La rendita come “forma privilegiata” del risarcimento del danno non patrimoniale in caso di macrolesioni

23 Gennaio 2023

Con la sentenza n. 31574/2022 la Cassazione ha aperto la via al risarcimento del danno non patrimoniale in forma di rendita, offrendo all'interprete numerosi spunti di riflessione. In queste note l'attenzione verrà focalizzata su: equivalenza tra capitale e rendita, danno biologico e morale e proiezione nel tempo ai fini dell'applicabilità dell'art. 2057 c.c.
Nel calcolo della rendita non rileva la speranza di vita concreta

Nella specie esaminata da Cass. n. 31574/2022, il Tribunale aveva accertato la responsabilità della struttura ospedaliera e del medico per le gravissime lesioni subite da un neonato a causa della non corretta assistenza ed aveva liquidato al piccolo, a titolo di danno non patrimoniale, l'importo di Euro 1.219.355,00 previsto dalla Tabella di Milano per la corrispondente IP.
I convenuti soccombenti avevano impugnato la sentenza sostenendo che la somma dovesse essere ridotta in ragione della minore aspettativa di vita del bambino. La Corte aveva rigettato il gravame sul punto e, confermata la liquidazione effettuata in primo grado, aveva tuttavia ritenuto di convertire il risarcimento da capitale in rendita.

Il caso viene portato all'attenzione della Cassazione: in particolare, secondo la difesa dei danneggiati, la decisione del giudice di seconde cure doveva ritenersi contraddittoria dato che, pur avendo negato che si potesse diminuire il quantum in ragione delle minori aspettative di vita, aveva poi consentito al responsabile "di giovarsi della propria condotta, applicando un criterio di liquidazione che, implicitamente, consentiva la predetta riduzione, tenuto conto della ridotta aspettativa di vita del minore”.

Senza voler ripercorrere i passaggi della motivazione, basti qui dire che gi Ermellini non condividono tale prospettazione e, anzi, colgono l'occasione per legittimare a tutto tondo lo strumento della rendita, affermando che esso dovrebbe diventare “la forma privilegiata di risarcimento” in caso di lesione grave della salute.
Il Collegio accoglie però l'altro motivo di doglianza con il quale era stato denunciato l'utilizzo di un coefficiente di capitalizzazione non corretto e traccia le coordinate di riferimento in merito alle modalità applicative dell'art. 2057 c.c.

Un punto di particolare interesse è quello in cui la Cassazione precisa (par. 5.3.6) che “il valore della rendita dovrà essere computato tenendo conto non delle concrete speranze di vita del danneggiato, bensì della vita media futura prevedibile secondo le tavole di mortalità elaborate dall'ISTAT, a nulla rilevando che, nel caso concreto, egli abbia speranza di sopravvivere solo per pochi anni, ovvero che non risulti oggettivamente possibile determinarne le speranze di sopravvivenza, qualora tale ridotta speranza di sopravvivenza sia conseguenza dell'illecito".

In sostanza, secondo le indicazioni della Suprema Corte, l'importo di euro 1.219.355,00 dovrebbe essere “spalmato” sugli anni di vita media secondo le statistiche Istat (per gli uomini 80), senza che rivesta importanza il fatto che la vittima “abbia speranza di sopravvivere solo per pochi anni”.

Balzerà subito all'occhio che un conto è “suddividere” la somma capitale per 80, un altro è farlo, ad es., per 10 (ove questa sia la speranza di vita in concreto). Pare infatti inevitabile concludere che, al termine della sua esistenza, il danneggiato avrà ottenuto una somma largamente inferiore a quella che gli sarebbe stata riconosciuta se la liquidazione fosse avvenuta una tantum.

Questo esito apre la via ad una serie di considerazioni; ed il primo dubbio che viene è se la regola enunciata dalla Cassazione sia davvero in linea con gli altri principi richiamati nella stessa pronuncia, tra qui quello di “equivalenza” e di “effettività, di bilanciamento, di giustizia delle decisioni”.

L'equivalenza tra capitale e rendita: l'art. 2057 cc. nel sistema

Pare a chi scrive che il punto da cui partire nello sviluppo del ragionamento sia racchiuso nel passaggio in cui Cass. n. 31574/2022 afferma che (par.5.2.1.) “L'art. 2057 cc. (..) rimette al prudente apprezzamento del giudice la scelta della forma di liquidazione del danno permanente alla persona, perché capitale e rendita si equivalgono per l'ordinamento civilistico. Il giudice è dunque libero di optare ex officio per lo strumento di cui all'art. 2057 c.c., purché determini la rendita in modo tecnicamente corretto”.

L'equivalenza viene rimarcata anche nel prosieguo della motivazione: ”6.2. Osserva il collegio che, riconosciuta al giudice di merito la facoltà di liquidare il danno in forma di rendita (..), incombe poi su quello stesso giudice l'onere di assicurare che la rendita restituisca un valore finanziariamente equivalente al capitale da cui è stata ricavata, per l'intera durata della vita del beneficiario”.

L'art. 2057 c.c. si pone dunque sullo stesso piano del risarcimento in forma di capitale.

Data questa premessa, sorge allora spontanea una prima considerazione/ipotesi: il “risultato” che discende dall'uso vuoi dell'uno come dell'altro strumento dovrebbe (tendenzialmente) essere uguale. Non può essere, insomma, che l'ordinamento consenta, a parità di condizioni, un trattamento differenziato a seconda che l'art. 2057 c.c. sia, o meno, applicato.

Invero, se gli esiti fossero diversi (ossia uno più “vantaggioso” dell'altro), si creerebbe un inammissibile confitto all'interno del sistema: il Giudice, in base ad una valutazione personale, esercitabile oltretutto d'ufficio, sarebbe “arbitro” delle sorti del (medesimo) danneggiato, nel senso che, a sua discrezione, potrebbe decidere vuoi per la soluzione più soddisfacente (per la vittima), vuoi per quella deteriore.
E ciò senza che alla base del discrimen vi siano obiettive ragioni giustificatrici (che comunque sarebbero tutte da ricercare).

Sembra dunque che il senso profondo da attribuire alla regola enunciata dalla Corte al par. 6.2.(“assicurare che la rendita restituisca un valore finanziariamente equivalente al capitale da cui è stata ricavata, per l'intera durata della vita del beneficiario”) possa essere espresso in questi termini: premesso che il soggetto ha subìto un danno permanente, che lo accompagnerà fino all'exitus, al momento della liquidazione in forma di rendita bisogna effettuare il conteggio in modo tale che, al (presumibile) termine della sua vita, la vittima dell'illecito possa maturare lo stesso risarcimento che le sarebbe stato riconosciuto se l'erogazione fosse avvenuta in capitale.

Ma ciò è possibile? E cambia qualcosa allorquando si tratti di compromissioni di carattere non patrimoniale?

Nelle pagine che seguono si cercherà di tracciare un parallelismo tra rendita e capitale.

Beninteso, le (eventuali) differenze che si vogliono qui indagare non riguardano le conseguenze che potrebbero verificarsi a causa dei limiti processuali: in altri termini, è chiaro che se la persona danneggiata inaspettatamente muore, dopo il giudicato, ma prima di aver raggiunto l'età media Istat in base alla quale è stato calcolato il risarcimento (es. spese mediche di cura da sostenere ogni anno per il resto dell'esistenza), la somma riconosciuta in via di rendita risulterebbe senz'altro inferiore a quella erogata una tantum (anzi, quest'ultima potrebbe addirittura apparire “iniqua” per eccesso posto che andrebbe a compensare una deminutio che non si è mai prodotta).

