci di danno patrimoniali o extrapatrimoniali. A meno che – ma il rilievo è ovvio – la polizza infortuni di cui venga in gioco la scomputabilità espliciti che alcune prestazioni indennitarie accessorie a quelle dovute per l'invalidità valgono a coprire spese mediche o di riabilitazione, ovvero vere e proprie perdite reddituali subite dall'infortunato.

La causa del contratto di assicurazione contro gli infortuni invalidanti è previdenziale e il moral hazard è un falso problema.

L'orizzonte nel quale prende corpo la scelta di chi si assicura contro la disgrazia accidentale è scandito esclusivamente dalla volontà di acquisire, in tempi certi, rapidi e in proporzioni dipendenti dalla propria capacità di spesa e dalla propria propensione all'investimento previdenziale, risorse economiche che consentano di reagire (meglio di come sarebbe altrimenti) alle conseguenze legate al verificarsi di una disgrazia accidentale, che solo in casi particolari (e statisticamente rari) possono verificarsi in circostanze tali da permettere di ritenerle coincidenti con un danno civilmente imputabile a un terzo estraneo al rapporto contrattuale da cui trae causa l'erogazione dell'indennizzo. Questa scelta negoziale non sottoposta a vincoli di obbligatorietà fa leva su una disponibilità di risorse che, alla conclusione del contratto, confluisce nella prestazione del pagamento del premio. Ed è il pagamento del premio, e la dimensione dell'investimento effettuato con esso, che, al reificarsi del rischio a sua volta opportunamente dimensionato dall'assicuratore a partire dall'investimento voluto dall'assicurato (anche tenendo conto della sua eventuale rinuncia alla surrogazione), giustifica e a sua volta finisce per dimensionare il quantum della prestazione monetaria istituita dalla scelta previdenziale del soggetto che ha voluto cautelarsi dal rischio di disgrazia. Quale possa essere la causa della disgrazia e a prescindere dalla circostanza, del tutto casuale, che essa possa apparire idonea, sul piano giuridico, a istituire un'obbligazione risarcitoria di cui il beneficiario possa scoprire di diventare creditore.

È, dunque, l'assicuratore l'operatore razionale che pondera la congruità e la profittabilità dello scambio fra premio e indennizzo oggetto della promessa, potendo impiegare una molteplicità di strumenti idonei a far sì che lo scambio non venga trasfigurato in un dispositivo idoneo a incrementare il moral hazard dell'assicurato al punto da farne uno strumento per la ricerca di illecite occasioni di guadagno ottenute al prezzo di una compromissione dolosa della propria salute (v. per tutti De Lorenzi, Contratto di assicurazione. Disciplina giuridica e analisi economica, Padova, 2008, 192).

Oltre alla previsione di franchigie e di obblighi d'informazione (sottoimpiegata, sotto questo profilo, ma indubbiamente ricca di potenzialità è la possibilità che le compagnie assicurative facciano un impiego più consapevole e stringente dei questionari, giovandosi della rilevanza negoziale della eventuale reticenza o malafede di chi si assicura per la disgrazia accidentale, v. Monti, Il silenzio e il questionario assicurativo: “Un bel tacer non fu mai scritto”, DR, 2016, 1193) e collaborazione posti a carico dell'assicurato e diretti a favorire l'acquisizione di dati tesi a segnalare (prima) l'affidabilità del contraente nel descrivere il suo profilo di rischio individuale, e ad agevolare (poi) la verifica intorno alla prova della natura non dolosa della disgrazia accaduta, l'assicuratore può contare sulla moral suasion espressa dall'art. 642 c.p. (fra l'altro riformato, inasprendo le sanzioni previste dalla norma, proprio nel 2002).

