Le procedure di “pre-dissesto” e dissesto finanziario degli Enti localiFonte: D.Lgs. 18 agosto 2000 n. 267
09 Novembre 2022
Introduzione
L'esecuzione forzata contro la pubblica amministrazione risponde ad uno statuto regolatorio speciale. La disciplina in questione è la risultante di un processo evolutivo che si snoda attraverso tre fasi: - la c.d. fase della irresponsabilità. Muovendo dalle previsioni (ancora oggi vigenti) di cui agli artt. 4 e 5 LAC, si riteneva a) che il divieto imposto al G.O. di condannare l'amministrazione ad un facere non ricomprendesse le sentenze relative al pagamento di una somma di denaro, ma b) che non fosse dato all'Autorità giudiziaria ordinaria il potere di dare coattivamente seguito a tali statuizioni, poiché “la pubblica amministrazione non può effettuare pagamenti di somme di denaro se non con l'osservanza del procedimento previsto per l'emissione dei relativi mandati”, laddove prima della relativa emissione “non è configurabile una mora dell'amministrazione […] ad emetterlo […]”, ragion per cui “il creditore è tutelato contro l'ingiustificato ritardo da parte dell'Ente pubblico, nell'espletamento dei prescritti adempimenti contabili, dalla possibilità di ricorrere, in quanto portatore di un interesse legittimo, al Giudice amministrativo” (v. tra le tante: Cass., sez. un., 12.5.1971, n. 1352). Per altro verso, va segnalato che, solo a partire dalla pronuncia dell'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 1 del 9 marzo 1973, si è ammessa l'esperibilità del ricorso per ottemperanza innanzi al G.A. per dare coattiva attuazione alle sentenze di condanna al pagamento di una somma di denaro emesse dall'A.G.O. contro la pubblica amministrazione; - la c.d. fase dell'equiparazione. A partire da uno storico arresto della giurisprudenza di legittimità (Cass., sez. un., 13.7.1979, 4071), si è ritenuto che: a) il canone generale dell'esecuzione delle condanne pecuniarie contenuto nell'art. 2910 c.c., secondo cui il creditore, per conseguire quanto gli è dovuto, può far espropriare i beni del debitore secondo le regole contenute nel codice di procedura civile, trova applicazione anche con riferimento alla pubblica amministrazione; b) le somme iscritte in capitoli di bilancio come “crediti” della pubblica amministrazione sono espropriabili non meno di altri crediti; c) il bilancio “proprio perché contempla tutte le entrate e tutte le uscite in una visione globale non consente in alcun modo di collegare singole entrate (e cioè determinate somme di denaro) a singole uscite (cioè all'espletamento di determinati servizi) […], non può essere considerato come fonte di un vincolo di destinazione in senso tecnico di particolari somme, tale da sottrarle all'azione espropriativa dei creditori dello Stato”; d) la sussistenza di un corpus normativo speciale sulla contabilità di Stato non vale, di per sé, a escludere che il pagamento imposto da una sentenza di condanna sia “un atto dovuto rispetto al quale all'amministrazione non residua alcun margine di valutazione comparativa con un (non bene identificato) interesse pubblico ad esso contrapposto. La situazione è quindi radicalmente diversa da quella propria delle ipotesi in cui i pubblici poteri determinano i propri comportamenti apprezzandone l'opportunità in vista dell'interesse pubblico da perseguire, ma senza il vincolo di una sentenza che quel comportamento imponga come dovuto”. Tali coordinate interpretative hanno trovato conferma nella giurisprudenza costituzionale (Corte Cost., 21 luglio 1981, n. 138). La quale - chiamata a pronunciarsi sulla legittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 826, ultimo comma, 828, ultimo comma, e 830, ultimo comma, c.c. alla cui stregua, secondo l'interpretazione all'epoca prevalente (già messa in discussione, come detto, dalla citata pronuncia delle Sezioni Unite) “bastava l'iscrizione di somme o crediti pecuniari nei bilanci preventivi dello Stato o degli Enti pubblici per farli qualificare come ‘beni destinati ad un pubblico servizio' ex art. 828 ultimo comma del codice civile, quindi inalienabili e correlativamente inespropriabili”, in quanto “la legge di approvazione del bilancio non vincola soltanto la P.A. ma opera anche nei confronti dei terzi” – ebbe a chiarire che: a) la pubblica amministrazione riveste una posizione di preminenza in base alla Costituzione non in quanto soggetto, ma in quanto funzione; b) l'individuazione di beni “destinati ad un pubblico servizio” presuppone l'accertamento della esistenza di un vincolo di destinazione; c) la non assoggettabilità ad esecuzione forzata delle somme di denaro o dei crediti pecuniari dello Stato e degli Enti pubblici può discendere soltanto dal fatto che essi concorrano a formare il patrimonio indisponibile e, cioè, dal fatto che essi siano vincolati ad un pubblico servizio ovvero – come ad esempio per i crediti tributari – che nascano dall'esercizio di una pubblica potestà; d) per il denaro ed i crediti pecuniari traenti origine da rapporti di diritto privato, attesa la natura fungibile e strumentale del denaro stesso, il vincolo di destinazione non può discendere dall'appostamento di somme o crediti nel bilancio dello Stato, attesa l'impossibilità, nell'ambito di tale atto di natura globale, di correlare determinate somme di denaro o determinati crediti pecuniari a specifiche voci di spesa; e) soltanto una apposita norma di legge può stabilire tale collegamento e, quindi, determinare l'insorgenza di un vincolo di destinazione nel senso esposto. Tale ultimo profilo prelude all'ultima fase dell'evoluzione che si sta sinteticamente analizzando; - la fase della previsione (e della implementazione) di un regime “protettivo” nei confronti della pubblica amministrazione. Tale regime è la risultante di disposizioni eterogenee che mettono in atto diverse tecniche di tutela, così (genericamente) classificabili: a) previsione di regole procedimentali peculiari quando il soggetto debitore è una pubblica amministrazione (si pensi a quanto previsto dall'art. 14 l. n. 669/1996); b) previsione di regimi di impignorabilità ex lege o (e questo interessa particolarmente) di ipotesi di improcedibilità o temporanea improseguibilità del processo esecutivo legate all'apertura di procedure liquidative di carattere amministrativo fondate, nel rispetto della peculiarità del soggetto escusso, sulla regola della par condicio creditorum; c) assegnazione alla p.a. del potere di individuare somme che, in quanto destinate ad uno specifico servizio, devono ritenersi sottratte (con alcuni limiti, individuati dalla giurisprudenza costituzionale) al potere di aggressione in via esecutiva da parte del creditore. Le gestioni liquidative
Tralasciando l'esame approfondito di tutte le misure protettive suindicate, occorre concentrare l'attenzione sull'oggetto specifico del nostro discorso. Con il progressivo aggravarsi della crisi della finanza pubblica, specie a livello locale, il legislatore ha sperimentato misure più drastiche di quelle incidenti sulla posizione del singolo creditore, introducendo delle procedure amministrative di natura para-concorsuale nel cui ambito i creditori dell'Ente possono trovare – entro limiti normalmente assai circoscritti – soddisfazione delle proprie pretese nel rispetto dei principi di concorrenzialità. Tali procedure, di natura liquidativa, si connotano: a) per la sostituzione dell'ente pubblico debitore con organismi straordinari che provvedono all'accertamento del passivo ed alla liquidazione dell'attivo (è questo il caso del c.d. dissesto finanziario); b) per il ricorso a piani di rientro etero-finanziati (è questo, in particolare, il caso del c.d. pre-dissesto). Nell'uno e nell'altro caso, atteso il carattere pubblico dell'attività rimessa all'amministrazione in questione, quest'ultima può (anzi deve) proseguire la propria attività, non potendo esserne dichiarato il fallimento; nell'uno e nell'altro caso, per garantire la effettività del regime protettivo si prevede, a seconda delle ipotesi, che l'esecuzione individuale non possa avere ulteriore corso (è quanto accade nel c.d. dissesto finanziario) o resti temporaneamente improseguibile (è il caso del c.d. predissesto). Il dissesto finanziario: evoluzione normativa
