In argomento è nota la posizione della Corte UE che ha affermato a più riprese il principio della responsabilità dello Stato membro, dovuto al pagamento della risorsa mancante e degli interessi correlati, anche nel caso di errori riguardanti le risorse proprie non tradizionali, sostenendo che “Tali interessi di mora … sono dovuti per ogni ritardo e sono esigibili qualunque sia la ragione per cui l'iscrizione sul conto della Commissione è stata effettuata con ritardo” e “contrariamente a quanto sostiene il governo italiano, ne consegue, da un lato, che non si deve distinguere fra il caso in cui il ritardo è dovuto a un errore materiale e quello in cui esso è dovuto ad un errore giuridico e, dall'altro, che la natura non intenzionale del ritardo nell'accreditamento non può eliminare l'obbligo di versare interessi di mora”. (v. C-363/00, p. 43 e ss. e giur. cit.).
La mancata messa a disposizione delle risorse proprie, di qualsiasi natura, costituisce quindi un inadempimento di un obbligo imposto da una disposizione di diritto europeo (v. C. Sciancalepore, op. cit., pag. 140).
È stato osservato (v. A. Giovannini, Prescrizione dei reati di frode all'IVA, in Dir. e prat. trib. int., 2016, 2, pag. 456) che “L'iva è un'imposta europea, ma non è risorsa dell'Unione. … Indubbia, pertanto, la sua origine comunitaria: è un'imposta che si può senz'altro definire di diritto europeo. Gli stati membri, d'altra parte e per questo motivo, hanno margini di manovra limitatissimi sulla sua disciplina. Sbagliata, invece, la riconduzione del tributo in sé fra le risorse dell'Unione. I regolamenti comunitari (e ora dell'Unione), infatti, stabiliscono soltanto che una quota della sua “base imponibile” divenga fonte di finanziamento del bilancio europeo: non è l'iva ad essere risorsa propria dell'Unione, ma tale è solamente una quota percentuale della sua base imponibile complessivamente riferibile al singolo Stato”.
Ed ancora, “…sebbene l'iva non sia tecnicamente qualificabile come risorsa propria, le violazioni relative alla sua applicazione ledono ugualmente l'interesse finanziario dell'Unione”.
La natura ambivalente del tributo (v. C. Sciancalepore, op. cit., pag. 35) genera continui contrasti tra gli Stati membri da un lato, i quali vedono l'imposta come tributo armonizzato, e l'UE dall'altro, sempre attenta a massimizzare la sua riscossione e a stigmatizzare le disposizioni nazionali che potrebbero minare l'esazione del tributo.
Al riguardo, la posizione della Corte UE è finalizzata alla protezione degli interessi finanziari dell'UE, certificata da un approccio di ferma chiusura verso ipotesi condonistiche incontrollate dell'IVA (v. ad es. la L. italiana 289/2002), ma anche da aperture, che si ritengono coerenti a livello sistematico, verso una definibilità “ragionata” dell'IVA in quelle ipotesi nelle quali si può sostenere, a ragione, l'irrecuperabilità (anche solo parziale) dell'imposta.
Così ad esempio in C-132/06 (idem in C-174/07), la Corte UE ha osservato che una procedura di “definizione automatica” che consentiva ai soggetti passivi che non avevano presentato la dichiarazione, di versare un importo corrispondente (o inferiore) al 2% dell'IVA dovuta sulle cessioni di beni e sulle prestazioni di servizi, ed un importo pari al 2% dell'IVA detratta nel medesimo periodo, rappresentava né più né meno che una rinuncia espressa e generale all'accertamento delle operazioni imponibili effettuate nel corso di una serie di periodi di imposta, che viola gli obblighi derivanti dalla direttiva IVA e dal principio generale di leale cooperazione.
Per la Corte UE la direttiva IVA ha lo scopo di fornire alle amministrazioni fiscali nazionali gli strumenti di controllo necessari per assicurare l'esatta riscossione dell'imposta, mediante un'efficace azione di accertamento e di lotta all'evasione, non essendo consentito ad uno Stato membro di sottrarsi unilateralmente all'obbligo di assoggettare ad IVA determinate categorie di operazioni (v. C-382/02, p. 24).