L'inderogabilità pattizia della surrogazione nell'assicurazione infortuni: una favola inventata da chi la racconta

Affermare che la causa del contratto dell'assicurazione privata contro le disgrazie accidentali con esiti non mortali obbedisce, in via generale e astratta, al principio indennitario, comporta una radicale e ingiustificata compressione di quell'autonomia negoziale attraverso la quale nei contratti di questo ramo assicurativo si era da sempre data voce alle scelte, a un tempo economiche e negoziali (e come tali — occorre presumerlo fino a prova contraria — assistite da un canone di razionalità mercantile, testimoniato dalla reciproca e reiterata condivisione di queste scelte) degli attori del mercato. Per esempio con riferimento all'opportunità di contemplare l'obbligo di comunicazione rilevante ai sensi dell'art. 1910 c.c., che solo ove richiamato dalle parti conforma in senso indennitario il contratto (così T Genova 18 giugno 1993, RFI, 1994, v. Assicurazione - contratto di, n. 99; T Napoli 14 marzo 1974, RFI, 1976, v. Assicurazione - contratto di, n. 337; si è anche giunti a ritenere che « ;nell'assicurazione contro gli infortuni, che è un genus tertium o mixtum di assicurazione, la clausola di polizza che eleva a causa di decadenza dal diritto all'indennizzo l'omessa comunicazione della stipulazione di più polizze deve essere considerata invalida o tamquam non esset perché in contrasto con le norme inderogabili degli art. 1892 e 1893 c.c. ;», così A Napoli 7 maggio 1993, RA DC, 1995, 435, nt. Tafuri).

Oppure con riguardo al liberissimo esercizio della derogabilità pattizia dell'art. 1916 c.c., norma a proposito della quale non si è mancato di osservare che il richiamo testuale (e «additivo», perché operato all'interno di una disposizione — l'art. 1916 c.c. — già collocata nella sezione dedicata alle assicurazioni contro i danni) delle «assicurazioni contro gli infortuni del lavoro e contro le disgrazie accidentali» assuma senso solo assumendo che tale tipo contrattuale non possieda le caratteristiche proprie della categoria di contratti assicurativi presa a cuore dalla sezione ove la norma è collocata, posto che, altrimenti, la specificazione del quarto comma non avrebbe avuto alcuna giustificazione (così già Colasso, L'assicurazione infortuni. Profili giuridici, Milano, 1970, 26).

Che l'art. 1916 c.c. sfugga a un canone d'inderogabilità discendente dalla sua ascrizione a un principio di ordine pubblico imperniato sul rispetto del principio indennitario (del resto la norma che nel contratto di assicurazione perimetra i limiti invalicabili dell'autonomia contrattuale, ossia l'art. 1932 c.c., nulla dice riguardo all'articolo in questione), ma rifletta uno strumento rimesso alla scelta delle parti, per determinare la maggiore o minore misura del premio, e dunque il costo dell'operazione assicurativa, è acquisizione consolidata nella migliore dottrina assicurativa (Volpe Putzolu, Le assicurazioni. Produzione e distribuzione. Problemi giuridici, Bologna, 1992, 124 ss.; Denozza, Contratto e impresa nell'assicurazione a premio, Milano, 1978, 94; e già Castellano, La rinuncia al diritto di surroga nell'assicurazione della responsabilità civile, FI, 1960, I, 1844, 1849-50).

Con riguardo alla valutazione di questa convenienza economica sullo sfondo dell'argomento focalizzato sull'incentivo al moral hazard dell'assicurato restano attualissime le considerazioni di Donati, Trattato del diritto delle assicurazioni private, II, Milano, 1954, 482: «non è esatto che la surroga impedisca un artificioso aumento dei sinistri autoprovocati dall'assicurato, perché la surroga riguarda proprio casi nei quali del sinistro è responsabile un terzo; così è un argomento di pura convenienza economica, che può essere invertito, che la surroga importi riduzione di premio, perché resta a vedere se per l'assicuratore, e quindi per le garanzie collettive della massa degli assicurati, non sia più conveniente un maggior gettito di premi piuttosto che la possibilità (spesso teorica) di recuperare ;».

Considerazioni svolte quasi 70 anni fa, che vanno rispedite all'indirizzo di quanti sostengono che, con l'intervento dell'ordine pubblico sull'autonomia negoziale delle parti nel contratto di assicurazione contro le disgrazie accidentali, le compagnie finirebbero per offrire sul mercato polizze a prezzi ridotti, come se i costi di transazione richiesti alle compagnie per esercitare la surrogazione nelle aule giudiziarie (appesantendo la già congestionata macchina della giustizia) siano oggi cumulativamente inferiori a quelli che si davano al principio degli anni Cinquanta del secolo scorso.