Conviene muovere dall'esame della disciplina del c.d. dissesto finanziario, contenuta negli artt. 244 e ss. TUEL. In precedenza, il dissesto era regolato dagli artt. 24 e 25, d.l. n. 66/1989 ove si prevedeva la mera sospensione delle azioni esecutive dell'Ente in dissesto: tale soluzione, rivelatasi inidonea a consentire all'Ente debitore di sanare il disavanzo, considerata la permanenza del “blocco” sulle somme pignorate, fu sostituita con quella della “liberazione delle somme” – d.l. n. 65/1991 – e poi con quella della “estinzione della procedura” – d.l. n. 8/1993. La disciplina sinteticamente richiamata fu oggetto di numerosi interventi del Giudice delle leggi, che ha affermato i seguenti principi: a) “l'arresto della procedura esecutiva individuale (che conseguentemente si estingue) non vulnera i parametri costituzionali evocati (e soprattutto gli artt. 24 e 113 Cost.) perché — essendo previsto in favore dell'accesso ad una procedura di liquidazione che ha i tratti essenziali di una procedura concorsuale — sussiste comunque il controllo giurisdizionale della legittimità di ogni suo atto; mentre — come già si è detto — in questa sede non rilevano, ai fini della valutazione della costituzionalità della disposizione che il giudice rimettente è chiamato ad applicare, i profili differenziali di disciplina rispetto alle altre procedure concorsuali” (Corte Cost., 21 aprile 1994, n. 149); b) la previsione di una gestione liquidativa a carattere amministrativo « ;non significa negazione della giustiziabilità delle posizioni soggettive versate nella procedura di liquidazione e non comporta vulnerazione di quel supremo principio dell'ordinamento costituzionale [...] che è il diritto alla tutela giurisdizionale ;» (Corte Cost., 21 aprile 1994, n. 155). In generale, comunque, si è precisato che “l'arresto della procedura esecutiva individuale [...] non vulnera i parametri costituzionali [...] perché — essendo previsto in favore di una procedura di liquidazione che ha i tratti essenziali di una procedura concorsuale — sussiste comunque il controllo giurisdizionale della legittimità di ogni suo atto”; “la mancata menzione di specifici mezzi processuali di tutela — [...] — potrà — [...] — in ipotesi rilevare, al fine di attivare la verifica di costituzionalità di tale tutela differenziata e in tesi limitata alla giurisdizione generale di legittimità del giudice amministrativo” (Corte Cost., 21 aprile 1994, n. 155). Presupposti del dissesto
Come si anticipava, la disciplina del dissesto è oggi contenuta negli artt. 244 e ss. TUEL. Anzitutto, a mente dell'art. 244 TUEL, si ha dissesto finanziario “se l'ente non può garantire l'assolvimento delle funzioni e dei servizi indispensabili ovvero esistono nei confronti dell'ente locale crediti liquidi ed esigibili di terzi cui non si possa fare validamente fronte con le modalità di cui all'art. 193, nonché con le modalità di cui all'art. 194 per le fattispecie ivi previste” (si ricorda che l'art. 193 è relativo alla salvaguardia degli equilibri di bilancio e l'art. 194 è relativo al riconoscimento di legittimità di debiti fuori bilancio). La giurisprudenza ha chiarito: a) che ai predetti fini è necessario che sia accertata la specifica incapacità di assolvimento delle funzioni e dei servizi indispensabili da parte degli amministratori ovvero la esistenza di crediti certi, liquidi ed esigibili cui non può farsi fronte con le modalità previste dagli artt. 193 e 194 TUEL; b) che non è necessario che tali presupposti ricorrano congiuntamente (Corte Conti, Piemonte, 15.4.2015, n. 67); c) che una volta sussistente uno di tali presupposti, il Comune non ha facoltà di scelta né sull'an, né sul quando, né sul quomodo circa il dissesto stesso, che si appalesa dunque atto doveroso e non connotato da alcuna discrezionalità, sicché non abbisogna di altra puntuale motivazione che l'esatta evidenziazione dei presupposti medesimi (T.A.R. Lazio, Roma, Sez. II, 14 ottobre 2010, n. 32825). La finalità della procedura para-concorsuale che si apre con la dichiarazione di dissesto va colta, da un lato, nell'esigenza di salvaguardare le finanze dell'Ente dall'attività dannosa degli amministratori e, dall'altro, in quella di salvaguardare i diritti dei creditori. Di recente la giurisprudenza amministrativa ha confermato che “lo scopo delle norme sullo stato di dissesto è quello di salvaguardare le funzioni fondamentali dell'ente in stato di insolvenza, permettendogli di recuperare una situazione finanziaria di riequilibrio e, quindi, di normalità gestionale e di capienza finanziaria, che altrimenti sarebbe compromessa dai debiti sorti nel periodo precedente, è evidente che tale interesse pubblico risulta prevalente, in base ad un giudizio di bilanciamento e di razionalità, rispetto agli interessi individuali e patrimoniali dei privati ancorché accertati con provvedimenti giurisdizionali” (Cons. St., Ad. Plen., 12 gennaio 2022, n. 1). Dichiarazione di dissesto ed organi della procedura
Secondo l'art. 245, comma 1, TUEL, soggetti della procedura di risanamento sono l'organo straordinario di liquidazione e gli organi istituzionali dell'ente e secondo il successivo art. 253 comma 1, l'organo straordinario di liquidazione ha potere di accesso a tutti gli atti dell'ente locale; ne consegue che la responsabilità primaria della detenzione e della conservazione degli atti resta sempre attribuita all'ente locale e che il potere riconosciuto al riguardo all'organo straordinario è solamente un potere derivato di accesso; il comune pertanto è legittimato passivo della richiesta del ricorrente di accesso a tutti gli atti sottesi all'inserzione tra i debiti fuori bilancio, deliberato dall'organo consiliare, debito non ancora pagato, perché rientrante nell'ambito della procedura di liquidazione straordinaria, essendo stato dichiarato il dissesto finanziario del comune stesso, mentre i profili attinenti alla concreta individuazione dell'organo tenuto all'ostensione degli atti rivestono carattere meramente esecutivo (T.A.R. Campania, Napoli, Sez. V, 23 giugno 2003, n. 7646). In tema di riparto di giurisdizione è stato ritenuto che “appartiene alla giurisdizione esclusiva delle sezioni riunite della Corte dei conti la controversia avente ad oggetto l'impugnazione — nella specie, da parte di un Comune sito nel territorio di una Regione ad autonomia speciale — della deliberazione con cui la competente sezione regionale di controllo della Corte dei conti abbia accertato la sussistenza delle condizioni previste per la dichiarazione dello stato di dissesto finanziario di quello stesso Comune, senza dare corso all'alternativa procedura di riequilibrio finanziario pluriennale dell'ente locale, non ostando a tale conclusione neppure la sopravvenuta declaratoria di illegittimità costituzionale (Corte Cost. sentenza n. 219 del 2013) dell'art. 13, secondo periodo, del d.lgs. n. 149/2011 — norma che rendeva direttamente applicabili, nel territorio delle Regioni a statuto speciale, le disposizioni del medesimo d.lgs., qualora, entro sei mesi dalla sua data di entrata in vigore, non fossero stati adottati, dalle stesse, i relativi provvedimenti attuativi — trattandosi di profilo destinato ad influire solo sul merito della decisione da adottarsi da parte del giudice munito di giurisdizione, e non sui criteri di attribuzione di essa” (Cass., sez. un., 13 marzo 2014, n. 5805). Analogamente, si è sostenuto che “la sentenza del g.a. che ha annullato la dichiarazione di dissesto di un Comune in base alla motivazione che il medesimo ente locale avrebbe potuto o dovuto eliminare o ridurre i servizi non indispensabili, è nulla, atteso che invade la sfera delle valutazioni e delle scelte riservate alla P.A.” (Cass., sez. un., 13 marzo 2014, n. 5805). Rileva però constatare che la giurisprudenza amministrativa appare ancora