Ma questo è un limite “intrinseco” del sistema che va accettato per quello che è (del resto, se l'ordinamento non ammettesse tale discrasia, l'art. 2057 c.c. non potrebbe operare mai dato che è impossibile sapere, a priori, se il soggetto vivrà di più o di meno del tempo necessario perché la condanna del responsabile diventi definitiva).

La situazione su cui si focalizzerà l'attenzione sarà, piuttosto, come si dirà infra, quella del decesso in corso di lite: si prenderà in considerazione il caso (che parrebbe più semplice) del danno patrimoniale futuro – rispetto al quale non si dubita della applicabilità dell'art. 2057 c.c. -, per cercare di capire se lo stesso “schema” sia predicabile anche per i pregiudizi di carattere “biologico e morale”.

  • Ipotesi 1) la presumibile durata della vita secondo le statistiche

In linea generale è opportuno premettere che l'art. 2057 c.c. si applica solo al danno permanente, che cioè “matura, si produce nel tempo”, e non a quello “istantaneo”, che si consuma ed esaurisce in un unico momento.

Nella struttura della disposizione l'elemento essenziale è la durata della vita (la morte segna il termine ultimo fino al quale è possibile percepire la rendita): è sulla base di questo dato che occorre elaborare il conteggio, perché la norma ed il tipo stesso di pregiudizio lo presuppongono (la domanda a cui occorre rispondere è “per quanto la vittima continuerà a sopportare questo vulnus/deminutio”?).

Il parametro di riferimento che il Giudice dovrà utilizzare sarà per forza di cose “indicativo” e sarà rappresentato dalle statistiche Istat (salvo che esistano elementi in base ai quali sia possibile fare una stima diversa – sul punto infra).

Prendiamo come esempio il caso delle spese mediche e poniamo che, a causa della invalidità conseguente all'illecito, Tizio, di 45 anni, debba sborsare ogni anno Euro x per cure (es. fisioterapiche, indispensabili per il resto della sua esistenza).

Nel determinare il risarcimento in forma di capitale, il Giudice terra conto della presumibile vita futura (per gli uomini sino a 80 anni in base all'ISTAT) e condannerà il responsabile al pagamento di un importo una tantum (per es. Euro 400.000,00)

Nell'esempio del danno patrimoniale per spese future, l'operazione, in realtá, è invertita: l'ammontare di quella che potremmo definire rendita è giá noto, perché è l'importo delle spese mediche che in un anno il malato deve sostenere; la liquidazione una tantum avverrá con il metodo della capitalizzazione, ma il discorso non cambia: la lump sum è equivalente ad una rendita “moltiplicata” (con gli opportuni adattamenti) per la durata presumibile della vita del danneggiato.

La rendita - che si pone, appunto, come strumento alternativo - dovrebbe tendenzialmente garantire al danneggiato un risultato corrispondente: al termine della sua esistenza (80 anni secondo le tavole mortuarie) Tizio dovrebbe aver ottenuto un importo pari ad Euro 400.000,00= (ai fini del calcolo del rateo annuale occorre quindi di “ripartire” l'importo capitale per gli anni di presumibile sopravvivenza).

Se si vuole, la questione potrebbe essere schematicamente rappresentata così:

  • Risarcimento in capitale. Se Tizio vivrà fino ad 80 anni, la somma di Euro 400.000,00 si sarà rivelata congrua (perché l'esigenza di cura si sarà effettivamente protratta per 35 anni e il danno effettivo risulterà compensato dalla lump sum).
  • Risarcimento in forma di rendita. Se Tizio vivrà fino ad 80 anni, la rendita calcolata nei termini sopra indicati sarà corrispondente al capitale.

Ebbene, il concetto di equivalenza tra rendita e capitale sembrerebbe dunque postulare un ragionamento di questo tipo: per il Giudice è come se fosse “certo” (non potendosi fare diversamente dato che nessuno ha la sfera di cristallo) che Tizio vivrà fino ad 80 anni e, dunque, che il danno futuro sarà, nell'esempio, di Euro 400.000,00.

Ai fini del calcolo della rendita occorre allora che la somma capitale “sia spalmata” per quegli anni di (presumibile) sopravvivenza affinché la vittima, al termine (stimato) della sua esistenza (80), possa ottenere esattamente ciò che avrebbe incassato con l'erogazione una tantum.

Potrebbe però succedere che Tizio muoia, per es., al 58° anno (si supponga, per cause diverse dall'illecito): qui si creerebbe una distorsione perché, se la liquidazione è avvenuta una tantum, la vittima otterrebbe più del suo danno (mentre con la rendita l'importo versato corrisponderebbe al pregiudizio sino a quel momento concretamente patito, dato che i costi di cura “maturano” periodicamente).

Tuttavia, ove l'exitus si verifichi nel corso del giudizio (ad es. subito dopo la sentenza di primo grado), dovrebbe esservi spazio per la riduzione della somma capitale. In tal caso, una volta effettuata la debita decurtazione, la corrispondenza tra risarcimento in forma di capitale e di rendita risulterebbe ripristinata (Tizio avrà ottenuto, sotto forma di rendita annuale/capitale, ciò che occorreva per compensare il suo danno, ossia i costi di cura concretamente sostenuti fino a che è rimasto in vita).

E in effetti, secondo la giurisprudenza, il responsabile (per es. condannato in primo grado) ben potrebbe impugnare e chiedere la rideterminazione del quantum corrisposto in unica soluzione posto che, con il decesso della vittima, il danno futuro è venuto meno, essendo appunto cessata l'esigenza delle spese mediche. (Si veda Cass. 20 gennaio 1999 n. 489 che, richiamando i precedenti, conferma l'orientamento “in base al quale nel caso in cui, al momento della liquidazione, la persona offesa sia deceduta per cause sopravvenute indipendenti dal fatto illecito, nella liquidazione del danno biologico e patrimoniale in senso stretto richiesto dagli eredi iure hereditario occorre prescindere dal criterio probabilistico collegato alla presumibile durata della vita futura del soggetto ed avere invece riguardo al dato, a quel punto noto, della durata effettiva della sua vita”.

Nella specie esaminata da Cass. n. 489/1999, tuttavia, la Corte respinge il motivo con cui il responsabile aveva chiesto la riduzione del quantum, e ciò perché la morte del danneggiato era avvenuta in epoca successiva alla precisazione delle conclusioni nel giudizio di appello e non poteva essere conosciuta dal giudice del merito, dovendosi pertanto escludere un vizio della sentenza per uno dei motivi tassativamente indicati dall'art. 360 c.p.c., non ricorrendo un'ipotesi di errore in iudicando o in procedendo).

Più in generale si veda Cass. n. 9011/2022 che si riporta all'orientamento secondo cui: “nel procedimento d'appello, il divieto di introdurre nuove eccezioni posto dall'art. 345 c.p.c. non opera nel caso di eccezione fondata su fatti sopravvenuti, verificatisi dopo lo scadere del termine per la loro deducibilità in sede di primo grado, dal momento che l'insussistenza del fatto storico nelle more del giudizio di prime cure, che ha reso impossibile sollevare la relativa eccezione, non contrasta con l'esigenza di assicurare il doppio grado di giudizio sul merito”.

  • Ipotesi 2) La presumibile durata della vita “in concreto”.

Poniamo che, per effetto dell'illecito, il trauma subito sia così grave da ridurre la speranza di vita del soggetto offeso (es. Caio vivrà solo 10 anni anziché 40). Ed immaginiamo che il CTU sia in grado di fare questa stima (perché per es. esistono statistiche specificamente elaborate sulla casistica dei macrolesi).