Confutare gli argomenti impiegati nella isolata sentenza di legittimità che accoglie lo scomputo

Dunque, l'impostazione accolta nel 2002 dalle S.U. è alla base dell'unica decisione di legittimità (n. 13233/2014) che — mentre si scrive nel 2022 e determinando un contrasto che resta aperto con i numerosi arresti di legittimità che avevano costantemente respinto l'idea di applicare la compensatio lucri cum damno all'indennizzo infortuni (23 dicembre 2003, n. 19766, AC, 2004, 1201; 10 febbraio 1999, n. 1135, GI, 2000, 507; CC 26 febbraio 1988, n. 2051, RFI, 1988, v. Assicurazione — contratto di, n. 142; senza dimenticare l'avallo che questa precedente interpretazione aveva ricevuto a sezioni unite dalla Cassazione 13 marzo 1987 n. 2639, GI, 1988, I, 1, 825) — ha sancito la sottoposizione dell'assicurazione infortuni al principio indennitario. Resta attuale, pertanto, lumeggiare i cinque argomenti che questo isolato precedente di legittimità ha voluto evocare per giustificare la soluzione accolta.

1) e 2) Il primo e il secondo di essi, ovvero che «l'art. 1882 c.c., quando definisce l'assicurazione contro i danni come quella in virtù della quale l'assicuratore si obbliga a rivalere l'assicurato del danno ad esso prodotto da un sinistro, non fa riferimento solo ai danni alle cose, ma anche ai danni alla persona [e che] per contro, il riferimento del medesimo art. 1882 c.c. agli eventi attinenti alla vita umana, quali presupposto dell'assicurazione sulla vita, va inteso con esclusivo riferimento ai fatti concernenti la morte o la sopravvivenza» sembrano per la verità risolversi in esercizi di ermeneutica soggettiva della lettera della norma che definisce il contratto di assicurazione. Essi appaiono concepiti per imporsi con toni asseverativi sulla contestualizzazione storica del periodo nel quale tale definizione codicistica fu elaborata e sui successivi decenni di aspro dibattito dottrinario alimentati proprio dalla impossibilità di trarre dal fraseggio normativo dell'art. 1882 c.c. le indicazioni univoche che invece la Cassazione del 2014 sembra voler trarre con eccessiva sicurezza dall'enunciato codicistico.

Una sicurezza che si può increspare rileggendo altri fraseggi di legittimità che non sembrano affatto intaccati dal tempo trascorso dacché furono vergati: «a parte che non si riesce davvero a comprendere come si possa ritenere escluso dall'ampia categoria degli “eventi attinenti alla vita umana” di cui è cenno nell'art. 1882 l'infortunio o la disgrazia accidentale che abbia come conseguenza dannosa una lesione dell'integrità fisica dell'individuo e che cagioni perciò a costui un'invalidità temporanea o permanente, ovvero la morte, l'assimilabilità dell'assicurazione di cui trattasi a quella “sulla vita” è infatti reclamata, innanzi tutto, da ciò che entrambe, in quanto coprono il rischio della morte, si atteggiano ad una vera e propria misura di previdenza, a nulla rilevando, sul piano giuridico, che nell'una l'evento letale sia contemplato come effetto di infortunio, come accadimento, cioè, verificatosi in determinate particolari circostanze, mentre nell'altra sia considerato in sé e per sé, vale a dire nella sua materiale fenomenologia, indipendentemente dalla causa che lo ha prodotto.