orientata nel senso che “in merito alla questione del riparto di giurisdizione tra giudice amministrativo e giudice contabile in relazione alla domanda di annullamento della delibera con cui il Consiglio comunale dichiari lo stato di dissesto ai sensi dell'art. 244 del d.lgs. n. 267/2000, si evidenzia come, nella specie, venga in rilievo l'impugnazione di un provvedimento di natura autoritativa, adottato dal Comune spontaneamente e in via autonoma. Tanto chiarito e facendo applicazione dei generali principi in tema di giurisdizione del giudice amministrativo, si ritiene che vada ricondotta nel perimetro della giurisdizione amministrativa la controversia avente a oggetto proprio la legittimità dell'esercizio d'un potere autoritativo in rapporto alle situazioni giuridiche dei singoli, in difetto di una riserva giurisdizionale esclusiva in favore di altro plesso giurisdizionale” (Cons. St., Sez. V, 17.12.2020, n. 8108). Infine, la giurisprudenza ha ritenuto manifestamente infondata la questione di costituzionalità relativa alla statuita irrevocabilità della delibera di dissesto. Nel senso della irrilevanza della questione milita, in primo luogo, la considerazione che l'art. 251, comma 2, TUEL concerne non già la delibera di dissesto finanziario dell'Ente locale, bensì la successiva e distinta determinazione delle aliquote e delle tariffe massime delle imposte e tasse locali. Inoltre, la sancita irrevocabilità della dichiarazione di dissesto dell'Ente locale riflette, da un lato, la natura ineludibile e vincolata di quest'ultima e risponde, dall'altro lato, all'esigenza di garantire il rigore e la coerenza dell'azione di risanamento economico, senza possibilità di pregiudizievoli revirement nel corso del suo espletamento, e, quindi, agli obiettivi primari di coordinamento e di equilibrio della finanza pubblica, perseguiti dal patto di stabilità interno in funzione dei parametri sanciti a livello europeo. Effetti della dichiarazione di dissesto
Rilevante, ai fini che qui interessano, è la disciplina sulle conseguenze della dichiarazione di dissesto. A tal proposito, va esaminato – anzitutto - il disposto dell'art. 248 TUEL. In particolare, per ciò che qui rileva, a mente del comma 2 dell'art. 248 TUEL “dalla data della dichiarazione di dissesto e sino all'approvazione del rendiconto di cui all'art. 256 non possono essere intraprese o proseguite azioni esecutive nei confronti dell'ente per i debiti che rientrano nella competenza dell'organo straordinario di liquidazione. Le procedure esecutive pendenti alla data della dichiarazione di dissesto, nelle quali sono scaduti i termini per l'opposizione giudiziale da parte dell'ente, o la stessa, benché proposta, è stata rigettata, sono dichiarate estinte d'ufficio dal giudice con inserimento nella massa passiva dell'importo dovuto a titolo di capitale, accessori e spese”. A mente del comma 3, invece, “i pignoramenti eventualmente eseguiti dopo la deliberazione dello stato di dissesto non vincolano l'ente ed il tesoriere, i quali possono disporre delle somme per i fini dell'ente e le finalità di legge”. Si tratta – come già anticipato - di disposizioni volte a salvaguardare la consistenza della massa attiva dell'Ente dissestato, nell'ottica dell'accertamento (in via amministrativa) della massa passiva, alla stregua di un meccanismo non dissimile da quello che governa i rapporti tra procedure esecutive individuali e procedure (giudiziali) a carattere concorsuale (su tutte: il fallimento). Deve ritenersi che, in questi casi, il G.E. debba dichiarare l'improcedibilità dell'esecuzione e lo svincolo delle somme staggite, fermo restando che, per assicurare l'effettività del meccanismo di cui si tratta, i pignoramenti eseguiti sono, a prescindere dal provvedimento del giudice, improduttivi di effetti. La giurisprudenza ha chiarito che nell'ambito di applicazione delle norme in esame rientra anche il giudizio di ottemperanza. In specie, si è ritenuto che il giudizio di ottemperanza, in caso di dichiarazione di dissesto finanziario, costituisce un procedimento attraverso il quale il creditore cristallizza la propria pretesa in attesa che il relativo credito sia inserito nella massa passiva: ne consegue che, pur essendo inammissibile l'azione esecutiva, il credito in questione va comunque inserito nella massa passiva per sorta capitale, spese e accessori (T.A.R. Abruzzo, Sez. I, 20 marzo 2015, n. 126; T.A.R. Sicilia, Catania, Sez. I, 14 aprile 2015, n. 1080; più di recente v. T.A.R. Campania, Napoli, Sez. VIII, 4 luglio 2019, n. 3721). Sul punto va ricordato un recente arresto della giurisprudenza amministrativa (relativa al giudizio di ottemperanza ma le cui conclusioni possono, in parte, considerarsi estensibili anche agli effetti sull'azione esecutiva individuale), che ha ritenuto che “l'accertamento in sede giudiziaria del credito di un privato (nella specie, a seguito di azione monitoria) nei confronti di un comune che, dopo tale accertamento, abbia dichiarato il proprio dissesto finanziario, comporta che il credito debba essere ascritto alla gestione liquidatoria dell'ente (con conseguente impossibilità di avviare o proseguire, fino all'approvazione del rendiconto di gestione da parte dell'organo straordinario di liquidazione, le azioni esecutive, compresa l'azione di ottemperanza), così da poter essere soddisfatto, sempre che l'accertamento sia intervenuto prima dell'approvazione del rendiconto della gestione, in base al piano di estinzione delle passività elaborato dall'organo straordinario di liquidazione e approvato dal ministero dell'interno” (Cons. St., Ad. Plen., 12 gennaio 2022, n. 1). Tra gli effetti del dissesto rileva anche la previsione di cui all'art. 248, comma 4, secondo cui “dalla data della deliberazione di dissesto e sino all'approvazione del rendiconto di cui all'art. 256 i debiti insoluti a tale data e le somme dovute per anticipazioni di cassa già erogate non producono più interessi né sono soggetti a rivalutazione monetaria. Uguale disciplina si applica ai crediti nei confronti dell'ente che rientrano nella competenza dell'organo straordinario di liquidazione a decorrere dal momento della loro liquidità ed esigibilità”. Di recente, il Consiglio di Stato ha ritenuto rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale della menzionata disposizione, fornendo, con argomentata pronuncia, una esaustiva panoramica della evoluzione della disciplina del dissesto degli Enti locali, anche tenuto conto del mutato assetto ordinamentale (in particolare, in virtù della riforma del Titolo V e della introduzione del principio del c.d. pareggio di bilancio) e, quindi, delle finalità che oggi è chiamato ad assolvere l'istituto (Cons. St., Sez. V, 21.7.2021, n. 5502). Va premesso che, in relazione alla disposizione previgente di analogo tenore (art. 81, comma 4, d.lgs. n. 77/1995), la Corte Costituzionale aveva ritenuto che “in coerenza con le caratteristiche di una procedura concorsuale”, la disposizione relativa agli accessori del credito ha la finalità di determinare esattamente la consistenza della massa passiva da ammettere al pagamento nell'ambito del dissesto dell'ente locale, ma essa "non implica la "estinzione" dei crediti non ammessi o residui, i quali conclusa la procedura di liquidazione, potranno essere fatti valere nei confronti dell'ente risanato” (Corte Cost., 17 luglio 1998, n. 69). Il Consiglio di Stato, peraltro, ha ritenuto che il principio affermato nel precedente costituzionale ora richiamato possa essere rivalutato, quanto meno sotto il profilo della sua perdurante conformità alla Carta fondamentale, alla luce della successiva riforma del titolo V della parte seconda della Costituzione, approvata con legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, e di ulteriori interventi normativi di seguito richiamati. In altri termini, “secondo l'interpretazione datane dalla giurisprudenza costituzionale, con la sopra richiamata sentenza della Corte costituzionale del 17 luglio 1998, n. 269, la stessa disposizione comporta che ogni