L'efficacia vincolante della sentenza è, di regola, limitata alla sola ratio decidendi (nel diritto americano è più frequente l'espressione “holding”, utilizzata sempre per indicare la statuizione universale – ruling - che definisce la questione sollevata davanti alla corte), che va estrapolata sulla base di un procedimento logico di tipo induttivo, ossia agli argomenti essenziali addotti dal giudice per giustificare la decisione del caso a lui sottoposto.
Le rimanenti parti della sentenza, ossia le argomentazioni non essenziali per la decisione, costituiscono i cosiddetti obiter dicta, ai quali non è riconosciuta efficacia vincolante, ma solo persuasiva, in ragione della solidità delle argomentazioni su cui sono fondate.
Il principio dello stare decisis non è, di regola, presente nei sistemi di civil law (l'art. 5 del codice civile francese addirittura proibisce l'uso di decisioni come precedenti, tanto che la Cour de Cassation non cita mai nei propri giudizi le decisioni precedenti), anche se alcuni di questi ordinamenti prevedono una sorta di vincolatività dei precedenti desumibili dalle sentenze delle corti supreme, le quali svolgono una "funzione nomofilattica" (E. SCODITTI, Giurisdizione per principi e certezza del diritto, su Questione giustizia n. 4/2018, 24). In queste evenienze, peraltro, al contrario delle norme di common law, non si è in presenza di un obbligo di reiterazione (per un'analisi diffusa delle varie questioni si rinvia a G. GORLA, I Tribunali Supremi degli stati italiani, fra i secoli XVI e XIX, quali fattori della unificazione del diritto nello stato e della sua uniformazione fra stati, in La formazione storica del diritto moderno in Europa, I, Firenze, 1977, e A. PIZZORUSSO, La motivazione delle decisioni della Corte Costituzionale: comandi o consigli?, in Riv. trim. dir. pubbl., 1963; mentre per il primo il valore non vincolante, ma "persuasivo", sempre però giuridicamente rilevante, spetterebbe non al singolo precedente, ma alla "giurisprudenza" della Cassazione - in genere, e non delle sue sole Sezioni Unite - e cioè ad un insieme di decisioni "fra loro conformi e senza dissensi rispetto ad altre", per il secondo, invece, esso sarebbe proprio di ogni singola pronunzia).
Invero, la singola sentenza - oltre a decidere il caso di specie - può qui avere una più o meno incisiva forza persuasiva, in genere promanante dall'autorità del giudice che l'ha emanata e, ancor di più, dalla solidità della linea argomentativa seguita (in senso favorevole al vincolo del precedente si sono espresse Cass. 13 maggio 1983, n. 3275, Cass. 3 dicembre 1983, n. 7248, e Cass. civ., 30 luglio 1986, n. 4895; più di recente merita di essere segnalata Cass., sez. III, 11 gennaio 2007, n. 395, a mente della quale “Deve ritenersi adeguatamente motivata e, per l'effetto, incensurabile in sede di legittimità sotto il profilo di cui all'art. 360, comma 1, n. 5), c.p.c., la sentenza del giudice del merito che rigetti una tesi giuridica prospettata dalla parte qualificandola erronea in applicazione di un principio enunciato dalla giurisprudenza della Corte di cassazione, trascrivendo il principio stesso e richiamando gli estremi delle pronunce invocate”.).
Nel contesto nel nostro sistema giuridico, il primo richiamo di un segnale in tal senso non può che essere operato al primo comma dell'art. 384 c.p.c., in base al quale la Corte di cassazione, «quando decide il ricorso proposto a norma dell'art. 360, comma 1, n. 3, e in ogni altro caso in cui, decidendo su altri motivi del ricorso, risolve una questione di diritto di particolare importanza deve enunciare il principio di diritto».
Il precedente rimane in questo caso, tuttavia, un insieme di fatto e diritto, contenendo altresì la risoluzione di questioni giuridiche ad esso inerenti (sul rapporto tra presupposti di fatto e principio di diritto, cfr. M. MORELLI, L'enunciazione del principio di diritto, in M. Acierno, P. Curzio, A. Giusti, La Cassazione civile. Lezioni dei magistrati della Corte suprema italiana, II ed., Bari, 2015, 425 ss.).