A far risalire l'impossibilità concettuale, oltre che giuridica, di equiparare l'assicurazione contro gli infortuni a quella contro i danni sta, al contrario, la sostanziale differenza di contenuto che l'una presenta di fronte all'altra, giacché, mentre in quest'ultima il danno viene considerato in riferimento a cose materiali ed inanimate, suscettibili di proprietà e soggette perciò, per se stesse, ad una obiettiva valutazione economica, nell'assicurazione contro gli infortuni e le disgrazie accidentali quello che viene in considerazione è invece il corpo umano, nella sua interezza e nelle sue singole componenti, e cioè un bene tutt'affatto particolare, rispetto al quale, per la concezione etica che gli ordinamenti dei paesi civili, e quindi anche del nostro, hanno della vita umana, non è configurabile un puro e semplice contratto d'indennità come efficace strumento di riparazione del danno prodottosi. E ad ulteriore conferma dell'assoluta impossibilità di applicare all'assicurazione sulla vita il regime dell'assicurazione contro i danni non è superfluo rilevare che, mentre in quest'ultima la misura del risarcimento è facilmente determinabile in quanto va ragguagliata alla diminuzione o alla perdita che la cosa ha subito nel suo valore intrinseco, con la conseguenza che l'assicurato non può realizzare un vero e proprio lucro, trovando l'indennizzo risarcitorio il suo limite naturale nella effettiva entità del danno sofferto, nell'assicurazione sulla vita (che rimane tale, ovviamente, anche nel caso che, come nella specie, quale evento di danno siano in essa previste al tempo stesso la morte e la lesione, essendo sufficiente la prima delle due previsioni a qualificarne la vera essenza) tale determinazione ha viceversa come unico suo parametro il valore che alla vita dell'assicurato, e quindi alla di lui integrità fisica, è stato dichiaratamente attribuito nella polizza, a nulla rilevando che tale valore possa risultare sproporzionato rispetto alla limitata capacità produttiva dell'assicurato stesso o che ad esso il danno economico effettivamente risentito dall'erede, o dal beneficiario dell'assicurazione in genere, sia di gran lunga inferior ;» (così, limpidamente, 9 settembre 1968, n. 2915, FI, 1968, I, 2707).

Si danno, peraltro, altri pregnanti argomenti, imperniati sulla considerazione del problema in discorso alla luce della direttiva di sistema che l'art. 38 Cost. e le altre norme di rilievo costituzionale e sovranazionale identificanti i diritti sociali associano alle potenzialità del contratto di assicurazione (Corrias, La causa del contratto di assicurazione: tipo assicurativo o tipi assicurativi, in id. (a cura di), Liber amicorum per Angelo Luminoso. Contratto e mercato, II, Milano, 2013, 813, 835 ss.; id., Il contratto di assicurazione (Profili strutturali e funzionali), Napoli, 2016, 53), che individuano la vera ragione che induce a dismettere l'idea che la definizione codicistica dell'art. 1882 c.c. debba leggersi appiattendo la vita nella rigida dicotomia sopravvivenza/morte. E che, invece, inducono ad ammettere, contrariamente a quanto ritenuto dalla Cassazione del 2014, che il «requisito dell'attinenza dell'evento alla vita», letteralmente implicato dalla norma che apre il capo dedicato dal codice al contratto di assicurazione, possieda semanticamente la capacità di appropriarsi della più ampia gamma di vedute implicate nel soddisfacimento dei bisogni che ogni persona considera quando riflette previdenzialmente, prima di investire risorse destinate ad attenuare le avversità che, quali « ;eventi ;», possono segnare il proprio personale inoltrarsi in ciò che il codice definisce la « ;vita umana ;» (in tal senso anche Giampaolino, Le assicurazioni. L'impresa. I contratti, Torino, 2013, 444) e su cui il consumatore di polizze riflette pensando a quell'unicum che è la sua esistenza futura.

3) Il terzo argomento evocato dalla Cass. Civ. n. 13233/2014, ovvero che «l'art. 1916 c.c., mirando ad impedire il cumulo di indennizzo e risarcimento, costituisce espressione tipica del principio indennitario [...] di conseguenza, poiché il quarto comma di tale norma concede la surrogazione all'assicuratore contro gli infortuni, anche l'assicurazione infortuni ha natura indennitaria» rifiuta di fare i conti con la circostanza, dotata della forza di cui si vestono tutti i segnali che l'interprete non può fare a meno di considerare quando registra la stabile e prolungata reiterazione di una prassi nella pratica degli affari, che la previsione dell'art. 1916 c.c. è stata per decenni oggetto della facoltà dispositiva delle parti (e qualche rigo fa si è visto come la migliore dottrina assicurazionista non abbia mai nutrito dubbi sulla rinunciabilità del diritto di surroga) nell'assicurazione contro le disgrazie accidentali con esiti non mortali, essendo oggetto di espressa rinuncia nei contratti infortuni formulati dalle compagnie assicurative, per lo meno a far tempo dal 1961, quando, come si è già ricordato, l'industria assicurativa fece sue le conclusioni raggiunte dagli stati generali della dottrina assicurativa italiana su questo controverso «tipo» contrattuale.