pretesa creditoria rimasta insoluta nella procedura di dissesto torna ad essere esigibile nei confronti dell'ente locale dissestato una volta cessato il regime di sospensione temporanea strumentale all'attività di rilevazione ed estinzione delle passività di questo, a prescindere se vi sia stato o meno l'integrale pagamento della sorte capitale”. Di qui la rilevanza della questione, atteso che “l'interpretazione dell'art. 248, comma 4, T.u.e.l. data dalla Corte costituzionale nel precedente più volte richiamato non consente inoltre di ritenere, sul distinto piano dell'ammissibilità delle questioni di costituzionalità, che i possibili profili di contrasto della disposizione di legge applicabile nel presente giudizio siano superabili in via interpretativa”. Il Giudice remittente dà inoltre contezza del “processo di omologazione tra dissesto degli enti locali e fallimento privatistico”, processo che si è […] accentuato con i successivi interventi normativi, realizzati con il già citato d.lgs. n. 77/1995 (Ordinamento finanziario e contabile degli enti locali) e il relativo decreto correttivo (d.lgs. n. 336/1996), con i quali si sono tra l'altro introdotte delle cause di prelazione dei crediti e si è previsto che l'organo straordinario di liquidazione predisponga un primo piano di rilevazione dei debiti recante l'elenco di quelli esclusi dalla massa passiva della procedura, strumentale all'erogazione del mutuo con la Cassa depositi e prestiti e il pagamento in acconto dei debiti inseriti nel piano di rilevazione”. Ora, considerato che l'attività contrattuale della pubblica amministrazione è stata assoggettata alla normativa sul contrasto ai ritardi dei pagamenti nelle transazioni commerciali, di cui al d.lgs. n. 231/2002, a giudizio della Corte, “il dissesto finanziario degli enti locali si colloca quindi all'interno dell'antitesi Stato-mercato”. In specie, dall'analisi della evoluzione normativa dell'istituto (alla luce del nuovo Titolo V) si ricava che “in coerenza con l'obiettivo primario dell'istituto del dissesto finanziario dell'ente locale, consistente nel suo stabile risanamento, un nuovo dissesto costituisce per l'ordinamento giuridico un'evenienza in grado di frustrare le finalità dell'istituto, contro la quale sono pertanto previste soluzioni per quanto possibile in grado di assicurare lo stabile riequilibrio di bilancio”. Di qui la non manifesta infondatezza della q.l.c. quanto ai seguenti parametri: - art. 3 Cost., in quanto sono indebitamente equiparate situazioni differenti quali il dissesto finanziario e il fallimento di diritto privato. In dettaglio: a) a differenza del dissesto nel fallimento, non è previsto alcun intervento finanziario "esterno" al soggetto in situazione di incapacità di assolvere ai propri debiti con il fine di rimuovere la situazione di squilibrio economico-finanziario che ha portato al dissesto (oggi previsto dall'art. 255 T.u.e.l.); b) scopo del fallimento è la liquidazione dei beni dell'imprenditore insolvente, per il soddisfacimento dei suoi creditori. Pertanto, “nell'antitetico scopo delle procedure di composizione della crisi determinata rispettivamente dall'indebitamento pubblico e privato si ricava quindi l'assenza di presupposti che giustifichino un trattamento identico per quanto riguarda la sorte degli accessori del credito nei due casi, e cioè per assoggettare gli accessori del credito nei confronti dell'ente locale dissestato, ai sensi dell'art. 248, comma 4. T.u.e.l., allo stesso regime di temporanea inesigibilità relativo ai crediti pecuniari nei confronti dell'imprenditore previsto dall'art. 154 del citato Codice della crisi dell'impresa e dell'insolvenza (in cui è precisato che l'apertura della liquidazione giudiziale ‘sospende il corso degli interessi convenzionali o legali, agli effetti del concorso, fino alla chiusura della procedura')”. In altre parole, per effetto di tale ingiustificata equiparazione l'obiettivo della stabile rimozione degli squilibri di bilancio che hanno determinato il dissesto dell'ente locale, a base dell'intervento statale, è compromesso per via della persistente soggezione dell'ente tornato in bonis al credito per interessi ex art. 248, comma 4, T.u.e.l. residuati dopo il pagamento da parte dell'organo straordinario di liquidazione, fino al rischio che si renda necessario un nuovo intervento straordinario a carico della finanza pubblica; ed anzi, portato alle estreme conseguenze, il rischio derivante dal descritto assetto normativo è che ad un dissesto ne seguano ulteriori, come dedotto dal Comune appellante nel caso oggetto del presente giudizio, e che pertanto l'obiettivo del bilancio stabilmente riequilibrato dell'ente locale sia vanificato (come già prima evidenziato). A giudizio della Corte, la disposizione censurata si pone in contrasto con il detto parametro costituzionale anche in quanto espressivo del principio di ragionevolezza, ragion per cui “la soluzione costituzionalmente imposta per rimuovere tale irragionevole equiparazione di situazioni tra loro antitetiche appare quindi quella di considerare inesigibili in via definitiva e non solo temporanea gli accessori del credito nei confronti dell'ente locale integralmente soddisfatto nel dissesto di quest'ultimo al momento dell'apertura della procedura, e dunque assegnare al pagamento dell'organo di liquidazione carattere estintivo”; - artt. 81 e 97, comma 1, Cost., laddove prevedono il principio dell'equilibrio di bilancio. Difatti, dal regime di temporanea inesigibilità degli interessi derivante dall'art. 248, comma 4, TUEL deriva un incremento automatico del deficit di bilancio e dell'indebitamento per la spesa corrente nei confronti dell'ente locale, alimentato dal decorso costante degli interessi di mora sui crediti commerciali per tutta la durata delle procedura di dissesto e degli ulteriori strumenti previsti dall'ordinamento giuridico-contabile degli enti locali per rimediare agli squilibri di bilancio di questi, cui non è pertanto posto alcun rimedio; - art. 97, comma 2, Cost., laddove prevede il principio del buon andamento. In dettaglio, con la previsione di tassi di interesse di mercato e la certezza della rimozione degli squilibri di bilancio nell'ambito della procedura di dissesto, il tempestivo adempimento del credito da parte dell'ente pubblico debitore diviene invece indifferente per il creditore privato, dal momento che il primo rimane comunque esposto in perpetuo alle azioni del secondo a tutela del suo diritto; ne consegue una distorsione dell'impianto complessivo non solo del dissesto finanziario degli enti locali, ma anche della normativa contro i ritardi nel pagamento delle transazioni commerciali, che come sopra esposto si fonda sul rischio di insolvenza del debitore privato e sulla conseguente esigenza di mercato di una sua maggiore remunerazione, per cui essa appare ingiustificatamente applicabile in toto anche rispetto all'ente locale in situazione di dissesto e che necessita di essere risanato per il sollecito ritorno alla ordinaria attività amministrativa; - art. 5 Cost., laddove prevede il principio del “pluralismo autonomistico”. Come più volte osservato, l'obiettivo del dissesto finanziario degli enti locali è quello di raggiungere il loro stabile riequilibrio, e dunque che questi siano posti in via definitiva in condizione di esercitare le funzioni e i servizi pubblici ad esso attribuiti; tale obiettivo rischia tuttavia di essere vanificato se all'integrale pagamento del credito per sorte capitale e per gli interessi maturati al momento della dichiarazione di dissesto non venisse attribuito carattere estintivo e quindi il regime degli accessori previsto dall'art. 248, comma 4, TUEL venisse inteso, come avvenuto finora, di mera inesigibilità di questi ultimi, in analogia al fallimento dell'imprenditore privato, anziché come arresto definitivo in funzione del carattere estintivo del pagamento di competenza dell'organo straordinario di liquidazione; - artt. 114 e 118 Cost. Difatti, il possibile succedersi di dissesti finanziari