Come può essere qui garantita l'equivalenza tra capitale e rendita?

Sempre prendendo come esempio il danno patrimoniale per spese di cura, pare a chi scrive che il Giudice dovrebbe liquidare il risarcimento tenendo conto della prognosi reale; altrimenti, vi è il rischio di una locupletazione (perché la somma una tantum, se parametrata alla vita media, andrebbe a “compensare” danni che molto probabilmente non si verificheranno mai).

Dunque, in ipotesi, a Caio verrà riconosciuto un importo “tarato” sulla speranza di vita di 10 anni, es. Euro 500.000,00. (In questo senso si veda Cass. 30 aprile 2019 n. 11393: la Cassazione ha ritenuto corretta la decisione della Corte d'Appello di Bologna che, a persona macrolesa in conseguenza di sinistro stradale, aveva liquidato il danno patrimoniale futuro moltiplicando l'importo annuale delle spese mediche dovute per assistenza fisioterapica per la prognosi di durata della vita dello specifico soggetto danneggiato, indicata dal CTU in misura pari a 35 anni - contro i 55 previsti dalle statistiche Istat - proprio in ragione delle peculiari condizioni del leso).

Ipotizziamo ora una liquidazione sotto forma di rendita; per garantire l'eguaglianza, il Giudice dovrebbe tener conto della speranza di vita in concreto, cioè 10 anni: l'importo da corrispondere annualmente dovrebbe allora essere tale da far sì che, al (presumibile) termine della esistenza (dopo 10 anni), il danneggiato ottenga una somma corrispondente ad Euro 500.000,00.

Il parametro da porre a base del calcolo richiesto dall'art. 2057 c.c. dovrebbe, anche qui, essere la vita presumibile, ma non quella media astratta, bensì quella concreta indicata dal CTU.

Se, infatti, ai fini della determinazione della rendita si prendesse a riferimento la prognosi media (poniamo altri 40 anni), al momento della morte (verosimilmente dopo 10 anni) il danneggiato otterrebbe un importo decisamente inferiore ad Euro 500.000,00 (perché la somma capitale sarebbe “spalmata” su 40 anziché su 10).

Questo risultato appare iniquo; tanto più se si considera che, nella specie, la “minor vita” è un elemento acquisito, cioè è prevedibile al momento della liquidazione; qui allora il Giudice, a seconda che opti per la rendita o per il capitale, adotterebbe consapevolmente un trattamento differenziato del (medesimo) danneggiato; e una tale discrasia – a parere di chi scrive – sarebbe ingiustificata.

L'uguaglianza dovrebbe invece essere (almeno tendenzialmente, salvi cioè i limiti processuali e il giudicato) garantita già nella “costruzione” del conteggio dato che, nell'esempio, al dato probabilistico generale (Istat) si sostituisce quello particolare (tarato sulla statistica di una specifica categoria di soggetti).

Qui la durata della vita , come parametro essenziale che l'art. 2057 c.c. impone di considerare nel calcolo, è per il Giudice già “certa” (nel senso, utilizzato supra, di necessariamente “indicativa” posto che nessuno ha la sfera di cristallo): il danno dovrà essere sopportato per 10 anni; e questo dovrebbe essere l'arco temporale da prendere come riferimento nella determinazione sia del capitale che della rendita affinché, al termine della vita, il leso ottenga ciò che gli sarebbe stato riconosciuto con l' “una tantum”.

Volendo anticipare quanto si osserverà più avanti, verrebbe allora da chiedersi se in un caso come quello affrontato da Cass. n. 31574/2022, in cui – per come insegna la medicina legale – la speranza di vita di un neonato macroleso è sensibilmente inferiore a quella “media”-, sia giusto calcolare la rendita (quale che sia la somma capitale che si ritenga corretto riconoscere) “ripartendola” per la durata presunta secondo le ordinarie statistiche (80 anni per gli uomini, 84 per le donne). Ma sul punto si tornerà infra.

Una prima sintesi

Queste prime considerazioni portano a focalizzare l'attenzione su alcuni punti:

  • l'art. 2057 c.c. postula che il danno sia “permanente”, ossia che non sia “istantaneo”, che non si consumi tutto in una volta;
  • a parere di chi scrive, se il risarcimento in forma di capitale e la rendita sono due strumenti di liquidazione equipollenti, come afferma Cass. n. 31574/2022, occorre che, per una medesima fattispecie, il “risultato” dell'uno sia (tendenzialmente) corrispondente a quello dell'altro. Al momento della liquidazione, cioè, bisogna operare in modo tale che, allo scadere del (presumibile) periodo di vita residuo, la vittima ottenga lo stesso importo che le sarebbe stato riconosciuto con il pagamento di una somma in unica soluzione. Quando si può garantire tale eguaglianza?
  • se parliamo di un danno che matura nel tempo (es. spese di cura nell'esempio sopra fatto), l'equivalenza tra capitale e rendita parrebbe tendenzialmente assicurata dal sistema (salve le preclusioni processuali ed i limiti del giudicato); infatti, se Tizio muore prima della “vita presumibile” (posta a base del conteggio), la somma una tantum nel frattempo incassata è suscettibile di essere decurtata (es. su impugnazione del responsabile che deduce il sopravvenuto decesso e chiede la riduzione dell'importo riconosciuto in unica soluzione poiché esso va a compensare pregiudizi che non si verificheranno mai). Alla fine, la vittima avrà ottenuto il risarcimento corrispondente al danno che si è progressivamente prodotto sino a quel momento. Si potrebbe dire che il danno sopportato per un anno “vale” come il corrispondente rateo della rendita. Il risarcimento è in funzione del tempo;
  • se, invece, parliamo di un danno che si realizza in capo all'avente diritto istantaneamente, che cioè si “concentra e consuma” in uno stesso momento, l'art. 2057 c.c. non può entrare in gioco (perché il pregiudizio non è permanente).
  • nella applicazione dell'art. 2057 c.c. il Giudice deve prendere come riferimento la durata della vita, la quale (in assenza di una sfera di cristallo) sarà o quella media secondo le statistiche, ovvero (se vi sono circostanze che, nella valutazione del CTU, inducono a fare una prognosi peggiore) quella prevedibile in concreto.

Fatte queste considerazioni, sorgono ora due interrogativi: che tipo di danno è il “biologico”? matura anch'esso nel tempo?

E quello “morale”, conseguente per es. ad una gravissima lesione? Si potrebbe anche ritenere che esso sia in buona parte istantaneo, almeno nel senso che, all'inizio, la sua intensità è spaventosa perché travolge ed annienta, e poi (forse), col tempo, si attenua. È una sorta di ibrido?

Queste domande consentono di introdurre le prossime riflessioni.

Il danno biologico matura nel tempo

All'esito delle osservazioni sin qui svolte si potrebbe concludere che - salvi i limiti di carattere processuale (preclusioni - giudicato) -, nell'esempio delle spese mediche l'eguaglianza tra capitale e rendita può essere (tendenzialmente) garantita posto che si tratta di un pregiudizio che matura nel corso del tempo (questo è il presupposto applicativo dell'art. 2057 c.c.): ad ogni anno che passa, si sarà cristallizzata una parte di esso. La morte decreterà la fine della rendita, e correlativamente segnerà il momento per poter ottenere la decurtazione della somma capitale che sia stata liquidata una tantum.

Questo dunque è il “modello operativo” previsto dall'ordinamento per il caso del danno patrimoniale futuro, ossia per un tipo di pregiudizio che “continua per tutta la vita” e che corrisponde perfettamente al “paradigma” al quale il legislatore pensava (si veda la Relazione al codice civile) quando l'art. 2057 c.c. è stato introdotto.