Senza contare che non è dall'assunto della inderogabilità della surroga che si può argomentare in ordine alla causa di questo tipo di assicurazione, ma è solo dalla comprensione della causa di questo tipo contrattuale che si può correttamente ragionare in ordine alla disponibilità della surroga.

4) Il quarto argomento è legato all'affermazione che «l'invalidità causata dall'infortunio costituisce sempre un “danno” per i fini di cui all'art. 1882 c.c.: sicuramente biologico, ed eventualmente patrimoniale». Esso muove dal presupposto che l'evento determinante il sorgere del diritto all'indennizzo nelle disgrazie accidentali non mortali dia sempre e comunque luogo a un danno nel senso implicato dall'art. 2043 c.c., senza spiegare perché si darebbe un danno — almeno per come il Codice civile concepisce questa fondamentale nozione — quando l'indennizzo consegua all'inverarsi di un rischio dipendente da imprudenza dell'assicurato o da un fattore naturale ascrivibile a fortuito o forza maggiore. Viene poi obliterata la possibilità che in tale «danno» possano essere considerate, da chi lo subisce, lesioni di interessi non necessariamente riducibili a un danno patrimoniale o biologico, quand'anche letto alla luce dei metodi tabellari in voga a Roma o Milano (anzi: sarebbe proprio questo il contesto adatto per predisporsi a concedere spazio idealmente commisurativo, offerto dall'ex ante proprio della prospettiva negoziale, alla facoltà di attribuire valore monetario alla lesione di interessi idiosincraticamente legati al «fare areddituale » del beneficiario, per dirla col lessico costitutivo degli esistenzialisti, proprio perché, in questo particolare contesto assicurativo, il dispositivo di misura dell'indennizzo risponde solo alla soggettiva capacità dell'assicurato di investire risorse dirette a monetizzare il rischio di compromissione di questi interessi, senza «pesare» sulla sfera giuridica di un danneggiante condannato, destinato a subire la decurtazione patrimoniale associata all'obbligo risarcitorio).

Sotto questo profilo è stato convincentemente osservato che «negare la possibilità ad un consociato di stipulare una polizza assicurativa infortuni che operi anche quando a copertura del danno causato dal sinistro intervenga (in tesi anche integralmente) il risarcimento versato dal danneggiante (o dalla di lui compagnia assicurativa), significa negare a priori la possibilità per ogni consociato di garantirsi, nel caso di sinistro, il recupero del valore che egli effettivamente attribuisce al bene esposto al rischio, e che può essere molto diverso da quello di mercato, ovvero (asseritamente) oggettivo» (così, Di Ciommo, Principio indennitario e traslazione dei costi sociali, in Ruggeri, C. Perlingieri, Il mercato assicurativo nell'unitarietà dell'ordinamento giuridico, Napoli, 2017, 33, 53-54, evocando implicitamente il concetto di merit good su cui invita a riflettere uno dei più recenti contributi di Guido Calabresi, v. Bellantuono, Izzo (a cura di), Il rapporto tra diritto, economia e altri saperi: la rivincita del diritto. Atti della Lectio Magistralis di Guido Calabresi in occasione della chiusura dell'anno accademico del Dottorato in Studi Giuridici Comparati ed Europei, Facoltà di Giurisprudenza, Trento, 24 ottobre 2019, Napoli, 2022, 14 ss.).

5) Il quinto e ultimo argomento evocato dalla Cass. Civ. n. 13233/2014 fa leva sulla «circostanza che la misura dell'indennizzo sia liberamente predeterminata nella polizza non priva l'assicurazione contro gli infortuni non mortali del carattere indennitario, in quanto la legge consente alle parti la stima del valore (art. 1908 c.c.)». Ora, di là dal fatto che alla previsione del secondo comma dell'art. 1908 c.c. in dottrina si attribuisce il ben più limitato senso di influire sull'onere della prova, ove la stima, accettata per iscritto dalle parti all'atto della conclusione del contratto, diverga dal valore che la cosa perita o danneggiata assuma al momento del verificarsi del sinistro, e la parte interessata a far valere il valore della cosa al momento del sinistro intenda contestare la stima (Partesotti, cit., 157 ss., La Torre, Scritti di diritto assicurativo, Milano, 1979, 23), il punto di caduta, suscettibile di confutare la validità di questa argomentazione, è un altro.