Il principio di diritto, ai sensi dell'art. 363, comma 3, c.p.c., «può essere pronunciato dalla Corte anche d'ufficio, quando il ricorso proposto dalle parti è dichiarato inammissibile, se la Corte ritiene che la questione decisa è di particolare importanza». In tal caso, la pronuncia della Corte non ha effetto sul provvedimento del giudice di merito (quarto comma; sul rapporto tra precedente e principio di diritto cfr. A. PROTO PISANI, Il precedente nella giurisprudenza, in Foro it., 2017, V, 277 ss., specie § 2).
Ancora, ai sensi del primo comma della medesima disposizione, «Quando le parti non abbiano proposto ricorso nei termini di legge o vi abbiano rinunciato, ovvero quando il provvedimento non è ricorribile in Cassazione e non è altrimenti impugnabile, il procuratore generale presso la Corte di cassazione può chiedere che la Corte enunci nell'interesse della legge il principio di diritto al quale il giudice di merito avrebbe dovuto attenersi».
Principi analoghi valgono per la giustizia amministrativa, atteso che il quinto comma dell'art. 99 c.p.a. stabilisce che: «Se ritiene che la questione è di particolare importanza, l'adunanza plenaria può comunque enunciare il principio di diritto nell'interesse della legge anche quando dichiara il ricorso irricevibile, inammissibile o improcedibile, ovvero l'estinzione del giudizio. In tali casi la pronuncia dell'adunanza plenaria non ha effetto sul provvedimento impugnato».
Solo in un caso il giudice è tenuto a conformarsi al precedente (recte, alla pronuncia della Suprema Corte).
Ai sensi del secondo comma dell'articolo 384 c.p.c., la Corte di cassazione, «quando accoglie il ricorso, cassa la sentenza rinviando la causa ad altro giudice, il quale deve uniformarsi al principio di diritto e comunque a quanto statuito dalla Corte». Se il giudice di merito destinatario del rinvio non si uniforma, la sua sentenza potrà essere impugnata in Cassazione. Al di fuori di questa ipotesi, poiché il giudice, in un altro processo, non può essere sanzionato per il fatto di non essersi uniformato ad un precedente e il suo provvedimento non può essere impugnato, e tanto meno annullato, per il fatto in sé che non sia conforme ad un precedente, si è, a ben vedere, in presenza di una pronuncia avente un'efficacia (non vincolante, ma) meramente “dissuasiva” (o di moral suasion), data la particolare autorevolezza dell'organo (funzionalmente preposto alla nomofilachia e collocato al vertice del sistema delle impugnazioni) da cui promana (v. P. CURZIO, Il giudice ed il precedente, in Giustizia civile, n. 4/2018, 37 ss.). Pertanto, nel caso in cui, nel decidere un caso identico o, almeno, simile, intenda discostarsi dal “precedente” (essendo la valutazione cambiata nel tempo o essendo state introdotte o modificate altre disposizioni in qualche modo correlate o, ancora, essendo mutato semplicemente il contesto culturale e/o sociale), dovrà specificare le ragioni della sua scelta (M. TARUFFO, Aspetti del precedente giudiziale, in Criminalia, 2014, 50 ss., afferma che «il giudice è obbligato a giustificare adeguatamente la sua decisione quando sceglie di non uniformarsi al precedente»).
Va altresì ricordato che, in base all'art. 374, comma 3, c.p.c.: “Se la sezione semplice ritiene di non condividere il principio di diritto enunciato dalle sezioni unite, rimette a queste ultime, con ordinanza motivata, la decisione del ricorso”. Da ciò si evince che, in caso di dissenso, la scelta di modificare un orientamento assunto dalla Corte a sezioni unite spetta esclusivamente alle stesse sezioni unite (sul rapporto tra sezioni semplici e sezioni unite, cfr. R. RORDORF, La nomofilachia nella dialettica sezioni semplici-sezioni unite e Cassazione-Corte costituzionale, in M. Acierno, P. Curzio, A. Giusti, La Cassazione civile, cit., 537 ss.). In definitiva, il dissenso delle sezioni semplici deve essere motivato e deve esprimersi non direttamente, ma mediante la richiesta di un nuovo intervento delle sezioni unite. Va altresì ricordato che, in base al secondo comma dell'art. 374 c.p.c., “… il primo presidente può disporre che la Corte pronunci a sezioni unite sui ricorsi che presentano una questione di diritto già decisa in senso difforme dalle sezioni semplici, e su quelle che presentano una questione di massima di particolare importanza”, in tal guisa conferendo al Primo Presidente un penetrante potere di iniziativa motu proprio.