Allora, a logica, per poter tranquillamente estendere l'art. 2057 c.c. al “biologico” si dovrebbe dire che quest'ultimo “si comporta” allo stesso modo e, dunque, ripete quello “schema” descritto supra.

Ma è davvero così? Ricorrono gli stessi presupposti?

In linea generale, la dottrina ritiene che non vi siano ostacoli alla applicazione dell'art. 2057 c.c. al danno non patrimoniale. Si osserva infatti che:”Il danno alla persona risarcibile in forma di rendita è sia quello patrimoniale, sia quello non patrimoniale. La legge infatti non indica il tipo di danno risarcibile in forma di rendita, ma l'oggetto sul quale deve cadere il pregiudizio, cioè la persona. Ed un pregiudizio alla persona può avere, com'è ovvio, sia conseguenze patrimoniali (ad es. la perdita della capacità di lavoro e di guadagno), sia conseguenze personali (ad es. la definitiva compromissione della salute, o danno biologico).” (M. Rossetti, Commentario del codice civile diretto da E. Gabrielli, Dei fatti Illeciti, Libro IV, Titolo IX, sub art. 2057 c.c., 590 ss.).

Con specifico riguardo al danno biologico, se si leggono le pronunce di legittimità, si vedrà che l'orientamento tradizionale sembra porre una distinzione a seconda che la morte sia stata o meno “causata” dalle lesioni. In questo secondo caso, la massima ricorrente recita che “in tema di risarcimento del danno biologico, ove la persona offesa sia deceduta per causa non ricollegabile alla menomazione risentita in conseguenza dell'illecito, l'ammontare del danno spettante agli eredi del defunto iure successionis va parametrato alla durata effettiva della vita del danneggiato, e non a quella probabile, in quanto la durata della vita futura, in tal caso, non costituisce più un valore ancorato alla mera probabilità statistica, ma è un dato noto” (ex plurimis Cass. 3 ottobre 2003 n. 14767; Cass. 31 gennaio 2011 n. 2297; Cass. 18 gennaio 2016 n. 679).

Si è altresì precisato che “tale danno va liquidato in base al criterio della proporzionalità, cioè assumendo come punto di partenza il risarcimento spettante, a parità di età e di percentuale di invalidità permanente, alla persona offesa che sia rimasta in vita fino al termine del giudizio e diminuendo quella somma in proporzione agli anni di vita residua effettivamente vissuti” (di recente Cass. 29 dicembre 2021, n. 41933).

Per il caso, invece, in cui il vulnus inferto alla vittima abbia provocato il decesso dopo un apprezzabile lasso di tempo, la giurisprudenza più risalente era solita affermare che non poteva, per definizione, consolidarsi alcuna IP, essendovi spazio (solo) per il risarcimento della ITT, sia pure con adeguata personalizzazione tenuto conto “del fatto che, se pure temporaneo, tale danno è massimo nella sua entità ed intensità, tanto che la lesione alla salute è così elevata da non essere suscettibile di recupero ed esitare nella morte” (cosí Cass. 23 febbraio 2004 n. 3549).

Poi la Cassazione a ha “legittimato” la figura del danno "catastrofale" o "da agonia" (la sofferenza provata dalla vittima nella cosciente e consapevole attesa della morte seguita dopo apprezzabile lasso di tempo dalle lesioni, si veda S.U. 22 luglio 2015, n. 15350), ma (almeno a parere di chi scrive) il quadro non si è del tutto chiarito.

Così, in particolare, non si è mai ben compreso come si debba procedere alla liquidazione in quei casi in cui la lesione causa il decesso non in un breve lasso di tempo, ma a distanza di anni, determinando comunque una vera e propria IP (per un esempio si veda Trib. Venezia, Sez. lav. 2 agosto 2019 n. 409 in Olympus, in cui si accerta la responsabilità del datore ex art. 2087 c.c. in relazione alla malattia tumorale del dipendente, dovuta alla presenza di amianto; secondo il CTU, la condotta colposa ha determinato una IP dell'80% che si è consolidata ed ha poi condotto, tre anni dopo, all'exitus).

Sulla base di un ragionamento “a contrario”, in una fattispecie simile una recente pronuncia della Cassazione (Cass. ord. 9 novembre 2022 n. 32916) ha escluso che si possa procedere alla riduzione del risarcimento. Il Tribunale aveva diminuito l'importo spettante alla vittima (secondo le Tabelle) a titolo di danno biologico in ragione del fatto che la stessa era deceduta in corso di causa per effetto dell'illecito (il compendio era stato parametrato agli anni di effettiva sopportazione del vulnus). La Corte d'appello, in accoglimento del gravame degli eredi, aveva eliminato tale decurtazione. I responsabili avevano censurato la sentenza innanzi alla Cassazione, sostenendo che (conformemente alla decisione resa in prime cure) la somma liquidata dovesse essere abbattuta in considerazione dell'intervenuto decesso.

La Suprema Corte respinge il ricorso osservando che: "il principio secondo cui l'ammontare del danno biologico spettante agli eredi del defunto iure successionis va parametrato alla durata effettiva della vita del danneggiato e non già a quella probabile, in quanto la durata della vita futura in tal caso non costituisce più un valore ancorato alla mera probabilità statistica ma è un dato noto (v. Cass., 29 dicembre 2021, n. 41933; Cass., 26 maggio 2016, n. 10897), si applica invero, come nell'impugnata sentenza posto correttamente in rilevo, solo nel caso in cui la persona offesa sia deceduta per causa non ricollegabile alla menomazione risentita in conseguenza dell'illecito, e non anche allorquando come nella specie la morte sia stata viceversa direttamente cagionata dall'illecito, essendo la persona deceduta proprio in conseguenza della patologia contratta all'esito della subita trasfusione con sangue infetto, e non già per cause da essa indipendenti” (Cass. n. 32916/2022).

Nel caso di specie la Cassazione, dunque, conferma la decisione resa in appello affermando che “la corte di merito ha pertanto conseguentemente correttamente eliminato la “decurtazione” al riguardo a tale titolo apportata dal giudice di prime cure” (Cass. n. 32916/2022; v., su questa statuizione, la critica mossa da Trib. Milano, 16 novembre 2022 n. 9042).

Volendo allora seguire questo principio (per cui il risarcimento del danno biologico non va ridotto ove la vittima deceda in conseguenza delle lesioni), si dovrebbe dire che quella equivalenza tra capitale e rendita (descritta supra alla lettera con riferimento al caso delle spese mediche future) non potrebbe in tali ipotesi essere garantita.

Si consideri il seguente esempio: per effetto delle lesioni Tizio muore “ante tempus” subito dopo la sentenza di primo grado (è vissuto tre anni da quando ha subito l'illecito); il risarcimento della IP è stato però riconosciuto in capitale secondo le prospettive di vita media (Tabella di Milano); l'appello del responsabile, che chiede la riduzione del quantum, viene rigettato in applicazione della regola posta da Cass. n. 32916/2022.

Se il Giudice di merito avesse utilizzato lo strumento “alternativo” ex art. 2057 c.c., la stessa vittima si troverebbe, con la rendita, ad avere maturato un importo largamente inferiore rispetto a quello una tantum.