Perché l'argomento allude a un meccanismo concepito per addivenire alla stima di un quid (l'art. 1908 c.c. continua a essere rubricato «valore della cosa assicurata») che resta considerabile in un orizzonte valutativo intimamente connesso alla patrimonialità di ciò che la stima misura, il quale è, quindi, destinato ad approdare, che la stima avvenga prima o dopo il verificarsi del danno, a una somma che trova il suo unico parametro di controllo finale nella scambiabilità di questo valore, e che, dunque, elegge il mercato a dispositivo insopprimibile della sua commisurazione, rivelando il senso più compiuto e profondo della logica che presiede al principio indennitario (lo osservava già A. Candian, Responsabilità civile e assicurazione, Milano, 1993, 115, sub nota 19).

Sicché questo principio continua a rivelarsi estraneo alla possibilità di ponderare somme idonee a monetizzare la salute compromessa.

Se non al prezzo di prestare una (inaccettabile) indifferenza alla conclusione che la misura di questo valore possa essere assoggettata a un dispositivo di stima indistinguibile — secondo quanto sembra suggerire il quarto comma della norma richiamata dalla tesi qui criticata — da quello applicato ai prodotti del suolo (l'integrità psico-fisica della persona come un meleto distrutto da una grandinata, per intendersi, e senza neanche potersi giovare delle mercuriali in uso al tempo del raccolto atteso...).

Incastonare l'art. 1916 c.c. nell'art. 1223 c.c.: davvero il danno può concepirsi dopo il welfare? Spunti dalla recente cc 9380/2021

Netta è la sensazione che la decisione n. 13233/2014 abbia tentato di rimodellare il concetto del danno risarcibile per aprirlo (in una dimensione ostentatamente tecnica) alla possibilità di una ridefinizione dipendente dal rapporto che il danno intreccia con gli effetti generati dallo strumentario del welfare (che può essere privato, come nel caso dell'assicurazione volontaria contro gli infortuni che stiamo indagando, o pubblico, come accade nel caso dell'equo indennizzo) attraverso cui si determina il livello di sicurezza sociale che a ciascun consociato è dato di sperimentare in concreto di fronte ai mutevoli stati di bisogno conseguenti all'avverarsi di eventi avversi della vita. Nelle intenzioni di chi accredita questo trapianto, l'art. 1916 c.c. finisce idealmente per entrare nell'art. 1223 c.c. per rimanerci.

E così, per un paradosso che si compie in un'epoca caratterizzata da un welfare recessivo, il danno può scoprire di nascere (e più precisamente: di darsi e svilupparsi concettualmente) dopo il welfare. Dall'omaggio all'antica preoccupazione mommseniana, che nel sistema del risarcimento del danno ha trovato approdo, in tempi assai più recenti, nella ipostatizzazione del «principio della riparazione integrale del danno», si impiega la compensatio lucri cum damno per invocare la necessità di metter fuori gioco, perché «immeritevole d'esser ulteriormente coltivata», quella costante, coesa linea di precedenti di legittimità che, facendo leva sul filtro della diversità dei titoli fra beneficio e danno, dichiarava inoperante il latinismo e ammetteva pacificamente il cumulo fra indennizzo assicurativo conseguente all'assicurazione infortuni e risarcimento del danno.

Una operazione portata avanti senza curarsi del caos prodottosi nell'industria assicurativa, da più di otto anni in attesa di conoscere la parola fine a questo sommovimento giurisprudenziale suscettibile di alterare le basi dell'offerta contrattuale del ramo infortuni, rispetto alla quale andrebbe rispedito al mittente, per le ragioni appena lumeggiate, l'auspicio che tale operazione sia ritenuta «immeritevole d'esser ulteriormente coltivata».