Nel sistema comune dell'IVA gli Stati membri “sono tenuti a garantire il rispetto degli obblighi a carico dei soggetti passivi e beneficiano, a tale riguardo, di una certa libertà in relazione, segnatamente, al modo di utilizzare i mezzi a loro disposizione”, ma non è loro consentito di rendere i contribuenti beneficiari di un condono che li sottrae “definitivamente agli obblighi ad essi incombenti di dichiarare e di pagare l'importo dell'IVA normalmente dovuto” versando una somma forfettaria invece di un importo proporzionale al fatturato realizzato. (C-132/06, p. 38 e 42).
La Corte, condivisibilmente, osservava che (C-132/06, p. 45) la misura italiana si poneva in evidente contrasto con il principio di neutralità fiscale, che tutela la realizzazione di un mercato comune che implica una sana concorrenza, ed il cui funzionamento è pregiudicato dalla norma condonistica, così evidenziando non già un “problema interno” al singolo Stato, bensì un'evidente erosione di norme e principi unionali, contestando altresì all'Italia che quella norma “rimette in discussione la responsabilità che grava su ogni Stato membro di garantire l'esatta riscossione dell'imposta”.
Differenti, invece, le ipotesi affrontate in C-500/10 (caso italiano), in cui si discuteva dell'estinzione automatica delle controversie tributarie ultra decennali pendenti dinanzi al giudice tributario di terzo grado.
Lì la Corte osservava, condivisibilmente, che l'intento della norma era di rimediare alla violazione dell'osservanza del termine di durata ragionevole del processo (art. 6, par. 1, CEDU), e che l'eccessiva durata del processo era a priori idonea a pregiudicare, di per sé, l'osservanza di tale principio nonché l'obbligo di garantire la riscossione efficace delle risorse proprie dell'UE.
Concludeva nel senso che la misura italiana “non costituisce una rinuncia generale alla riscossione dell'IVA per un dato periodo, bensì una disposizione eccezionale diretta a far osservare il principio del termine ragionevole, estinguendo le procedure più vecchie” e, soprattutto, ai fini di “sistema”, tale misura “per il suo carattere puntuale e limitato … non crea significative differenze nel modo in cui sono trattati i soggetti d'imposta nel loro insieme e, pertanto, non pregiudica il principio di neutralità fiscale”.
Argomentazioni simili hanno condotto la Corte UE a ritenere compatibile, con la direttiva IVA, la norma interna (anche qui italiana) che, in relazione ad una procedura di esdebitazione, consente al giudice, a certe condizioni, di dichiarare inesigibili i debiti IVA, non liquidati, di una persona fisica in esito alla procedura fallimentare cui tale soggetto è stato sottoposto (C‑493/15).
Richiamando le conclusioni della coeva causa Degano Trasporti in C‑546/14 (in tema di falcidia dell'IVA dovuta da un imprenditore nell'ambito di una procedura di concordato preventivo), la Corte osservava che la procedura di esdebitazione era assoggettata a condizioni di applicazione rigorose che offrivano garanzie riguardo la riscossione dei crediti IVA, non costituiva una rinuncia generale e indiscriminata alla riscossione dell'IVA e non era contraria all'obbligo degli Stati membri di garantire il prelievo integrale dell'IVA e la riscossione effettiva delle risorse proprie dell'UE.
In conclusione si osserva che, dal quadro normativo e dalle argomentazioni della Corte UE, al di là delle differenze strutturali tra dazi ed IVA, la protezione offerta dai giudici di Lussemburgo a difesa di eventuali approcci condonistici o di definizione agevolata tout court da parte degli Stati membri, è finalizzata alla tutela degli interessi finanziari unionali anche riguardo l'IVA, non potendo concedere che un'imposta, seppur “interna” nei termini sopra esposti, sia sottratta dalla compartecipazione al bilancio unionale e sia piegata, all'occorrenza, alle necessità di cassa del singolo Stato membro.
In tal modo potrebbe ritenersi superato l'equivoco circa la supposta condonabilità di un'imposta solo perché avente natura “interna”.