All'esito delle osservazioni sin qui svolte si potrebbe concludere che - salvi i limiti di carattere processuale (preclusioni - giudicato) -, nell'esempio delle spese mediche l'eguaglianza tra capitale e rendita può essere (tendenzialmente) garantita posto che si tratta di un pregiudizio che matura nel corso del tempo (questo è il presupposto applicativo dell'art. 2057 c.c.): ad ogni anno che passa, si sarà cristallizzata una parte di esso. La morte decreterà la fine della rendita, e correlativamente segnerà il momento per poter ottenere la decurtazione della somma capitale che sia stata liquidata una tantum.
Questo dunque è il “modello operativo” previsto dall'ordinamento per il caso del danno patrimoniale futuro, ossia per un tipo di pregiudizio che “continua per tutta la vita” e che corrisponde perfettamente al “paradigma” al quale il legislatore pensava (si veda la Relazione al codice civile) quando l'art. 2057 c.c. è stato introdotto.
Allora, a logica, per poter tranquillamente estendere l'art. 2057 c.c. al “biologico” si dovrebbe dire che quest'ultimo “si comporta” allo stesso modo e, dunque, ripete quello “schema” descritto supra.
Ma è davvero così? Ricorrono gli stessi presupposti?
In linea generale, la dottrina ritiene che non vi siano ostacoli alla applicazione dell'art. 2057 c.c. al danno non patrimoniale. Si osserva infatti che:”Il danno alla persona risarcibile in forma di rendita è sia quello patrimoniale, sia quello non patrimoniale. La legge infatti non indica il tipo di danno risarcibile in forma di rendita, ma l'oggetto sul quale deve cadere il pregiudizio, cioè la persona. Ed un pregiudizio alla persona può avere, com'è ovvio, sia conseguenze patrimoniali (ad es. la perdita della capacità di lavoro e di guadagno), sia conseguenze personali (ad es. la definitiva compromissione della salute, o danno biologico).” (M. Rossetti, Commentario del codice civile diretto da E. Gabrielli, Dei fatti Illeciti, Libro IV, Titolo IX, sub art. 2057 c.c., 590 ss.).
Con specifico riguardo al danno biologico, se si leggono le pronunce di legittimità, si vedrà che l'orientamento tradizionale sembra porre una distinzione a seconda che la morte sia stata o meno “causata” dalle lesioni. In questo secondo caso, la massima ricorrente recita che “in tema di risarcimento del danno biologico, ove la persona offesa sia deceduta per causa non ricollegabile alla menomazione risentita in conseguenza dell'illecito, l'ammontare del danno spettante agli eredi del defunto iure successionis va parametrato alla durata effettiva della vita del danneggiato, e non a quella probabile, in quanto la durata della vita futura, in tal caso, non costituisce più un valore ancorato alla mera probabilità statistica, ma è un dato noto” (ex plurimis Cass. 3 ottobre 2003 n. 14767; Cass. 31 gennaio 2011 n. 2297; Cass. 18 gennaio 2016 n. 679).
Si è altresì precisato che “tale danno va liquidato in base al criterio della proporzionalità, cioè assumendo come punto di partenza il risarcimento spettante, a parità di età e di percentuale di invalidità permanente, alla persona offesa che sia rimasta in vita fino al termine del giudizio e diminuendo quella somma in proporzione agli anni di vita residua effettivamente vissuti” (di recente Cass. 29 dicembre 2021, n. 41933).
Per il caso, invece, in cui il vulnus inferto alla vittima abbia provocato il decesso dopo un apprezzabile lasso di tempo, la giurisprudenza più risalente era solita affermare che non poteva, per definizione, consolidarsi alcuna IP, essendovi spazio (solo) per il risarcimento della ITT, sia pure con adeguata personalizzazione tenuto conto “del fatto che, se pure temporaneo, tale danno è massimo nella sua entità ed intensità, tanto che la lesione alla salute è così elevata da non essere suscettibile di recupero ed esitare nella morte” (cosí Cass. 23 febbraio 2004 n. 3549).