dell'ente comunale insito nella soggezione di questo alla disciplina dei crediti commerciali fa emergere un possibile contrasto del regime di inesigibilità solo temporanea desunto dall'art. 248, comma 4, TUEL con il ruolo costituzionale del medesimo ente, ai sensi dei sopra citati artt. 114 e 118 Cost., di livello di governo esponenziale delle comunità locali, radicato nell'esperienza storico-istituzionale di queste ultime, e pertanto preposto all'esercizio delle funzioni amministrative e dei servizi rispondenti ai bisogni primari della persona. Ora, se è vero che l'obiettivo primario del risanamento dell'ente locale dissestato è strumentale al ripristino delle funzioni e dei servizi di competenza dell'ente incapace di assolvervi ex art. 244 TUEL a causa dell'indebitamento precedentemente accumulato, è del pari vero che “con il riespandersi degli accessori del credito, divenuti temporaneamente inesigibili ai sensi dell'art. 248, comma 4, TUEL per tutta la durata della procedura di dissesto, di esso tuttavia finisce per avvantaggiarsi in primo luogo il singolo creditore commerciale, benché già remunerato a tassi di mercato”; a ciò fa da contraltare “l'ingiustificato sacrificio della collettività di cui il Comune è ente esponenziale, esposto al rischio di un nuovo dissesto e alle negative ripercussioni da esso derivante tanto sul piano della continuità delle funzioni amministrative e dei servizi pubblici quanto sul piano economico, per le azioni di riequilibrio del bilancio rese necessarie dall'apertura della nuova procedura”. La competenza in ordine alla rilevazione della massa passiva spetta in via esclusiva all'Organismo straordinario di liquidazione (OSL). Secondo quanto previsto dagli artt. 252, comma 4, e 254, comma 3, TUEL, come interpretati in via autentica dall'art. 5, comma 2, d.l. n. 80 del 2004, si intendono compresi nelle fattispecie ivi previste tutti i debiti correlati ad atti e fatti di gestione verificatisi entro il 31 dicembre dell'anno precedente a quello dell'ipotesi di bilancio riequilibrato, pur se accertati, anche con provvedimento giurisdizionale, successivamente a tale data ma, comunque, non oltre quella di approvazione del rendiconto di gestione di cui all'art. 256, comma 11. Si tornerà in appresso sulla incidenza della giurisprudenza CEDU circa l'ipotesi di crediti accertati giudizialmente in via definitiva e sulla applicabilità, per i relativi titolari, del divieto di azioni esecutive previsto, come detto, dal diritto interno. Il successivo art. 255 TUEL attiene invece alla acquisizione e gestione dei mezzi per il risanamento. Infine, lo stesso OSL provvede al pagamento (nella misura riconosciuta) ai sensi e per gli effetti del successivo art. 256 TUEL. Una particolare questione si è posta circa la sorte dei residui attivi e passivi relativi ai fondi a gestione vincolata: questione resa complessa da una normativa di pessima fattura ed episodica, posto che la lex posterior ha lasciato in vita (cioè non ha abrogato ma solo parzialmente derogato al) la lex prior generando delicati problemi di coordinamento. Rileva segnalare che l'art. 255, comma 10, TUEL — relativo, si badi, alla individuazione della massa attiva — prevede che “non compete all'organismo straordinario di liquidazione l'amministrazione delle anticipazioni di tesoreria di cui all'art. 222 e dei residui attivi e passivi relativi a fondi di gestione vincolata, ai mutui passivi già attivati per gli investimenti, ivi compreso il pagamento delle relative spese, nonché l'amministrazione dei debiti assistiti da garanzia della delegazione di pagamento di cui all'art. 206” (corsivi nostri). La disposizione esclude la necessità che l'organismo straordinario prenda in carico le gestioni vincolate, sia per la parte attiva che per quella passiva, sul presupposto che tali fondi, dovendo per definizione essere in equilibrio, non necessitano di alcun tipo di contributo dall'amministrazione straordinaria della liquidazione. Il citato art. 255, comma 10, TUEL, rimasto inalterato nella formulazione letterale, va oggi letto in combinato disposto con l'art. 1, comma 457, l. n. 232/2016, che ha previsto la modifica dell'art. 2-bis, d.l. n. 113/2016, conv. in l. n. 160/2016, nel senso che segue: a) al primo comma, si prevede che “in deroga a quanto previsto dall'art. 255, comma 10, del d.lgs. n. 267/2000, per i comuni e le province in stato di dissesto finanziario l'amministrazione dei residui attivi e passivi relativi a fondi a gestione vincolata compete all'organismo straordinario di liquidazione”; b) al secondo comma, si prevede che tali poste sono gestite separatamente “nell'ambito della gestione straordinaria di liquidazione”, mentre “resta ferma la facoltà dell'organismo straordinario della liquidazione di definire anche in via transattiva le partite debitorie, sentiti i creditori”. Sulla individuazione dei fondi a gestione vincolata soccorrono le indicazioni della Corte dei Conti, chiamata a fornire un parere in relazione al se le entrate e le spese relative al servizio di raccolta e smaltimento dei rifiuti dovessero considerarsi a gestione vincolata. Nel chiarire preliminarmente che « ;la questione prospettata dal comune richiedente, come ricostruita nella delibera di rimessione, deve essere avulsa dalla fattispecie alla quale si riferisce, perdendo la connotazione territoriale che la caratterizza ;», l'Adunanza generale ha condivisibilmente osservato che “i vincoli di destinazione delle entrate devono, necessariamente, derivare o dalla legge (statale o regionale) o da trasferimenti o da prestiti e che, in ogni caso, come affermato dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 279/2016, la fonte che impone il vincolo di un'entrata e di una spesa, quand'anche non direttamente dipendente dalla legge, deve trovare in essa diretto presupposto” (Corte Conti, Sez. Autonomie, 30 gennaio 2017, n. 3). Il Giudice contabile ha quindi ritenuto che la predetta spesa rientrasse tra i fondi a gestione vincolata (escludendo che sugli stessi fosse competente l'OSL ai sensi dell'art. 255, comma 10, TUEL, prima della introduzione della citata deroga). Rientrano senz'altro tra tali fondi: a) le somme destinate alla restituzione di trasferimenti, mutui o altri finanziamenti ottenuti dall'Ente (ad esempio per la realizzazione di Piani cofinanziati dall'UE); b) le somme destinate al pagamento di attività riguardanti le consultazioni elettorali o referendarie locali (presidenti di seggio, scrutatori, componenti dell'Ufficio centrale delle elezioni). D'altro canto, per queste ultime, appare quanto mai evidente la stretta strumentalità alla realizzazione delle finalità basilari dell'Ente, cioè finalità alla cui salvaguardia è preordinata la stessa procedura di dissesto, come chiaramente rilevato dalla Corte Costituzionale nella citata pronuncia n. 155 del 1994, in specie laddove si osserva che: la evenienza che una esposizione debitoria particolarmente accentuata comprometta l'espletamento dei servizi essenziali dell'Ente rende piena ragione della predisposizione di una procedura diretta al risanamento, e quindi alla normalizzazione finanziaria, dell'Ente stesso, che, ancorché dissestato, non può cessare di esistere in quanto espressione di autonomia locale, che costituisce un valore costituzionalmente tutelato; né tanto meno l'Ente può essere condannato alla paralisi amministrativa per una adombrata (dal giudice remittente), ma in realtà insussistente, intangibilità delle posizioni dei creditori. Ciò detto, occorre chiedersi, quindi, come incide sulla gestione dei fondi vincolati (come sopra individuati) il citato comma 457 dell'art. 1, l. n. 232/2016. La norma, che sembra porsi in contraddizione frontale con il comma 10 dell'art. 255 TUEL, va letta, evidentemente, alla luce dell'esigenza che l'Ente locale assicuri, malgrado l'intervenuto dissesto, la certezza delle risorse legate ai fondi a gestione vincolata. Si spiega così facilmente la scelta (altrimenti incomprensibile) del legislatore di assegnare alla competenza dell'OSL anche tali