Quindi lo stesso caso verrebbe trattato in modo (drasticamente) diverso; e ciò, si noti, senza che vi sia un problema di preclusioni processuali. Questo esito sarebbe il risultato di una scelta esercitata discrezionalmente dal Giudice il quale, nel momento in cui la compie, sa benissimo che ove la morte sopraggiunga in corso di giudizio, la lump sum sarà comunque “intoccabile” (appunto in base alla regola posta da Cass. n. 32916/2022), mentre la rendita cesserà. Ed allora vi è da chiedersi se si possa davvero dire che è rispettato il presupposto della “equivalenza” che dovrebbe governare il rapporto con l'art. 2057 c.c. (Cass. n. 31574/2022) quando - si ripete, senza che si debba far questione dei limiti del giudicato – l'uso di uno strumento piuttosto che dell'altro non è affatto sullo stesso piano.

Ma prima ancora, ecco il punto: se per principio (Cass. n. 32916/2022) - pur non venendo in linea di conto preclusioni processuali - il risarcimento del “biologico” non può essere proporzionalmente decurtato quando il soggetto leso muore in pendenza della lite (nell'esempio, subito dopo la sentenza di primo grado a distanza di tre anni dall'illecito), allora vuol dire che quel pregiudizio non è un “danno che matura nel tempo, ma è già stato “subíto per intero”, come se la vittima lo avesse “patito, interiorizzato, consumato” tutto in una volta nel breve periodo in cui è vissuta.

Se, infatti, fosse un “danno che matura nel tempo”, come ad es. le spese mediche future (vd. supra), il risarcimento dovrebbe arrestarsi in corrispondenza del decesso, e non andare oltre, perché altrimenti quella somma capitale (calcolata su una sopravvivenza media) andrebbe a compensare un “peso” (futuro) che la vittima non sopporterà mai (una deminutio che non si verificherà mai). E nell'esempio fatto, il Giudice –si ripete, dato che non è scattata alcuna preclusione processuale- dovrebbe aver mano libera (in caso di impugnazione del responsabile) a “riportare in asse” la situazione.

La questione fa riflettere perché se davvero il danno biologico fosse un pregiudizio che “non matura nel tempo”, “de die in diem” come afferma Cass. n. 31574/2022, ma è istantaneo, viene cioè “acquisito tutto in una volta”, l'art. 2057 c.c. non si potrebbe applicare.

Sembra però che il busillis si possa sciogliere alla luce di un'altra pronuncia, intervenuta di recente, Cass. n. 9011/2022. Nella specie il giudizio di primo grado si era concluso con una condanna del responsabile dell'illecito al pagamento della somma corrispondente alla IP accertata secondo le Tabelle, pari ad Euro 972.836,10; ma nelle more (dopo il deposito delle memorie ex art. 183 cpc.) il soggetto leso era deceduto per effetto delle lesioni senza che gli attori lo dichiarassero. Una volta al corrente dell'avvenuto exitus, il convenuto soccombente aveva chiesto in sede di gravame la riforma della sentenza, sostenendo che il danno biologico avrebbe dovuto essere parametrato alla durata effettiva della vita e non a quella media. La Corte d'appello aveva accolto il motivo e ridotto conseguentemente l'importo ad Euro 352.289,09.

Gli eredi del danneggiato censurano la decisone innanzi alla Cassazione, sostenendo che, per giurisprudenza consolidata, la decurtazione sarebbe stata possibile solo se la morte non fosse stata conseguenza delle lesioni, mentre nella specie era stato accertato il nesso.

La Corte rigetta il ricorso osservando, con ampia motivazione, che: ”In base alla costante giurisprudenza di questa Corte, il diritto al risarcimento del danno biologico, che entra a far parte del patrimonio della vittima nello stesso momento della lesione e si trasmette agli eredi secondo le comuni regole della successione "mortis causa", nel caso di decesso anteriore alla liquidazione deve essere riferito al periodo intercorso tra la data dell'incidente e quella effettiva della morte, non già ad un periodo di tempo pari alle speranze di vita della vittima stessa (Cass., Sez. 3, 27 dicembre 1994 n. 11169).

Alcune delle richiamate decisioni (anche se non tutte), nell'affermare che l'ammontare del risarcimento del danno biologico spettante ("iure successionis") agli eredi del defunto va parametrato alla durata effettiva della vita del danneggiato invece che a quella probabile, fanno espresso riferimento all'ipotesi in cui la persona offesa sia deceduta per causa non ricollegabile alla menomazione risentita in conseguenza dell'illecito.

Ma tale inciso non può certo intendersi come una sorta di "condizione" necessaria ai fini della liquidazione del danno biologico in base alla durata effettiva della vita della vittima, come pretenderebbero i ricorrenti, i quali ne vorrebbero far conseguire che, laddove il decesso dovesse intervenire - sia pure ad una certa distanza di tempo dal fatto - quale conseguenza della condotta illecita del danneggiante, agli eredi spetterebbe comunque, a titolo ereditario, il risarcimento del danno biologico causato alla vittima parametrato sulla probabilità statistica di durata della sua vita futura, sebbene l'epoca del suo decesso sia nota e la sua vita effettiva sia risultata inferiore a quella statisticamente prevedibile.

Va, al contrario, in proposito ribadito il principio di diritto per cui, anche nel caso in cui il decesso del danneggiato sia conseguenza del fatto illecito, resta sempre fermo che il danno biologico (trasmissibile iure successionis) va liquidato sulla base del periodo di tempo in concreto intercorso tra il fatto lesivo e il decesso stesso.

Ai fini della liquidazione del danno biologico, l'età assume infatti rilevanza in quanto col suo crescere diminuisce l'aspettativa di vita (sicché è progressivamente inferiore il tempo per il quale il soggetto leso subirà le conseguenze non patrimoniali della lesione della sua integrità psicofisica); pertanto, quando la durata della vita futura cessa di essere un valore ancorato alla probabilità statistica e diventa un dato noto, per essere il soggetto deceduto, il danno biologico, in quanto relativo ad un profilo dinamico e relazionale, va comunque correlato alla durata effettiva della vita, essendo lo stesso costituito dalle ripercussioni negative (di carattere non patrimoniale e diverse dalla mera sofferenza psichica) della permanente lesione della integrità psicofisica del soggetto per l'intera durata della sua vita residua (cfr. Cass., Sez. 3, Sentenza n. 22338 del 24/10/2007, Rv. 599941-01)”.

Risulta allora confermato che il danno biologico “dura nel tempo”: e questo consente di sgomberare il campo, sotto il profilo qui considerato, dai possibili dubbi circa l'applicabilità dell'art. 2057 c.c..

E in effetti è la stessa Cass. n. 31574/2022 a precisare (par. 5.3.7) che “per definizione, risarcendo il danno biologico permanente (e il danno morale ad esso conseguente, se provato), si risarciscono per equivalente tutte le conseguenze dannose dell'illecito che il danneggiato sarà costretto a sopportare, giorno per giorno, sino alla fine della sua vita; dall'altro, allo spirare dell'esistenza, di danno biologico e morale del soggetto leso non è più dato discorrere”.

Del resto, che il danno biologico maturi nel tempo sembra un dato acquisito (ed anzi un principio di fondo su cui sono costruite le stesse Tabelle di Milano), posto che in diverse altre occasioni la Cassazione non ha mancato di sottolineare come un conto sia convivere con la menomazione per il resto della vita, un altro per un più limitato periodo.