Poi la Cassazione a ha “legittimato” la figura del danno "catastrofale" o "da agonia" (la sofferenza provata dalla vittima nella cosciente e consapevole attesa della morte seguita dopo apprezzabile lasso di tempo dalle lesioni, si veda S.U. 22 luglio 2015, n. 15350), ma (almeno a parere di chi scrive) il quadro non si è del tutto chiarito.
Così, in particolare, non si è mai ben compreso come si debba procedere alla liquidazione in quei casi in cui la lesione causa il decesso non in un breve lasso di tempo, ma a distanza di anni, determinando comunque una vera e propria IP (per un esempio si veda Trib. Venezia, Sez. lav. 2 agosto 2019 n. 409 in Olympus, in cui si accerta la responsabilità del datore ex art. 2087 c.c. in relazione alla malattia tumorale del dipendente, dovuta alla presenza di amianto; secondo il CTU, la condotta colposa ha determinato una IP dell'80% che si è consolidata ed ha poi condotto, tre anni dopo, all'exitus).
Sulla base di un ragionamento “a contrario”, in una fattispecie simile una recente pronuncia della Cassazione (Cass. ord. 9 novembre 2022 n. 32916) ha escluso che si possa procedere alla riduzione del risarcimento. Il Tribunale aveva diminuito l'importo spettante alla vittima (secondo le Tabelle) a titolo di danno biologico in ragione del fatto che la stessa era deceduta in corso di causa per effetto dell'illecito (il compendio era stato parametrato agli anni di effettiva sopportazione del vulnus). La Corte d'appello, in accoglimento del gravame degli eredi, aveva eliminato tale decurtazione. I responsabili avevano censurato la sentenza innanzi alla Cassazione, sostenendo che (conformemente alla decisione resa in prime cure) la somma liquidata dovesse essere abbattuta in considerazione dell'intervenuto decesso.
La Suprema Corte respinge il ricorso osservando che: "il principio secondo cui l'ammontare del danno biologico spettante agli eredi del defunto iure successionis va parametrato alla durata effettiva della vita del danneggiato e non già a quella probabile, in quanto la durata della vita futura in tal caso non costituisce più un valore ancorato alla mera probabilità statistica ma è un dato noto (v. Cass., 29 dicembre 2021, n. 41933; Cass., 26 maggio 2016, n. 10897), si applica invero, come nell'impugnata sentenza posto correttamente in rilevo, solo nel caso in cui la persona offesa sia deceduta per causa non ricollegabile alla menomazione risentita in conseguenza dell'illecito, e non anche allorquando come nella specie la morte sia stata viceversa direttamente cagionata dall'illecito, essendo la persona deceduta proprio in conseguenza della patologia contratta all'esito della subita trasfusione con sangue infetto, e non già per cause da essa indipendenti” (Cass. n. 32916/2022).
Nel caso di specie la Cassazione, dunque, conferma la decisione resa in appello affermando che “la corte di merito ha pertanto conseguentemente correttamente eliminato la “decurtazione” al riguardo a tale titolo apportata dal giudice di prime cure” (Cass. n. 32916/2022; v., su questa statuizione, la critica mossa da Trib. Milano, 16 novembre 2022 n. 9042).
Volendo allora seguire questo principio (per cui il risarcimento del danno biologico non va ridotto ove la vittima deceda in conseguenza delle lesioni), si dovrebbe dire che quella equivalenza tra capitale e rendita (descritta supra alla lettera ℽ con riferimento al caso delle spese mediche future) non potrebbe in tali ipotesi essere garantita.
Si consideri il seguente esempio: per effetto delle lesioni Tizio muore “ante tempus” subito dopo la sentenza di primo grado (è vissuto tre anni da quando ha subito l'illecito); il risarcimento della IP è stato però riconosciuto in capitale secondo le prospettive di vita media (Tabella di Milano); l'appello del responsabile, che chiede la riduzione del quantum, viene rigettato in applicazione della regola posta da Cass. n. 32916/2022.
Se il Giudice di merito avesse utilizzato lo strumento “alternativo” ex art. 2057 c.c., la stessa vittima si troverebbe, con la rendita, ad avere maturato un importo largamente inferiore rispetto a quello una tantum.