Di recente, un'articolata sentenza di legittimità (Cass. civ., sez. III, 8 aprile 2021, n. 9380) è tornata ad esplorare il tema qui analizzato, muovendo da un caso particolare, che vedeva il ricorrente, figlio di un medico perito nella caduta dell'elicottero impegnato in un'operazione di soccorso, accettare, rilasciando quietanza transattiva anche ai sensi dell'art. 1916 c.c., la somma offerta a titolo di risarcimento dall'assicuratore spagnolo della rc verso terzi del proprietario del velivolo e contestualmente azionare l'assicurazione contro le disgrazie accidentali che lo stesso vettore aveva stipulato, nella formula dell'assicurazione per chi spetta, a beneficio dei terzi trasportati (assicurati) ed eventualmente dei loro eredi (indicati quali beneficiari in caso di morte dell'assicurato passeggero).

Il secondo assicuratore rifiutava di pagare la somma, assumendo che la transazione operata dal figlio beneficiario avesse pregiudicato la possibilità di esercitare la propria surrogazione nei confronti dell'assicuratore della rc (una situazione per alcuni versi simile a quella di uno sciatore tedesco perito in Val di Fassa, ove gli eredi avevano riscosso l'offerta dell'assicuratore della rc rilasciando quietanza e il fondo pensionistico tedesco lamentava il pregiudizio del diritto, fondato sul diritto tedesco applicabile, di agire in surrogazione per recuperare le somme concesse agli eredi a titolo di benefici pensionistici, che aveva costituito il canovaccio in fatto del primo tentativo di attenzionare le S.U. sul problema della compensatio lucri cum damno, su cui però Cass. Civ., sez. un. 30 giugno 2016, n. 13372 aveva fatto scendere un temporaneo sipario, v. la vicenda analizzata in Izzo, La «giustizia», cit., 55 ss.).

Dopo un responso negativo in primo grado, il secondo assicuratore trovava ascolto in appello. La decisione territoriale viene cassata da Cass. Civ., 8 aprile 2021 n. 9380, accertando che la prestazione dell'assicuratore contro le disgrazie accidentali, dovuta per il caso di morte dell'assicurato agli eredi, identifica una somma assoggettata alla logica non indennitaria dell'assicurazione sulla vita, e così giustificando appieno la «locupletazione» contro la quale era insorto il secondo assicuratore. Con un esito ineccepibile, la decisione qui ripercorsa ne approfitta per compiere una densa rievocazione, in quello che è obiter per chi volesse trarre da questa rievocazione motivi per riferirla al problema dell'assicurazione contro gli infortuni invalidanti, della traccia argomentativa di Cass. Civ., sez. un. n. 5119/2002.

Viene così prestato rinnovato ossequio alle argomentazioni che avevano indotto nel 2002 ad approdare alla soluzione del contratto misto ampiamente descritta e criticata supra. Ma quel che preme mettere in risalto della motivazione in discorso è questo brano, con il quale l'estensore avverte la necessità di spiegare perché la prestazione della somma promessa nel caso morte, anche nello schema negoziale dell'assicurazione infortuni, non può mai assolvere una funzione indennitaria:

«Non può essere negato che, con la stipula del contratto di assicurazione dal rischio di "infortuni mortali", il soggetto assicurato (quello la cui durata della vita viene in rilievo) intenda perseguire un interesse altruistico od indirettamente anche liberale, volendo assicurare al terzo beneficiario una attribuzione economica (in capitale od in rendita) che possa sopperire alle esigenze e necessità quotidiane ed in genere di vita del superstite, perché in ipotesi divenuto bisognoso in conseguenza del venire meno dell'apporto economico continuativo che il de cuius gli forniva (come ad esempio nel caso in cui al deceduto sopravvivano i propri familiari non autosufficienti).