Sul punto si veda Cass. 23 febbraio 2004 n. 3549 che, con riferimento al danno biologico patito dalla vittima sopravvissuta per un apprezzabile lasso di tempo, osserva: “7.2. Assumere, come mostrano di ritenere i ricorrenti, che il risarcimento del danno biologico, cui consegua la morte, è dovuto per intero (come se il soggetto avesse raggiunto la durata di vita conforme alle speranze) nel caso in cui il decesso è conseguenza delle lesioni, non è corretto perché esclude uno degli elementi costitutivi del danno risarcibile: e cioè la durata di esso. Poiché, secondo i più recenti orientamenti, anche il danno biologico è una perdita (del bene salute), non può dar luogo allo stesso risultato risarcitorio risentire di questa perdita del bene salute nella misura del 100% per alcuni giorni/mesi o per l'intera durata della vita media”.

Sintesi e sviluppi

Applicando il principio enunciato da Cass. n. 9011/2022 dovrebbe allora essere possibile (seguendo lo stesso ragionamento fatto supra rispetto alle spese di cura) garantire l'equivalenza tra rendita e capitale.

Analogamente a quanto è stato detto con riguardo all'esempio dei costi della fisioterapia, si può infatti proporre il seguente schema, immaginando che Tizio abbia riportato una certa IP e che si tratti di liquidare il risarcimento sulla base di una prognosi futura basata sulla vita media:

  • Capitale. Se Tizio vivrà fino ad 80 anni (perché questa è la prognosi di vita Istat in assenza di elementi di segno contrario), la somma x da Tabella di Milano si sarà rivelata congrua (perché egli avrà sopportato il danno biologico per tutto il tempo previsto).
  • Rendita. Se Tizio vivrà fino ad 80 anni, la rendita calcolata “spalmando” la somma capitale per gli anni di vita presumibile garantirà l'equivalenza.

Certo, potrebbe poi succedere che il danneggiato inaspettatamente muoia -prima del giudicato -, per es. subito dopo la sentenza di primo grado - prima di aver compiuto 80 anni: e qui si pone il problema.

Infatti, a seguire Cass. n. 32916/2022 più sopra menzionata (secondo cui non si potrebbe ridurre il risarcimento per il danno biologico ove la morte intervenuta in corso di causa sia conseguenza delle lesioni) si creerebbe una distorsione perché in caso di liquidazione sotto forma di capitale il soggetto leso otterrebbe molto di più (rispetto alla parallela ipotesi della rendita).

Il problema potrebbe forse essere risolto applicando il diverso principio enunciato da Cass. n. 9011/2022, secondo cui, sia o non sia la morte causata dalle lesioni, sarà possibile (salve ovviamente le preclusioni processuali – giudicato) rivedere in senso riduttivo il risarcimento che sia stato riconosciuto come lump sum (e verosimilmente il metodo da utilizzare sarà la proporzione).

Ma il fatto stesso che esistano decisioni di segno opposto (Cass. n. 32916/2022 e Cass. n. 9011/2022) fa sorgere qualche dubbio sulla possibilità di applicare “linearmente” l'art. 2057 c.c.: si potrebbe infatti dire che, nella prospettiva di Cass. n. 32916/2022, il “modello operativo” più sopra descritto con riguardo al danno patrimoniale futuro - al quale il legislatore ha pensato quando è stata introdotta la norma - non è qui replicabile (non c'è sovrapponibilità).

E se lo schema corrispondente all' ipotesi “tipica” prevista dall'art. 2057 c.c. non funziona allo stesso modo quando lo si voglia estendere al danno biologico, allora ciò vuol dire che, forse, la rendita non è qui utilizzabile (o almeno non lo è con “disinvoltura”).

Si potrebbe peraltro aggiungere che, nelle ipotesi in cui la morte (avvenuta in corso di giudizio) è stata conseguenza delle lesioni, probabilmente era già possibile prevedere prima che la vittima sarebbe vissuta di meno. Se é così, in questi casi la somma capitale ritenuta congrua per compensare il danno biologico dovrebbe essere sin dall'inizio “tarata” in funzione della speranza di vita in concreto (“per quanto tempo sarai costretto a sopportare la menomazione? non per altri 40 anni come da statistiche Istat, ma solo, per es., per 3”), e la rendita a sua volta dovrebbe essere “parametrata” su tale minor tempo. Così, per esempio, se si ritiene che la IP che il soggetto deve sopportare per la sua vita residua (es. per ulteriori 3 anni) “vale” Euro 500.000=, la rendita andrà calcolata in modo tale che al termine del 3° anno il leso possa ottenere un importo corrispondente.

Queste considerazioni consentono di introdurre il tema di cui al paragrafo che segue, nel quale si prenderà in esame il caso deciso da Cass. n. 31574/2022.

Il caso deciso da Cass. 31574/2022

L'aspetto che desta qualche perplessità – almeno se si considera il risvolto “pratico” – nella decisione della Cassazione n. 31574/2022 attiene alle modalità di calcolo: nella specie, pur dandosi atto della minor aspettativa di sopravvivenza del minore, la Corte ritiene corretto che la rendita sia determinata prendendo come riferimento la presumibile durata della vita secondo le statistiche ordinarie.

Ma è chiaro che un conto è “spalmare” l'importo di Euro 1.221.355,00 su 80 anni, un altro è farlo su 10 (immaginiamo che sia questa la prognosi “concreta”).

Dato che il decesso (del tutto probabilmente) interverrà dopo un periodo più breve rispetto a quello “medio” indicato dall' Istat, la conseguenza è che il danneggiato otterrà un risarcimento di gran lunga inferiore a quello che gli verrebbe invece liquidato sotto forma di capitale.

Vi è da chiedersi se tale modalità di calcolo sia davvero coerente con quel principio di equivalenza che la stessa Cass. n. 31574/2022 ha inteso rimarcare quando ha sottolineato: ”6.2. Osserva il collegio che, riconosciuta al giudice di merito la facoltà di liquidare il danno in forma di rendita (..), incombe poi su quello stesso giudice l'onere di assicurare che la rendita restituisca un valore finanziariamente equivalente al capitale da cui è stata ricavata, per l'intera durata della vita del beneficiario”.

La risposta parrebbe negativa, tanto più che nella specie l'esito sembra addirittura iniquo in considerazione del fatto che, quando il Giudice provvede alla liquidazione e dunque sceglie tra una tantum e art. 2057 c.c., la minor vita è del tutto prevedibile. Quindi il trattamento (a seconda che si opti per capitale o rendita) è “consapevolmente” differenziato.

Se è probabile che Tizio, per effetto delle lesioni, morirà molto prima delle statistiche ordinarie, una volta stabilito che il suo danno (cioè quello che sopporterà fino all'ultimo giorno, ossia poniamo per 10 anni) “vale” più di un milione di euro (somma ritenuta congrua proprio in ragione del fatto che quel vulnus ha ridotto drasticamente le sue aspettative di vita), il conteggio dovrebbe essere effettuato in modo tale da far sì che al (presumibile) termine della vita (qui nell'esempio, al 10 anno) la vittima ottenga lo stesso compendio che avrebbe ricevuto sotto forma di capitale (quest'ultimo andrebbe allora “ripartito” su 10 e non su 80). In questo modo, a parere di chi scrive, il Giudice assolverebbe “l'onere di assicurare che la rendita restituisca un valore finanziariamente equivalente al capitale da cui è stata ricavata, per l'intera durata della vita del beneficiario”.

Nel caso considerato da Cass. n. 31574/2022 non pare che nel giudizio di merito sia stato possibile stimare in modo specifico la sopravvivenza.

Ma il fatto è che, secondo la più attenta ed accreditata medicina legale (sul punto, il dott. L. Mastroroberto inizierà, a breve, un dibattito su questa Rivista), è oggi possibile stabilire la presumibile durata della vita di un macroleso (a seconda dell'età e delle funzionalità conservate) perché esistono delle statistiche elaborate a livello internazionale sulla base di una casistica specifica.