fondi, ma nell'ambito di una gestione separata (come espressamente stabilisce il secondo comma del novellato art. 2-bis, d.lgs. n. 113 del 2016). Altrimenti detto, è inequivoco che i crediti relativi all'espletamento di attività per il cui finanziamento è previsto un vincolo di destinazione, nel senso sopra chiarito, non concorrono (come non concorrevano prima della novella) alla formazione della massa passiva. La deroga all'art. 255, comma 10, TUEL è limitata alla previsione, per gli stessi, di una gestione separata. La deroga è cioè funzionale solo a garantire pure su questi flussi un controllo dell'OSL, nel quadro però di principi diversi da quelli della concorsualità (che implicano anche la possibilità di una non integrale soddisfazione dei creditori). Il legislatore, tuttavia, non chiarisce le modalità operative di tale gestione separata. A fronte di ciò assume notevole rilievo interpretativo l'atto di orientamento dell'Osservatorio sulla finanza e la contabilità degli Enti locali ex art. 154, comma 2, TUEL, del 26.10.2018, che in prima battuta ribadisce: a) che tali crediti “sono esentati dal principio di concorsualità e beneficiano invece della possibilità di aggredire il bilancio ordinario oltre i limiti delle risorse destinate”;che “i creditori delle gestioni vincolate, a differenza dei comuni creditori, debbano beneficiare della certezza delle risorse” (e anche della impignorabilità delle somme come prevista dall'art. 255, ultimo comma). Quanto agli strumenti operativi per stabilire il quomodo della rilevazione e della liquidazione di tali partite, “nel quadro del vigente ordinamento contabile, si registra una significativa lacuna del complessivo sistema gestionale dell'ente dissestato, connotato dalla presenza dell'OSL e dalla sua particolare missione istituzionale tesa alla realizzazione dei superiori interessi pubblici a salvaguardia del reale risanamento dell'Ente locale”. In forza dei principi di buon andamento e imparzialità, interpretati alla luce della l. Cost. n. 1/2012, nel senso di armonico perseguimento delle finalità pubbliche attraverso il migliore impiego delle risorse, e tenuto conto del carattere straordinario dell'OSL a fronte della complessità di determinati rapporti obbligatori che non sempre si esauriscono nel perimetro temporale della gestione straordinaria, l'Osservatorio, nel predetto atto di orientamento, conclude nel senso che “la gestione di risorse vincolate (...) diversamente dalla gestione delle ordinarie passività affidate all'OSL, non esclude a priori né una concomitante attività istruttoria di competenza dell'ente, né la correlazione con ulteriori sviluppi gestionali rientranti nella competenza degli organi ordinari [...]”, il che “rende necessaria, in termini di principio, una condivisione operativa tra ente in dissesto e OSL”. Il limite di tale cooperazione istituzionale, diretto a preservare l'autonomia dell'OSL, è rappresentato dalla necessità di garantire che la gestione dei fondi a gestione vincolata trovi “sostegno in parametri giuridici di oggettiva evidenza”. Fermo restando il limite sopra evidenziato, l'Ente locale e l'OSL possono (ed anzi ciò è necessario in linea di principio, specie per la gestione di quei fondi che potrebbero incidere sulla gestione futura dell'Ente, una volta terminata la procedura di dissesto) stipulare protocolli di intesa. Nella stessa logica deve intendersi la salvezza del potere dell'OSL di definire anche in via transattiva le partite debitorie riconducibili alle gestioni vincolate: alla luce di quanto sopra rilevato — i crediti in questione sono esclusi dal concorso e devono essere integralmente soddisfatti — questa disposizione attiene ai casi in cui sui medesimi crediti siano maturati accessori, come interessi o spese legali, i quali soltanto potranno essere riguardati (una volta avvenuta la liquidazione, anche da parte dell'Ente, nel senso che si dirà) da una transazione. Appare chiaro che il contenuto di tali protocolli, ferma restando la responsabilità degli organi rappresentativi nella relativa promozione, andrà individuato caso per caso, tenuto conto delle specificità delle esigenze cui far fronte. Giurisprudenza EDU in tema di procedure liquidative a carattere concorsuale
La Corte EDU si è pronunciata sulla tutela dei creditori di un Ente dissestato allorché il loro diritto risulti consacrato in un titolo giudiziale passato in giudicato (CEDU, 24 settembre 2013, De Luca e Pennino c. Italia). La Corte di Strasburgo era stata adita da un cittadino italiano che, in seguito ad una azione risarcitoria intrapresa nel 1987, era stato riconosciuto creditore del Comune di Benevento con sentenza passata in giudicato nel 2003, ma non aveva potuto coltivare l'azione esecutiva in quanto il Comune — nelle more (1993) — aveva dichiarato il dissesto; donde il T.A.R. aveva dichiarato irricevibile il ricorso per l'ottemperanza della sentenza passata in giudicato (in altra occasione, la Corte EDU, pur muovendo dalle medesime coordinate di riferimento, ha ritenuto il ricorso irricevibile tenuto conto della circostanza che tra il ricorrente e l'OSL era intervenuta una transazione. Cfr. CEDU, 17 gennaio 2014, Condominio di Porta Rufina n. 48 c. Italia). Secondo la prospettazione del ricorrente lo stato di dissesto del Comune e il connesso divieto di azioni esecutive avrebbero impedito il soddisfacimento del suo diritto in contrasto con l'art. 1, Protocollo n. 1, dell'art. 6, par. 1, e dell'art. 13 CEDU. La Corte ha accolto il ricorso quanto ai primi due profili ed ha condannato lo Stato italiano al risarcimento del danno. Riguardo all'art. 1, Protocollo n. 1, la Corte muove dal rilievo che un diritto certo liquido ed esigibile è un bene ai sensi della precitata disposizione. Non rilevano, in tale prospettiva, solo la proprietà ma anche gli interessi patrimoniali di puro fatto. Ciò chiarito, la Corte tiene in considerazione soltanto la proposizione normativa relativa al diritto al rispetto dei beni, concludendo nel senso che “le manque de ressources d'une commune ne saurait justifier qu'elle omette d'honorer les obligations découlant d'un jugement definitif rendu en sa défaveur” (par. 58). Riguardo all'art. 6, par. 1, la Corte si riporta ad un proprio consolidato filone (già prima ricordato ad altri fini) secondo cui l'esecuzione di una sentenza è parte integrante della tutela giurisdizionale dei diritti (perché questa rimarrebbe, in sostanza, una freccia spuntata se non fosse garantita l'effettività anche della fase esecutiva). Il diritto ad un processo (anche esecutivo) equo però — prosegue la Corte — non è assoluto: in considerazione di scopi legittimi, infatti, l'adozione delle misure dirette all'esecuzione del giudicato può essere ritardata, ma deve sempre sussistere un rapporto di proporzionalità tra i mezzi adoperati ed il risultato perseguito. Ciò che la Corte ritiene nella specie lesivo del diritto consacrato nell'art. 6, par. 1 della Convenzione non è il divieto di azioni esecutive in sé e per sé considerato, quanto piuttosto l'eccessiva durata della procedura di dissesto, che, peraltro, sfugge a qualsivoglia forma di controllo da parte del procedente, così minando qualsiasi rapporto di proporzionalità nel senso anzidetto. Inoltre, non è secondario, nella prospettiva in esame, il rilievo che si tratta di un debito “d'un organe de l'Etat”. Come anticipato, la dottrina ha sottolineato che la giurisprudenza in esame potrebbe determinare una breccia nell'ambito del principio del pareggio di bilancio, introdotto con l. cost. n. 1/2012: « ;si rischia di introdurre una sorta di automatismo in base al quale lo Stato sarebbe obbligato a ripianare i dissesti degli enti locali, automatismo che, in effetti, era presente nelle prime versioni della disciplina sul dissesto e che poi è stato eliminato e sostituito con l'obbligo degli enti dissestati di adottare una serie di interventi di contenimento della spesa [...] alla cui presenza l'intervento, seppur parziale, dello Stato risulta condizionato ;» (MERCATI). Difatti — si evidenzia