Il danno parentale agli eredi va ridotto tenendo conto della durata effettiva della vita?

Ludovico Berti
30 Gennaio 2023

Nell'ipotesi in cui un congiunto di un soggetto che abbia subito gravi lesioni in conseguenza del fatto illecito altrui muoia nelle more del giudizio instaurato nei confronti del responsabile, il danno da lesione del rapporto parentale che si trasferisce agli eredi che abbiano riassunto il giudizio, va ridotto tenendo conto della durata della vita effettiva attraverso l'applicazione del criterio proporzionale stabilito da Cass. 41933/2021?

Trattandosi di danno morale e non di danno biologico, il risarcimento del danno parentale non deve essere ridotto in proporzione alla durata effettiva della vita e va liquidato per intero.

Nessuna pertinenza con il caso prospettato nel quesito ha il criterio proporzionale previsto da Cass. 41933/2021 per la liquidazione del danno da premorienza che, come spiegato nel mio Focus dell'8 marzo 2022 dal titolo “Morte non causata dalle lesioni: i criteri di liquidazione del danno da premorienza fra tabelle pretorie e principi giurisprudenziali dopo Cass. 41933/2021”, riguarda la liquidazione del danno biologico, oggi definito dinamico-relazionale.

Infatti, il danno biologico alla salute viene liquidato attraverso tabelle che tengono conto dell'età della vittima ritenendosi che il danno sia tanto maggiore quanto minore sia l'età di chi lo subisca, perché per più tempo una vittima giovane dovrà convivere con la menomazione.

Per tale motivo il valore monetario del punto di invalidità è ricavato da una funzione che tiene conto dell'età della vittima al momento del sinistro e presuppone che essa vivrà per tutta la durata media della vita (82 per gli uomini ed 85 per le donne) convivendo con quella menomazione.

Ne consegue che nel caso in cui la vittima deceda per cause diverse dalla lesione, il periodo di tempo durante il quale il danneggiato ha convissuto con i postumi conseguenti alla lesione costituisce un dato noto, sicché nella aestimatio del danno si deve tener conto non della vita media futura presumibile della vittima, ma della vita effettivamente vissuta (fra le varie si veda Cass., n. 489/1999; Cass. n. 14767/2003; Cass. n. 22338/2007; Cass. n. 2297/2011; Cass. n. 23739/2011; Cass. n. 679/2016; Cass. n. 12913/2020. Unico precedente contrario Cass. n. 8294/2003), attraverso appunto l'applicazione del criterio proporzionale da ultimo indicato da Cass. n. 41933/2021.

Nella fattispecie di cui al quesito si ha invece a che fare con il danno parentale subito da un soggetto in conseguenza della grave lesione che ha colpito un suo congiunto (ma la questione è sovrapponibile all'ipotesi di perdita del congiunto) e quindi – sostanzialmente – con un danno morale o, come oggi definito, un danno da sofferenza soggettiva.

La più recente ed ormai pacifica giurisprudenza(mi riferisco tra le varie a Cass. 11 novembre 2019 n. 28989) ritiene, infatti, che:

  • il danno da perdita o lesione del rapporto parentale si compone dell'interiore sofferenza morale soggettiva e di quella riflessa sul piano dinamico-relazionale;
  • costituisce un'indebita duplicazione risarcitoria la liquidazione congiunta del danno morale soggettivo e del danno da perdita del rapporto parentale.

Nessun dubbio, poi, possiamo oggi sollevare in merito all'autonomia accertativa e liquidativa del danno da sofferenza rispetto al danno dinamico relazionale (fra tutte Cass. n. 7513/2018), sicché appare illogico poter ritenere che i criteri liquidativi previsti per un determinato danno possano essere utilizzati anche per la liquidazione di un danno diverso.

Difatti, mentre per la liquidazione del danno biologico ci si rifà alle citate tabelle che tengono appunto conto di quanto tempo la vittima dovrà convivere con la menomazione, per il danno parentale la liquidazione avviene attraverso un criterio logico-presuntivo proporzionale alla gravità della lesione (Cass. n. 25164/2020) che comporta di considerare tutte le circostanze che attengono alle persone coinvolte ed al legame tra di loro esistente, quali, ad esempio, la maggiore o minore prossimità del legame parentale, la qualità dei legami affettivi, la sopravvivenza di altri congiunti, la convivenza o meno col danneggiato, l'età delle parti (fra le varie Cass. civ., sez. III, 26 febbraio 2021, n. 5417; Cass. sez. III, 11 novembre 2019, n. 28989) e quindi elementi dimostrativi del legame fra vittima primaria e secondaria dai quali – poi - presumere la sofferenza.

A prescindere da tali considerazioni di principio, comunque già idonee a supportare la risposta negativa al quesito posto, la questione è stata di recente chiarita della Cass. civ. sez. VI, 13 aprile 2022, n. 12060(oggetto del mio Focus, sempre su questa rivista, da titolo “La liquidazione del danno morale prescinde dalla durata della sopravvivenza: possibili riflessi sui criteri di liquidazione tabellari e giurisprudenziali”), che ha – appunto - affrontato il tema della rilevanza della durata della vita con riferimento alla liquidazione del danno da sofferenza soggettiva, affermando che, contrariamente al danno alla salute cd. biologico che attenendo alle vicende dinamico-relazionali della vita del danneggiato destinate a proiettarsi nel futuro, soggiace ad un criterio di liquidazione che tiene necessariamente conto della durata effettiva della vita del soggetto, la sofferenza patita dalla sfera morale del leso,si verifica nel momento stesso in cui l'evento dannoso si realizza, sicché nella sua liquidazione si deve far riferimento al momento dell'evento dannoso ed alle caratteristiche indicate, mentre non vi incidono fatti ed avvenimenti successivi, quali la morte del soggetto leso(in realtà il principio come riportato nella richiamata sentenza era già stato affermato da Cass. n. 10980/2001 ed anche da più risalenti precedenti come Cass. n. 2491/1993 e Cass. n. 3100/1983).

Ne consegue che il riferimento “alla durata della sofferenza” che sovente si legge nelle decisioni che affrontano il tema della personalizzazione del danno da sofferenza soggettiva (v. fra le varie Cass. n. 21060/2016; Cass. n. 16993/2015; Cass. sez. lav. n. 2251/2012; Cass. sez. lav. n. 1072/2011), “non deve intendersi come correlato alla permanenza in vita del danneggiato, ma quale parametro dell'intensità, e cioè dei termini nei quali la sofferenza è rimasta permanente nel tempo o ha subito evoluzioni”, dovendosi escludere “che il valore dell'integrità morale possa stimarsi in una mera quota minore del danno alla salute” e di poter ricorrere “a meccanismi semplificativi di tipo automatico”, come a suo tempo sancito dalla richiamata Cass. n. 1361/2014.

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