Quindi lo stesso caso verrebbe trattato in modo (drasticamente) diverso; e ciò, si noti, senza che vi sia un problema di preclusioni processuali. Questo esito sarebbe il risultato di una scelta esercitata discrezionalmente dal Giudice il quale, nel momento in cui la compie, sa benissimo che ove la morte sopraggiunga in corso di giudizio, la lump sum sarà comunque “intoccabile” (appunto in base alla regola posta da Cass. n. 32916/2022), mentre la rendita cesserà. Ed allora vi è da chiedersi se si possa davvero dire che è rispettato il presupposto della “equivalenza” che dovrebbe governare il rapporto con l'art. 2057 c.c. (Cass. n. 31574/2022) quando - si ripete, senza che si debba far questione dei limiti del giudicato – l'uso di uno strumento piuttosto che dell'altro non è affatto sullo stesso piano.
Ma prima ancora, ecco il punto: se per principio (Cass. n. 32916/2022) - pur non venendo in linea di conto preclusioni processuali - il risarcimento del “biologico” non può essere proporzionalmente decurtato quando il soggetto leso muore in pendenza della lite (nell'esempio, subito dopo la sentenza di primo grado a distanza di tre anni dall'illecito), allora vuol dire che quel pregiudizio non è un “danno che matura nel tempo”, ma è già stato “subíto per intero”, come se la vittima lo avesse “patito, interiorizzato, consumato” tutto in una volta nel breve periodo in cui è vissuta.
Se, infatti, fosse un “danno che matura nel tempo”, come ad es. le spese mediche future (vd. supra), il risarcimento dovrebbe arrestarsi in corrispondenza del decesso, e non andare oltre, perché altrimenti quella somma capitale (calcolata su una sopravvivenza media) andrebbe a compensare un “peso” (futuro) che la vittima non sopporterà mai (una deminutio che non si verificherà mai). E nell'esempio fatto, il Giudice –si ripete, dato che non è scattata alcuna preclusione processuale- dovrebbe aver mano libera (in caso di impugnazione del responsabile) a “riportare in asse” la situazione.
La questione fa riflettere perché se davvero il danno biologico fosse un pregiudizio che “non matura nel tempo”, “de die in diem” come afferma Cass. n. 31574/2022, ma è istantaneo, viene cioè “acquisito tutto in una volta”, l'art. 2057 c.c. non si potrebbe applicare.
Sembra però che il busillis si possa sciogliere alla luce di un'altra pronuncia, intervenuta di recente, Cass. n. 9011/2022. Nella specie il giudizio di primo grado si era concluso con una condanna del responsabile dell'illecito al pagamento della somma corrispondente alla IP accertata secondo le Tabelle, pari ad Euro 972.836,10; ma nelle more (dopo il deposito delle memorie ex art. 183 cpc.) il soggetto leso era deceduto per effetto delle lesioni senza che gli attori lo dichiarassero. Una volta al corrente dell'avvenuto exitus, il convenuto soccombente aveva chiesto in sede di gravame la riforma della sentenza, sostenendo che il danno biologico avrebbe dovuto essere parametrato alla durata effettiva della vita e non a quella media. La Corte d'appello aveva accolto il motivo e ridotto conseguentemente l'importo ad Euro 352.289,09.
Gli eredi del danneggiato censurano la decisone innanzi alla Cassazione, sostenendo che, per giurisprudenza consolidata, la decurtazione sarebbe stata possibile solo se la morte non fosse stata conseguenza delle lesioni, mentre nella specie era stato accertato il nesso.
La Corte rigetta il ricorso osservando, con ampia motivazione, che: ”In base alla costante giurisprudenza di questa Corte, il diritto al risarcimento del danno biologico, che entra a far parte del patrimonio della vittima nello stesso momento della lesione e si trasmette agli eredi secondo le comuni regole della successione "mortis causa", nel caso di decesso anteriore alla liquidazione deve essere riferito al periodo intercorso tra la data dell'incidente e quella effettiva della morte, non già ad un periodo di tempo pari alle speranze di vita della vittima stessa (Cass., Sez. 3, 27 dicembre 1994 n. 11169).