ancora — la Corte Costituzionale ha più volte risolto il conflitto tra esigenze finanziarie dello Stato o degli Enti locali e diritti dei creditori a detrimento di questi ultimi. Con riferimento specifico alle procedure di dissesto, come sopra evidenziato, il Giudice delle leggi ha rilevato che « ;la evenienza che una esposizione debitoria particolarmente accentuata comprometta l'espletamento dei servizi essenziali dell'ente rende piena ragione della predisposizione di una procedura diretta al risanamento, e quindi alla normalizzazione finanziaria, dell'ente stesso, che, ancorché dissestato, non può cessare di esistere in quanto espressione di autonomia locale, che costituisce un valore costituzionalmente tutelato; né tanto meno l'ente può essere condannato alla paralisi amministrativa per una adombrata (dal giudice remittente), ma in realtà insussistente, intangibilità delle posizioni dei creditori ;» (v. già Corte Cost., 21 aprile 1994, n. 155). Ebbene, in questo quadro l'interpretazione fornita dalla CEDU potrebbe assurgere al rango di parametro interposto e, quindi, condizionare la valutazione di costituzionalità delle norme che disciplinano le procedure di dissesto. Il c.d. pre-dissesto
La procedura di riequilibrio finanziario pluriennale, anche note come “pre-dissesto” è disciplinata dagli artt. 243-bis e ss. TUEL. Si tratta di una procedura cui sono ammessi “i comuni e le province per i quali, anche in considerazione delle pronunce delle competenti sezioni regionali della Corte dei Conti sui bilanci degli enti, sussistano squilibri strutturali di bilancio in grado di provocare il dissesto finanziario, nel caso in cui le misure di cui agli artt. 193 e 194 non siano sufficienti a superare le condizioni di squilibrio rilevate”. Nella situazione in esame, il Consiglio dell'Ente locale: 1) delibera di ricorrere alla procedura di riequilibrio finanziario pluriennale (a meno che sia decorso il termine assegnato dal Prefetto, con lettera notificata ai singoli consiglieri, per la deliberazione del dissesto, di cui all'art. 6, comma 2, d.lgs. n. 149/2011); 2) nel termine perentorio di novanta giorni successivi alla delibera di cui sopra, lo stesso organo delibera un piano di riequilibrio di durata compresa tra i quattro ed i vent'anni, incluso quello in corso, corredato dal parere dell'organo di revisione economico-finanziario (va precisato che i commi 5-bis e ss. contengono disposizioni specifiche riguardo: a) al rapporto tra passività da ripianare e ammontare degli impegni di spesa dell'anno precedente a quello della deliberazione di ricorso alla detta procedura, onde parametrare — secondo criteri predefiniti — la durata del piano; b) alla compiuta individuazione delle misure dirette a fronteggiare gli squilibri che hanno determinato il ricorso alla procedura; 3) alle misure di indebitamento cui è possibile accedere per conseguire gli obiettivi indicati nel piano (tra cui l'accesso ad un fondo di rotazione, disciplinato dall'art. 243-ter). Laddove, in caso di inizio mandato, la delibera in questione risulti già presentata dalla precedente amministrazione, ordinaria o commissariale, e non risulti ancora intervenuta la delibera della Corte dei conti di approvazione o di diniego di cui all'articolo 243-quater, comma 3, l'amministrazione in carica ha facoltà di rimodulare il piano di riequilibrio. La norma per come oggi formulata è il risultato di un intervento manipolativo della Corte Costituzionale (Corte Cost., 11 marzo 2021, n. 34). La quale – difatti - ha dichiarato l'illegittimità costituzionale del comma 5 dell'art. 243-bis TUEL, nella parte in cui non prevede che, in caso di inizio mandato in pendenza del termine perentorio individuato da tale norma ove non vi abbia provveduto la precedente amministrazione, quella in carica possa deliberare il piano di riequilibrio finanziario pluriennale, presentando la relativa delibera nei sessanta giorni successivi alla sottoscrizione della relazione di cui all'art. 4-bis, comma 2, del d.lgs. n. 149/2011. Va premesso che a mente dell'art. 243-bis, comma 7, TUEL “la mancata presentazione del piano entro il termine di cui all'articolo 243-bis, comma 5, il diniego dell'approvazione del piano, l'accertamento da parte della competente Sezione regionale della Corte dei conti di grave e reiterato mancato rispetto degli obiettivi intermedi fissati dal piano, ovvero il mancato raggiungimento del riequilibrio finanziario dell'ente al termine del periodo di durata del piano stesso, comportano l'applicazione dell'art. 6, comma 2, del d.lgs. n. 149/2011, con l'assegnazione al Consiglio dell'ente, da parte del Prefetto, del termine non superiore a venti giorni per la deliberazione del dissesto”. Ad avviso del giudice remittente, quindi, il combinato disposto dei commi 5 e 7 si porrebbe in contrasto gli artt. 81, 97, primo comma, e 119, primo comma, Cost. “nella parte in cui non consentirebbe agli enti locali di avvalersi del termine di sessanta giorni per deliberare il piano di riequilibrio finanziario pluriennale (termine riconosciuto, come visto, dal medesimo art. 243-bis, comma 5, secondo periodo, per la rimodulazione del piano, alle amministrazioni insediatesi dopo che esso sia stato presentato dalla precedente amministrazione) quando, durante la pendenza del termine per deliberare il piano, sia subentrata una nuova compagine amministrativa, «e comunque» quando, essendosi protratto eccessivamente il procedimento di controllo del piano, l'originaria situazione di squilibrio abbia perso attualità in ragione della continua evoluzione delle condizioni finanziarie dell'ente. Ciò in quanto i principi di equilibrio e sana gestione finanziaria e di tutela del bilancio quale bene pubblico, presidiati dagli evocati parametri, finirebbero per essere inevitabilmente sacrificati, mentre la procedura di riequilibrio finanziario pluriennale sarebbe, invece, finalizzata proprio alla salvaguardia di tali principi”. La Corte nell'accogliere per quanto di ragione la q.l.c. ha ravvisato l'effettivo contrasto delle disposizioni censurate con “i principi dell'equilibrio di bilancio e della sana gestione finanziaria dell'ente, nonché il mandato conferito agli amministratori dal corpo elettorale, l'automatico avvio al dissesto quando una nuova amministrazione sia subentrata alla guida dell'ente e, chiamata a farsi carico della pesante eredità ricevuta dalle precedenti gestioni, non sia stata messa nella condizione di predisporre il PRFP per l'assegnazione di un termine che decorre da epoca anteriore al suo insediamento ed è sganciato dal momento in cui acquisisce, con la sottoscrizione della relazione di inizio mandato, piena contezza della situazione finanziaria e patrimoniale dell'ente e della misura dell'indebitamento. Ciò finisce inevitabilmente per pregiudicare il potere programmatorio di risanamento della situazione finanziaria ereditata dalle gestioni pregresse con violazione dell'art. 81, Cost., e impedisce di esercitare pienamente il mandato elettorale, confinando la posizione dei subentranti in una condizione di responsabilità politica oggettiva, con pregiudizio dell'art. 1 Cost.” Ha inoltre osservato che “il meccanismo delineato dalla normativa censurata collide, altresì, con il principio di ragionevolezza (sotto un ulteriore profilo) e con l'interdipendente principio di buon andamento (art. 97, secondo comma, Cost.), in quanto costituisce conseguenza sproporzionata e non coerente con la ratio sottesa alla procedura di riequilibrio, che è proprio quella di porre rimedio alla situazione deficitaria dell'ente locale ove sia concretamente possibile, mettendo i nuovi depositari del mandato elettorale nella condizione di farsene pienamente carico”. In precedenza, la medesima Corte, su una questione similare, aveva ritenuto la inammissibilità della sollevata q.l.c. In specie, veniva in rilievo compendio normativo secondo cui per gli Enti locali che, alla data di entrata in vigore di tale normativa, pur avendo avviato la procedura di riequilibrio finanziario pluriennale, non