E se è così, allora pare a chi scrive che il problema potrebbe essere risolto in termini diversi rispetto a quelli indicati da Cass. n. 31574/2022: la rendita dovrebbe essere calcolata tenendo conto della “prognosi concreta” e non di quella astratta media.

Così, ove pure si voglia dire che, nonostante la ridotta aspettativa di vita, la somma dovuta a titolo di capitale per il risarcimento del danno non patrimoniale deve comunque essere di 1.200.000,00 (valore della Tabella di Milano previsto in relazione alla sopravvivenza media -ma sul punto si tornerà tra poco), nel calcolo della rendita quell'importo andrà “spalmato” non su 80 ma (nell'esempio di cui sopra) su 10: qui, quella equivalenza di cui si è più volte parlato sembrerebbe poter essere garantita (al termine della sua vita, al 10 anno, la vittima si troverebbe ad ottenere lo stesso compendio che le sarebbe riconosciuto con l'una tantum).

Le “connessioni” tra Cass. 31574/2022 con il “rischio latente” di cui a Cass. 26118/2021

Al paragrafo 5.3.1. la Cassazione n. 31574/2022 condivide la decisione di seconde cure nella parte in cui ha respinto la richiesta del responsabile volta ad ottenere la riduzione della somma capitale (calcolata sulla base della Tabella di Milano per un neonato macroleso) in ragione delle minori speranze di vita: “Nel caso di specie la Corte territoriale ha tenuto fermo , confermandolo, l'importo liquidato in prime cure (1.219.355 Euro) come base di calcolo: allorché si tratti di determinare il capitale da cui ricavare la rendita, la minore speranza di vita della vittima non viene in rilievo, e nessun vantaggio ne trarrebbe il responsabile, qualora quella minor speranza di vita sia stata determinata, come nella fattispecie, dalla sua condotta illecita”.

Questo passaggio fa venire alla mente un'altra pronuncia della Cassazione, che però non sembra perfettamente allineata.

Il riferimento è a Cass. n. 26118/2021 che, nell'indicare i criteri di determinazione della somma capitale per il caso di ridotta aspettativa di vita, ha affermato quanto segue: ”In tema di liquidazione del danno alla persona, il cd. "rischio latente" - cioè, la possibilità che i postumi, per la loro gravità, provochino un nuovo e diverso pregiudizio consistente in una ulteriore invalidità o nella morte "ante tempus" - costituisce una lesione della salute del danneggiato, da considerare nella determinazione del grado percentuale di invalidità permanente secondo le indicazioni della medicina legale: ne consegue che, qualora il grado di invalidità sia determinato tenendo in conto detto rischio, il danno biologico va liquidato in relazione alla concreta minore speranza di vita del danneggiato e non della durata media della vita; se, invece, il "rischio latente" non è stato incluso nella determinazione del grado percentuale di invalidità permanente (o perché non contemplato dal barème utilizzato o per omissione del consulente), il giudice deve tenerlo in considerazione maggiorando la liquidazione in via equitativa, anche scegliendo il valore monetario del punto di invalidità previsto per una persona della medesima età della vittima e, dunque, in base alla durata media nazionale della vita, anziché alla speranza di vita del caso concreto. A mero titolo di esempio, ciò sarà possibile nei casi più gravi, e cioè quando massimo è il divario tra la vita attesa secondo le statistiche mortuarie, e la concreta speranza di vita residuata all'infortunio”.

La pronuncia in esame ha altresì precisato che il “rischio latente” “consiste nella possibilità, oggettiva e non ipotetica, che l'infermità residuata all'infortunio possa improvvisamente degenerare in un futuro tanto prossimo quanto remoto, e differisce dal mero peggioramento dipendente dalla naturale evoluzione dell'infermità. Il peggioramento è la naturale evoluzione fisiologica dei postumi; il rischio latente è invece la possibilità che i postumi provochino a loro volta un nuovo e diverso danno, che può consistere tanto in una ulteriore invalidità, quanto nella morte”.

Non è questa la sede per una disamina della sentenza; tuttavia, sembra che l'indicazione contenuta nella prima parte della massima (il danno biologico va liquidato tenendo conto della minor speranza di vita, previa maggiorazione della IP) sia di non facile applicazione se riferita ai casi analoghi a quello oggetto di lite, ossia a neonati che subiscono gravissimi postumi.

Nella fattispecie considerata da Cass. n. 26118/2021, i CTU avevano riconosciuto il 91% di IP, ma non era chiaro per la Corte se i consulenti tecnici avessero o no tenuto conto del rischio di anticipata morte (ragion per cui il motivo è stato dichiarato, alla fine, inammissibile); sul punto la medicina legale ha però criticamente osservato: “Ci si domanda, trattandosi presumibilmente di un caso di “cerebrale palsy”, che se l'avessero fatto avrebbero dovuto valutare il danno biologico nella misura del 120 o 150% (?)” (F. Marozzi, “Cassazione, il rischio latente. Cosa dovrebbe fare il medico legale”, www.simlaweb.it).

Ad ogni modo, la seconda regola (sussidiaria) enunciata da Cass. n. 26118/2021 consente al Giudice di liquidare il risarcimento in base al valore monetario del punto di invalidità previsto per una persona della medesima età della vittima (e dunque per es., oltre un milione di euro secondo la tabella di Milano, per una IP del 90% in un neonato). E ciò proprio nelle ipotesi in cui sia massimo il divario tra la vita attesa (80 anni Istat) e la concreta speranza di vita (es. 30 anni).

Quello che occorre rimarcare ai fini delle presenti note è che per la Cortela possibilità che le lesioni inferte provochino la morte "ante tempus" è un pregiudizio a sé, che va adeguatamente “monetizzato”, attraverso una apposita maggiorazione.

L'aspetto su cui occorre soffermare l'attenzione è che il rischio latente non è un peggioramento, non si tratta cioè di una compromissione che, giorno dopo giorno, si aggrava e diviene più “pesante, limitante e prostrante”, ma è un evento nuovo che potrebbe manifestarsi “in un futuro prossimo tanto remoto”. È, insomma,semplicemente, la possibilità di morire prima del tempo.

Se fosse così, si dovrebbe concludere che la IP che il soggetto (es. neonato macroleso) sopporterà fino al momento prima dell'exitus (es. sino al 30 anno) è uguale, in termini di disfunzionalità e conseguenze dinamico relazionali, a quella parimenti patita da chi ha uno stesso grado di invalidità ma non corre pericolo di morte (e dunque vivrà sino ad 80 anni). L'uno e l'altro avranno sopportato, sino al 30 anno, lo stesso “peso”.

Il “danno” del bambino, tuttavia, viene pagato in egual misura, anche se più breve è il tempo per il quale egli avrà dovuto convivere con quella menomazione (30 anni anziché 80).

E allora- se non ci si inganna - quel quid pluris (“in considerazione del rischio latente ti liquido comunque un milione e duecentomila Euro”) va a compensare qualcosa di diverso dal danno alla salute (che abbiamo appunto visto essere identico).

E a parere di chi scrive questo aliquid pluris altro non è se non un risarcimento per gli anni di vita (che verranno) persi. Il tutto con buona pace del principio enunciato da Cass. sez. un., 22 luglio 2015, n. 15350.