Alcune delle richiamate decisioni (anche se non tutte), nell'affermare che l'ammontare del risarcimento del danno biologico spettante ("iure successionis") agli eredi del defunto va parametrato alla durata effettiva della vita del danneggiato invece che a quella probabile, fanno espresso riferimento all'ipotesi in cui la persona offesa sia deceduta per causa non ricollegabile alla menomazione risentita in conseguenza dell'illecito.
Ma tale inciso non può certo intendersi come una sorta di "condizione" necessaria ai fini della liquidazione del danno biologico in base alla durata effettiva della vita della vittima, come pretenderebbero i ricorrenti, i quali ne vorrebbero far conseguire che, laddove il decesso dovesse intervenire - sia pure ad una certa distanza di tempo dal fatto - quale conseguenza della condotta illecita del danneggiante, agli eredi spetterebbe comunque, a titolo ereditario, il risarcimento del danno biologico causato alla vittima parametrato sulla probabilità statistica di durata della sua vita futura, sebbene l'epoca del suo decesso sia nota e la sua vita effettiva sia risultata inferiore a quella statisticamente prevedibile.
Va, al contrario, in proposito ribadito il principio di diritto per cui, anche nel caso in cui il decesso del danneggiato sia conseguenza del fatto illecito, resta sempre fermo che il danno biologico (trasmissibile iure successionis) va liquidato sulla base del periodo di tempo in concreto intercorso tra il fatto lesivo e il decesso stesso.
Ai fini della liquidazione del danno biologico, l'età assume infatti rilevanza in quanto col suo crescere diminuisce l'aspettativa di vita (sicché è progressivamente inferiore il tempo per il quale il soggetto leso subirà le conseguenze non patrimoniali della lesione della sua integrità psicofisica); pertanto, quando la durata della vita futura cessa di essere un valore ancorato alla probabilità statistica e diventa un dato noto, per essere il soggetto deceduto, il danno biologico, in quanto relativo ad un profilo dinamico e relazionale, va comunque correlato alla durata effettiva della vita, essendo lo stesso costituito dalle ripercussioni negative (di carattere non patrimoniale e diverse dalla mera sofferenza psichica) della permanente lesione della integrità psicofisica del soggetto per l'intera durata della sua vita residua (cfr. Cass., Sez. 3, Sentenza n. 22338 del 24/10/2007, Rv. 599941-01)”.
Risulta allora confermato che il danno biologico “dura nel tempo”: e questo consente di sgomberare il campo, sotto il profilo qui considerato, dai possibili dubbi circa l'applicabilità dell'art. 2057 c.c..
E in effetti è la stessa Cass. n. 31574/2022 a precisare (par. 5.3.7) che “per definizione, risarcendo il danno biologico permanente (e il danno morale ad esso conseguente, se provato), si risarciscono per equivalente tutte le conseguenze dannose dell'illecito che il danneggiato sarà costretto a sopportare, giorno per giorno, sino alla fine della sua vita; dall'altro, allo spirare dell'esistenza, di danno biologico e morale del soggetto leso non è più dato discorrere”.
Del resto, che il danno biologico maturi nel tempo sembra un dato acquisito (ed anzi un principio di fondo su cui sono costruite le stesse Tabelle di Milano), posto che in diverse altre occasioni la Cassazione non ha mancato di sottolineare come un conto sia convivere con la menomazione per il resto della vita, un altro per un più limitato periodo.
Sul punto si veda Cass. 23 febbraio 2004 n. 3549 che, con riferimento al danno biologico patito dalla vittima sopravvissuta per un apprezzabile lasso di tempo, osserva: “7.2. Assumere, come mostrano di ritenere i ricorrenti, che il risarcimento del danno biologico, cui consegua la morte, è dovuto per intero (come se il soggetto avesse raggiunto la durata di vita conforme alle speranze) nel caso in cui il decesso è conseguenza delle lesioni, non è corretto perché esclude uno degli elementi costitutivi del danno risarcibile: e cioè la durata di esso. Poiché, secondo i più recenti orientamenti, anche il danno biologico è una perdita (del bene salute), non può dar luogo allo stesso risultato risarcitorio risentire di questa perdita del bene salute nella misura del 100% per alcuni giorni/mesi o per l'intera durata della vita media”.