avessero rispettato il termine previsto dalla legge, non conseguendo l'accoglimento del piano secondo le modalità di cui all'art. 243-quater, comma 3, TUEL, il termine per poter deliberare un nuovo piano di riequilibrio finanziario pluriennale, secondo la procedura di cui all'art. 243-bis cit. fosse prorogato, subordinando la facoltà di deliberare un nuovo piano all'avvenuto conseguimento di un miglioramento, inteso quale aumento dell'avanzo di amministrazione o diminuzione del disavanzo di amministrazione, registrato nell'ultimo rendiconto approvato dall'Ente locale. A parere della Corte il rimettente non aveva proposto alcun argomento in ordine alla esistenza di un avanzo o di un miglioramento del risultato di amministrazione, né essa è evincibile implicitamente dal contesto complessivo dell'ordinanza. Così operando, il giudice rimettente finisce per escludere l'esistenza del presupposto del miglioramento dei conti dell'ente locale, che è alla base dell'eventuale applicazione della norma censurata, non essendo sufficiente a tal fine prospettare un vizio astratto della fattispecie legale senza un aggancio eziologico al caso concreto da decidere. Ne deriva un'insufficiente descrizione della fattispecie che si traduce in un difetto di motivazione sulla rilevanza delle questioni sollevate. Tra la data di adozione della delibera di cui al punto 1) e l'approvazione o il diniego del piano di riequilibrio di cui al punto 2) “le procedure esecutive intraprese nei confronti dell'ente sono sospese”. Premettendo che nel relativo ambito di applicazione la prevalente giurisprudenza amministrativa fa rientrare anche il giudizio di ottemperanza (T.A.R. Sicilia, Catania, Sez. I, 11 luglio 2013, n. 2045), va detto che si tratta di una disposizione la cui funzione è assimilabile mutatis mutandis a quella contenuta nell'art. 168 l.f. Di conseguenza, se non vi sono altre cause di impignorabilità delle somme detenute dall'Ente presso il proprio tesoriere (ipotesi — per un Ente in pre-dissesto — alquanto inverosimile) le stesse restano comunque vincolate finché non sia definita, in un senso o nell'altro, la procedura di riequilibrio. Terminata la causa di sospensione, la parte interessata avrà onere di riassumere il processo esecutivo sospeso. Invero, la giurisprudenza di merito si è occupata della “sorte” della procedura avviata dopo l'apertura della procedura in questione (ipotesi diversa, evidentemente, da quella della procedura a tale data pendente). In questo caso si è affermata la improcedibilità dell'esecuzione. Difatti, “se è vero che l'art. 243-bis T.U.E.L. fa riferimento al solo istituto della sospensione, è anche vero che un provvedimento di sospensione può essere emesso solo per una esecuzione che sia già pendente alla data di deliberazione del ricorso alla procedura di riequilibrio finanziario; il legislatore non ha, quindi, contemplato espressamente l'ipotesi della procedura che, alla data della delibera, non fosse stata nemmeno avviata. Evidentemente, dunque, occorre esaminare la ratio della disposizione, che non può che essere interpretata come una misura, di natura cautelare, volta alla protezione del patrimonio dell'Ente, al fine di consentire a quest'ultimo di preservare le liquidità necessarie all'esecuzione del piano di riequilibrio, ove approvato o a non pregiudicare la par condicio creditorum, che dovrà essere assicurata nell'ambito di un eventuale dissesto, qualora il piano non dovesse superare il vaglio della magistratura contabile” (Trib. Catania, 18.11.2021). Ad ogni modo, il piano è trasmesso alla competente Sezione regionale di controllo della Corte dei Conti, nonché alla commissione di cui all'art. 155 TUEL. All'esito dell'istruttoria, la Commissione redige una relazione finale che è trasmessa alla Sezione regionale di controllo. Quest'ultima delibera di approvare o meno il piano. La delibera è impugnabile nel termine di trenta giorni e nel frattempo le procedure esecutive continuano a rimanere sospese (art. 243-quater, comma 5, TUEL). A mente dell'art. 243-quater, comma 7, « ;la mancata presentazione del piano entro il termine di cui all'articolo 243-bis, comma 5, il diniego dell'approvazione del piano, l'accertamento da parte della competente Sezione regionale della Corte dei conti di grave e reiterato mancato rispetto degli obiettivi intermedi fissati dal piano, ovvero il mancato raggiungimento del riequilibrio finanziario dell'ente al termine del periodo di durata del piano stesso, comportano l'applicazione dell''art. 6, comma 2, del d.lgs. n. 149/2011, con l'assegnazione al Consiglio dell'ente, da parte del Prefetto, del termine non superiore a venti giorni per la deliberazione del dissesto ;». Per converso, i successivi commi prevedono: a) che qualora, durante la fase di attuazione del piano, dovesse emergere, in sede di monitoraggio, un grado di raggiungimento degli obiettivi intermedi superiore rispetto a quello previsto, è riconosciuta all'ente locale la facoltà di proporre una rimodulazione dello stesso, anche in termini di riduzione della durata del piano medesimo (comma 7-bis); b) che, in caso di esito positivo della procedura di cui al comma 7-bis, l'ente locale provvede a rimodulare il piano di riequilibrio approvato, in funzione della minore durata dello stesso. Restano in ogni caso fermi gli obblighi posti a carico dell'organo di revisione economico-finanziaria previsti dal comma 6 (comma 7-ter). A mente del comma 1 dell'art. 243-sexies, “le risorse provenienti dal Fondo di rotazione di cui all'articolo 243-ter del presente testo unico sono destinate esclusivamente al pagamento dei debiti presenti nel piano di riequilibrio finanziario pluriennale di cui all'articolo 243-bis”. In deroga a tale disposizione, l'art. 38, comma 2, d.l. n. 162/2019, conv. in l. n. 8/2020 – che in generale prevede la possibilità, per l'anno 2020, di fruire di una maggiore liquidità a valere sulle risorse di detto Fondo di rotazione - ha previsto che le somme anticipate possono essere utilizzate, oltre che per il pagamento di debiti presenti nel piano di riequilibrio pluriennale, anche per il pagamento delle esposizioni eventualmente derivanti dal contenzioso censito nel piano di riequilibrio stesso. Resta ferma la disposizione del comma 2 dell'art. 243-sexies, secondo cui, in ogni caso, “non sono ammessi sequestri o pignoramenti sulle risorse di cui al comma 1”. Conseguentemente, in caso di ammissione a tale fondo, va escluso il diritto del creditore di aggredire in via esecutiva le somme giacenti sullo stesso. Malgrado la norma non lo preveda, trattasi di causa di improcedibilità rilevabile d'ufficio dal G.E. (in considerazione della rilevanza pubblicistica degli interessi in gioco). Pre-dissesto ed emergenza sanitaria
Va data contezza – infine – di una disposizione di natura emergenziale. Si tratta dell'art. 53, d.l. n. 104/2020, conv. in l. n. 126/2020. Rilevano in specie i commi 8 e 9 di tale disposizione, secondo cui: (comma 8) “in considerazione della situazione straordinaria di emergenza sanitaria derivante dalla diffusione dell'epidemia da COVID-19, per gli enti locali che hanno avuto approvato il piano di riequilibrio finanziario pluriennale di cui all'art. 243-bis del d.lgs. n. 267/2000, i termini disposti ed assegnati con deliberazione e/o note istruttorie dalle Sezioni Regionali di controllo della Corte dei conti, sono sospesi fino al 30 giugno 2021, anche se già decorrenti”; e (comma 9) “per gli enti di cui al comma 8 sono altresì sospese, fino al 30 giugno 2021, le procedure esecutive a qualunque titolo intraprese nei loro confronti. La sospensione di cui al primo periodo si applica anche ai provvedimenti adottati dai commissari nominati a seguito dell'esperimento delle procedure previste dal codice del processo amministrativo di cui al d.lgs. n. 104/2010, nonché dagli altri commissari ad acta a qualunque titolo nominati. Le procedure esecutive eventualmente intraprese in violazione del primo periodo non determinano vincoli sulle somme né limitazioni all'attività del tesoriere”.
|