Probabilmente, la tesi per cui il rischio latente riferito al decesso ante tempus è un danno a sé cui deve corrispondere un adeguato risarcimento nasconde una considerazione di fondo: quella per cui la lesione che è in grado di anticipare la morte (rispetto alle statistiche) è più grave, e non la si può risarcire di meno. E, se si vuole, è proprio ciò che afferma Cass. n. 31574/2022 laddove osserva (par. 6.5) che il Giudice dovrà procedere in concreto “ a) a quantificare il danno in somma capitale, avuto riguardo all'età della vittima al momento del sinistro, sulla base delle tabelle di mortalità e senza tener conto della sua eventuale ridotta aspettativa di vita, qualora quest'ultima risulti conseguenza dell'illecito”.

La piccola vittima di malpractice non vivrà 80 anni, ma molti meno, eppure le viene liquidato, in capitale, il danno corrispondente ad un soggetto della stessa età secondo le Tabelle, senza decurtazioni.

A voler portare fino in fondo queste riflessioni, si potrebbe allora arrivare a dire che quel surplus di risarcimento che viene riconosciuto al neonato va a coprire un danno che consiste (richiamando il concetto di “rischio latente”) nella perdita delle possibilità di sopravvivere sino all'età “media”.

Ma ecco il punto: privare taluno della speranza di vita (secondo le statistiche) è un danno istantaneo perché si consuma subito: è nel momento stesso in cui viene inferta la lesione (o comunque in cui si stabilizza la IP) che a quel soggetto vengono tolte le sue possibilità (di giungere agli 80 anni tanto per stare all'esempio).

E se è così, allora l'art. 2057 c.c. non è più applicabile, perché quel pregiudizio non è permanente: e la conseguenza è che quella somma capitale di oltre un milione di euro non può essere (tutta) trasformata in rendita.

E val la pena aggiungere che, in una prospettiva diacronica (come se si spostasse in avanti l'orologio), a seguire Cass. n. 31574/2022 si arriverebbe a questo risultato: se il decesso dovesse per es. verificarsi in corso di causa (prima delle preclusioni processuali), a quel neonato si dovrebbe liquidare la sua IP “intera”, senza riduzioni (contrariamente a quanto affermato da Cass. n. 9011/2022 citata in precedenza al paragrafo 4). Invero, se prima ancora dell'exitus, ed anzi proprio in considerazione del suo probabile verificarsi ante tempus, la regola posta da Cass. n. 31574/2022 vuole che il capitale si liquidi per intero, non si potrebbe ovviamente procedere alla sua proporzionale decurtazione ex post.

Semmai, una via di uscita potrebbe essere quella di sostenere che quel maggior risarcimento corrisponde alla più intensa sofferenza che prova chi abbia la consapevolezza che lesione lo porterà alla morte “ante tempus”, come se fosse “una lucida agonia” che dura anni finché non interverrà l'exitus. Ma tale prospettiva (che presuppone la coscienza) non è spendibile per il caso del neonato cerebroleso.

Il danno morale

Qualche dubbio sull'applicabilità dell'art. 2087 c.c. potrebbe porsi anche con riguardo al risarcimento del danno morale conseguente ad una gravissima lesione. Si potrebbe anche ritenere che qui il pregiudizio sia in buona parte istantaneo, almeno nel senso che, all'inizio, la sua intensità è spaventosa perché travolge ed annienta, e poi (forse), col tempo, si attenua. È una sorta di ibrido?

Si pensi al momento in cui la persona acquisisce la consapevolezza del proprio stato menomato e si vede “finita” perché sa che resterà così per il resto della vita: viene da chiedersi se la sofferenza non abbia qui rivelato, nell'istante stesso di questa rappresentazione, tutta la propria mostruosa ed insostenibile penosità.

E vi è allora da chiedersi se questo danno non sia assimilabile a quello che la dottrina non dubita di poter definire come “istantaneo”: “Si dicono istantanei i danni che, prodottisi una volta, non possono più ripetersi (ad es. il crollo di un immobile); permanenti invece sono detti i danni che, per la particolare natura del bene su cui cadono, sono destinati a prodursi giorno per giorno (ad es. il danno da concorrenza sleale, che perdura sinché non cessi la condotta, od il danno da invalidità permanente)” (M. Rossetti, Commentario del codice civile diretto da E. Gabrielli, Dei fatti Illeciti, Libro IV, Titolo IX, sub art. 2057 c.c., 591).

Non vede, forse, la vittima di una gravissima lesione “crollargli la vita davanti”?

Del resto, in tal senso parrebbero deporre quelle pronunce, di cui una molto recente (Cass. 13 aprile 2022 n. 12060, che richiama Cass. 9 agosto 2001 n. 10980) secondo cui: ”Ai fini del risarcimento del danno da fatto illecito, il danno non patrimoniale, quale sofferenza patita dalla sfera morale del soggetto leso, deve considerarsi verificato nel momento stesso in cui l'evento dannoso si realizza (o, nel caso di diffamazione, nel momento in cui la parte lesa ne viene a conoscenza), pur dovendosi tener conto della natura istantanea o permanente dell'illecito, o della sua reiterazione. Ne consegue che la liquidazione del danno deve effettuarsi con riferimento al momento dell'evento dannoso ed alle caratteristiche indicate, mentre non incidono su di essa fatti ed avvenimenti successivi, quale la morte del soggetto leso” (nella specie la Corte ha accolto il motivo con cui gli eredi della vittima del sinistro avevano censurato la decisione del giudice di appello che, in ragione della sopravvenuta morte del danneggiato, aveva ridotto il risarcimento spettante per il danno morale).

Conclusioni

Con la sentenza Cass. n. 31574/2022 la Cassazione ha fatto una scelta coraggiosa: l'aspetto che, a parere di chi scrive, va salutato con favore attiene al fatto di aver puntato i riflettori su uno strumento alternativo che in molti casi – se utilizzato adeguatamente – potrebbe effettivamente costituire un rimedio preferibile alla liquidazione una tantum.

Il risarcimento in forma di capitale pone infatti spesso problemi, già solo sul piano pratico (ed a prescindere dai timori che la stessa Corte esprime in merito ad un impiego non virtuoso da parte dei congiunti in situazioni particolari).

Gli stessi famigliari della persona macrolesa sono chiamati ad un compito difficilissimo, per il quale nella maggior parte dei casi non sono preparati, perché devono intercettare, capire e prevedere i bisogni (anzitutto quelli materiali, concreti, quotidiani) del proprio caro. Di fronte ad una ingente somma erogata una tantum si trovano talora disorientati perché non sanno come gestirla al meglio; e ciò anche a causa della mancanza di quelle competenze specifiche necessarie per orientare le scelte e le decisioni (ad es. nella individuazione dei percorsi terapeutici, delle strutture specializzate, della migliore assistenza ecc.).

Non è detto, insomma, che l'erogazione di una “lump sum” sia sempre la via “maestra”.

Ed il dibattito che la Cassazione ha aperto su questo tema potrebbe forse essere il punto di partenza per un ripensamento a tutto tondo, che porti a valutare altre prospettive, tra cui per es. anche quella del risarcimento in forma specifica (attraverso la previsione di una figura come il “Case manager”), nell'ottica di una più corretta e funzionale utilizzazione delle risorse economiche messe a disposizione del soggetto danneggiato.

Quanto alla rendita, pare a chi scrive che non si pongano problemi insolubili laddove la si voglia utilizzare per il danno patrimoniale; anzi, in molte ipotesi essa potrebbe in effetti presentarsi come una soluzione equilibrata, tarata sulle effettive necessità dell'interessato. Rispetto al “biologico” ed al “morale” il discorso sembra, invece, più complicato, perché costringe l'interprete a fare i conti con alcune questioni che, a monte, nelle stesse trame scritte dalla giurisprudenza di legittimità, non sembrano ancora del tutto chiare e definite.

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