Il condominio aveva introdotto, prima in sede cautelare e successivamente nel merito, un'azione a difesa del possesso per quello che, in atti, è stato definito “spoglio violento” e commesso in proprio danno da un condomino, il quale aveva chiuso con un lucchetto un cancello, impedendo il legittimo svolgimento dei lavori sulle parti comuni. Alla luce dell'istruttoria, la sentenza del Tribunale partenopeo appare indubbiamente corretta.
Lo spoglio, violento o occulto, è disciplinato dall'art. 1168 c.c. attraverso la definizione dell'azione di reintegrazione, mediante la quale chi ha subìto l'evento dannoso, nel termine di un anno dal fatto, può chiedere all'autore di essere riammesso nel possesso.
L'istituto è caratterizzato dall'animus spoliandi che, individuabile in re ipsa, si esplicita nella consapevolezza dell'autore di privare, con il suo comportamento, il possessore del godimento del bene contro la sua volontà. L'antica concezione secondo la quale per la sussistenza dello spoglio fosse irrilevante, nell'agente, la sussistenza del dolo e della colpa, parimenti al convincimento di esercitare un proprio diritto (Cass. civ., sez. II, 13 febbraio 1987, n. 1577) è stata superata nel tempo, allorché è stato affermato che la condotta materiale che determina lo spoglio deve essere sorretta dal dolo o dalla colpa la cui prova, secondo i principi generali in tema di ripartizione dell'onere probatorio, incombe su chi propone la domanda di reintegrazione (Cass. civ., sez. II, 31 agosto 2018, n. 21475).
La violenza, inoltre, nell'ipotesi contemplata dall'art. 1168 c.c., implica che lo spoglio sia commesso con un atto arbitrario, mentre la clandestinità va riferita allo stato di ignoranza di chi subisce la privazione e si sia trovato nell'impossibilità di avere conoscenza del fatto costituente spoglio nel momento in cui questo viene attuato (Cass. civ., sez. VI, 4 novembre 2013, n. 24673; Cass. civ., sez. II, 30 agosto 2000, n. 11453). Nel caso del quale si è occupato il giudice partenopeo, lo spoglio era avvenuto, senza ombra di dubbio, con il ricorso alla violenza, considerato che dalla descrizione dei fatti erano emersi tutti gli elementi - quali, ad esempio, i tentativi dell'amministratore e del titolare dell'impresa per far desistere l'attuale convenuto dal suo comportamento illegale, nonché l'intervento in loco delle forze dell'ordine - per affermare che l'impedimento frapposto dal condomino all'uso del cancello di sua pertinenza era avvenuto contro la volontà del condominio.
Dalla motivazione della sentenza è emerso un quadro preciso degli eventi, più che usuale in quanto spesso presente nella realtà condominiale, allorché in occasione dell'effettuazione di lavori sulle parti comuni sia necessario transitare in una proprietà esclusiva quando non vi sia altra possibilità per eseguire gli interventi programmati.
Nel caso portato dinanzi al Tribunale di Napoli, in sostanza, era stato ostruito l'ingresso all'area interna del cortile ove era collocata la piattaforma elevatrice e, contestualmente, il giudice monocratico aveva accertato che il passaggio per il cancello era l'unica possibilità per raggiungere la facciata dell'edificio da restaurare.
Sulla questione, la Corte Suprema si è più volte espressa affermando che, vista l'operatività dell'art. 843, comma 1, c.c. - a norma del quale il proprietario del fondo deve permettere l'accesso ed il passaggio nel suo fondo, sempre che ne venga ravvisata la necessità per costruire o riparare un muro o altra opera propria del vicino oppure comune - il giudice del merito deve procedere ad una complessa valutazione della situazione dei luoghi, al fine di accertare se la soluzione prescelta (accesso e passaggio per un determinato fondo altrui) sia l'unica possibile o, tra più soluzioni, sia quella che consente il raggiungimento dello scopo (riparazione o costruzione) con il minor sacrificio sia di chiede il passaggio, sia del proprietario del fondo. Pertanto, se il giudicante pervenga alla conclusione che per eseguire i lavori non vi sia altra soluzione se non quella del detto passaggio il requisito della necessità può dirsi sussistente (Cass. civ., sez. II, 30 giugno 2021, n. 18555). Il principio espresso dai giudici di legittimità, che si riferisce ad una disposizione di carattere generale, si può applicare analogicamente a qualsivoglia situazione che presenti le caratteristiche indicate dalla norma.
La Cassazione - Cass. civ., sez. II, 5 novembre 2021, n. 32100: fattispecie relativa alla richiesta di autorizzazione di accedere al fondo del vicino per eseguire lavori di ristrutturazione di un immobile privato, che avevano comportato lavori di scavo - ha, altresì, chiarito che la permanenza e l'occupazione del fondo altrui deve essere consentito e garantito per il tempo necessario per l'esecuzione di lavori non momentanei, purché a necessità terminata sia eliminata, a cura e spese del soggetto che ne abbia tratto vantaggio, il quale deve eliminare a cura e proprie spese ogni conseguenza che implichi una perdurante diminuzione del diritto del proprietario del fondo vicino, che deve riprendere la sua originaria ampiezza.
È evidente che situazione oggetto della decisione della cassazione non si può sovrapporre a quella di cui alla decisione del magistrato partenopeo, ma presenta con essa notevoli affinità. Infatti, i lavori da eseguire sul bene, anche se comune (la facciata dell'edificio), non erano istantanei; il cancello rappresentava l'unica possibilità per accedere al cortile condominiale sul quale insisteva la facciata oggetto degli interventi; la chiusura del cancello aveva determinato l'impossibilità di procedere nel risanamento.
Giova, altresì, formulare due ulteriori osservazioni. Da un lato, che il termine “fondo” di cui all'art. 843 c.c. può essere interpretato estensivamente, come dimostrato dalla decisione in commento, e, dall'altro, che l'azione messa in atto dal condomino aveva anche assunto anche i caratteri di un atto emulativo (art. 833 c.c.). tipico del proprietario che si comporta in modo da nuocere o recare molestia ad altri.