Ancora. Nella motivazione delle decisioni si sollecita il richiamo dei precedenti conformi. Invero, l'art. 118 disp. att. c.p.c., nel fissare le regole della motivazione della sentenza, richiede l'esposizione «dei fatti rilevanti della causa e delle ragioni della decisione, anche con riferimento ai precedenti conformi». A sua volta, l'art. 348-ter c.p.c., nel disciplinare l'ordinanza di inammissibilità dell'appello che non ha ragionevole probabilità di essere accolto, invita il giudice a fare «riferimento a precedenti conformi».
In ambito lavoristico, l'art. 420-bis c.p.c. prevede la possibilità per il giudice di primo grado, qualora per decidere una controversia si debba interpretare una clausola di un contratto collettivo nazionale, di adottare subito la decisione, emanando una sentenza sulla questione pregiudiziale, impugnabile direttamente con ricorso per Cassazione (sentenza «impugnabile soltanto con ricorso immediato in Cassazione»; cfr. G. IANNIRUBERTO, L'accertamento pregiudiziale sull'interpretazione, validità ed efficacia dei contratti collettivi, in G. Ianniruberto e U. Morcavallo (a cura di), Il nuovo giudizio di cassazione, II ed., Milano, 2010, 111 ss.). La pronuncia della S.C. avrà efficacia vincolante nello specifico processo, perché il giudice del merito al quale ritornerà la causa dovrà decidere conformandosi alla soluzione del problema interpretativo (o di efficacia o invalidità) adottata dalla Cassazione, ma si rifletterà anche su altri processi in cui la questione si riproponga. In base al combinato disposto dell'art. 420-bis c.p.c. e dell'art. 64 del dlgs. n. 165/2001, le sezioni unite hanno, infatti, affermato (Cass., sez. un., 23 dicembre 2010, n. 20075) che «la sentenza della Corte resa sulla questione pregiudiziale reca, per i giudici di merito diversi da quello che ha pronunciato la sentenza impugnata in Cassazione, un vincolo procedurale, nel senso che costoro, ove non intendano uniformarsi alla pronuncia della Corte, devono provvedere, ma con sentenza emessa ai sensi dell'art. 420-bis c.p.c., in modo da consentire alle parti il ricorso immediato e la verifica, da parte del giudice di legittimità, della correttezza della diversa opzione interpretativa seguita».
È stato, inoltre, introdotto l'art. 360-bis c.p.c., intitolato «Inammissibilità del ricorso», il cui punto n. 1 così dispone: Il ricorso è inammissibile «quando il provvedimento impugnato ha deciso le questioni di diritto in modo conforme alla giurisprudenza della Corte e l'esame dei motivi non offre elementi per confermare o mutare l'orientamento della stessa». Da ciò consegue che, se la soluzione adottata dal giudice di merito è conforme alla giurisprudenza della Cassazione, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile, salvo l'esito di un secondo passaggio, concernente la valutazione degli elementi offerti dal ricorrente per indurre la Corte a mutare il suo orientamento (cfr., sul punto, Cass., sez. un., 21 marzo 2017, n. 7155). A tal riguardo, merita di essere segnalata la recente Cass., sez. III, 9 settembre 2022, n. 26619, secondo cui “anche un solo precedente, se univoco, chiaro e condivisibile, integra l'orientamento della giurisprudenza della Suprema Corte di cui all'art. 360-bis, n. 1, c.p.c., con conseguente dichiarazione di inammissibilità del relativo ricorso per cassazione che non ne contenga valide critiche”.
Da ultimo, è opportuno ricordare che il controllo di costituzionalità delle leggi è affidato, nel nostro sistema, ad una Corte Costituzionale, le cui decisioni - che sovente hanno natura meramente interpretativa - sono vincolanti per tutte le altre Corti.