Ma questa possibile funzione indennitaria (in quanto compensativa della perdita di un apporto economico continuativo), svolta dal capitale costituito con il pagamento dei premi della polizza "infortuni mortali", viene a configurarsi nello schema contrattuale come un mero motivo del negozio – riferibile ad una sola delle parti contraenti – rimanendo invece estraneo alla causa negoziale, che consiste nell'assunzione da parte dell'Assicuratore del rischio connesso al differimento temporale (relazionato alla durata della vita dell'assicurato) del pagamento di un capitale (o di una rendita) ad un terzo, al verificarsi dell'evento-morte dell'assicurato, dietro il corrispettivo costituito dal pagamento di un premio: causa negoziale che può, quindi, ritenersi interamente assorbita dalla funzione di costituzione di un capitale - variabile nell'importo in dipendenza del tasso interesse o del coefficiente di incremento pattuito - la cui attribuzione al beneficiario è certa, ma viene differita nel tempo in quanto ricollegata al rischio-morte, ossia alla durata effettiva della vita dell'assicurato».

Questa analogia esplicativa istituita fra causa e motivi del contratto, a ben vedere, potrebbe seguitare ad essere utilizzata per appianare una volta per tutte il problema che si pone nella qualificazione del contratto di assicurazione contro le disgrazie accidentali, quando quest'ultimo provveda alla prestazione di una somma predefinita e liquidabile in conseguenza dell'infortunio invalidante (venendo concretamente calcolata in relazione alla gravità dell'invalidità riportata dall'assicurato).

Quando in tali contratti l'assicuratore propone al contraente la sua rinuncia pattizia (assentita dall'art. 1932 c.c.) a surrogarsi nella titolarità dei diritti della persona dell'assicurato, egli – restando sul crinale delle suggestioni evocate da una analogia puramente esplicativa come quella escogitata dal relatore Presidente Travaglino – non fa altro che conformare con la controparte un elemento che modifica la causa del contratto contro le disgrazie accidentali, anche rispetto alla bisecazione della causa contrattuale di questo tipo contrattuale che le S.U. hanno – ancorché erroneamente, come già argomentato – accolto nel 2002. Ne risulta così un contratto contrassegnato da una causa del tutto lecita (e anzi socialmente desiderabile, a dispetto di chi invoca la sua contrarietà all'ordine pubblico), che è quella di un negozio che mira a neutralizzare le conseguenze sfavorevoli derivanti alla propria integrità fisica dalla disgrazia accidentale, garantendo all'assicurato una attribuzione economica che possa consentire di sopperire al meglio alle esigenze e alle necessità quotidiane di vita dell'infortunato, anche quando le circostanze di verificazione dell'infortunio offrano il destro all'assicurato per promuovere l'azione risarcitoria contro il responsabile civile dell'infortunio.

Per i motivi ampiamente illustrati in questo paragrafo è davvero un errore fatale (che comprime irragionevolmente l'autonomia negoziale delle parti) assimilare arbitrariamente a una somma che può essere misurata oggettivamente dal mercato, la diversa somma che l'assicuratore promette di corrispondere al verificarsi di un evento della vita umana che colpisca l'interesse non patrimoniale alla salute dell'infortunato, in una misura che dipende solo dalla disponibilità di spesa dell'assicurato e che l'assicuratore è libero di perimetrare con ogni cautela negoziale, verificando da par suo la sua convenienza alla conclusione del contratto che propone sul mercato assicurativo.

Conclusioni

In conclusione, l'esplorazione dello stato dell'arte — tutt'altro che pacifico, come visto — nel quale si colloca la sorte attribuibile in Italia all'indennizzo assicurativo erogato al verificarsi di una disgrazia accidentale dagli esiti non mortali, quando l'assicurato scopra di ricevere dal suo assicuratore l'indennizzo in conseguenza di una disgrazia causata da un terzo che debba risponderne civilmente, induce a sottolineare come l'indirizzo defalcatorio che la terza sezione della Cassazione allo stato sembra intenzionata a coltivare a oltranza, negando la perdurante esistenza di un contrasto che reclamerebbe l'intervento delle S.U. per essere adeguatamente risolto, non sia affatto una soluzione appianata dalla nomofilachia di legittimità, e debba indurre i giudici di merito a discostarsi dall'adesione acritica alle convinzioni della terza sezione.

Convinzioni che – ma questo è un discorso che in questa sede non può nemmeno avviarsi – collocano l'Italia in una posizione di splendido isolamento nel quadro del diritto privato europeo, collidendo del pari con l'opposta soluzione da sempre invalsa sul tema in ambiente di common law.

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