La responsabilità degli amministratori alla prova della business judgment rule

20 Febbraio 2023

Con un nuovo intervento della Cassazione si chiariscono ulteriormente i confini dell'insindacabilità del merito delle scelte gestorie degli amministratori (principio della business judgment rule) nell'ambito di un'azione di responsabilità proposta dalla curatore di una società di capitali fallita.
Massima

In materia di responsabilità degli amministratori di società di capitali, l'insindacabilità del merito delle scelte di gestione trova un limite nella ragionevolezza delle stesse, da compiersi ex ante secondo i parametri della diligenza del mandatario, tenendo conto della mancata adozione delle cautele, delle verifiche e delle informazioni preventive normalmente richieste per una scelta di quel tipo e della diligenza mostrata nell'apprezzare preventivamente i margini di rischio connessi all'operazione da intraprendere. In tale prospettiva, tenuto conto del fatto che l'acquisizione di rami aziendali non è, di per sé, irragionevole, se avviene a prezzi vantaggiosi e in presenza di un piano di rilancio, è corretta l'impostazione del giudice che abbia ritenuto costituire atto di mala gestio l'acquisto di un ramo d'azienda gravemente indebitato e dissestato, ove non accompagnato dalla contestuale adozione di adeguate risposte organizzative idonee a consentirne il rilancio.

Il caso

Gli amministratori di una società a responsabilità limitata dichiarata fallita venivano convenuti in giudizio dalla curatela, che promuoveva nei loro confronti azione di responsabilità ai sensi dell'art. 146 l.fall., perché fossero condannati al risarcimento dei danni provocati da una gestione non diligente dell'impresa, che aveva determinato il dissesto della società.

In particolare, ai due amministratori veniva contestato di avere proceduto all'acquisto di un ramo d'azienda – appartenente ad altra società dagli stessi amministrata – avente valore negativo, senza, peraltro, acquisire l'immobile dove si svolgeva l'attività produttiva (che ne rappresentava il cespite di maggior valore), esponendo la società all'obbligo di pagare un canone mensile di ingente importo; di avere determinato un progressivo incremento dei debiti a fronte di una marginalità pressoché assente, con conseguente incapacità di generare utili; di avere mascherato tale situazione, ricorrendo, in parte, ad apporti di liquidità e, in parte, a valutazioni di bilancio non attendibili, volte a non far emergere le perdite; di avere, così, protratto l'attività imprenditoriale in condizioni tali da imporre l'immediato scioglimento della società, senza adoperarsi per farne dichiarare tempestivamente il fallimento.

Il Tribunale di Vicenza accoglieva la domanda, con sentenza confermata dalla Corte d'appello di Venezia.

I due amministratori proponevano, quindi, ricorso per cassazione, contestando, tra l'altro, la mancata dimostrazione del nesso di causalità tra le condotte illecite e il danno ravvisato.

Le questioni giuridiche e la soluzione

Con l'ordinanza che si annota, la Corte di cassazione ha rigettato il ricorso, ritenendo che la sentenza gravata fosse sorretta da una motivazione corretta, che si sottraeva alle censure mosse dai ricorrenti.

In particolare, secondo i giudici di legittimità: 1) agli amministratori era stato addebitato l'acquisto di un ramo d'azienda gravemente indebitato e di avere omesso di assumere le iniziative necessarie per porre rimedio alla drammatica situazione di progressivo e costante incremento delle perdite; 2) il dissesto così verificatosi era la conseguenza inevitabile della scelta di acquisire tale ramo d'azienda senza dotare la società di un assetto organizzativo in grado di generare utili, ovvero di evitare e di contrastare l'insolvenza; 3) in questo contesto, il principio d'insindacabilità delle scelte gestionali degli amministratori non valeva a esonerarli da responsabilità, giacché esso trova un limite nella ragionevolezza di tali scelte, la cui sussistenza va verificata secondo una valutazione da effettuarsi ex ante, sulla base del parametro della diligenza di cui all'art. 2392 c.c. propria dell'organo amministrativo; 4) l'acquisizione di un ramo aziendale – che non costituisce, di per sé, un'operazione irragionevole, quando avviene a prezzi vantaggiosi – gravemente indebitato e dissestato, non accompagnato dalla contestuale adozione di adeguate misure organizzative idonee a consentirne il rilancio, rappresentava indice di un agire non responsabile degli amministratori.

Osservazioni

L'ordinanza che si annota, decidendo una controversia in cui si discuteva della responsabilità degli amministratori di una società di capitali per averne determinato e aggravato il dissesto, si pone nel solco di quel consolidato orientamento giurisprudenziale che circoscrive entro limiti ben definiti l'esimente della discrezionalità gestionale.

In linea generale, secondo quanto stabilito dall'art. 2392 c.c., gli amministratori devono adempiere i doveri loro imposti dalla legge e dallo statuto con la diligenza richiesta dalla natura dell'incarico e dalle loro specifiche competenze, nonché dalle dimensioni, dall'oggetto sociale e dalla struttura proprietaria e organizzativa della società, il che esclude che il relativo operato sia rimesso al libero arbitrio: in quest'ottica, l'alea che caratterizza ogni iniziativa imprenditoriale dev'essere compatibile con l'obbligo di destinare i mezzi conferiti dai soci o acquisiti presso terzi a un risultato positivo, frutto di un'accorta organizzazione gestionale volta alla realizzazione dell'interesse sociale.

La responsabilità gestoria, tuttavia, è collegata a un'obbligazione di mezzi e non ai risultati complessivi della gestione, sicché gli amministratori sono responsabili se violano gli obblighi loro imposti dalla legge, tra i quali non vi è – né potrebbe esserci – quello di gestire la società senza commettere errori.

La cosiddetta business judgement rule – che, come reso evidente dall'espressione, ha origine nei sistemi di common law e, in particolare, nell'ordinamento statunitense – è stata elaborata al fine di individuare il giusto punto di equilibrio tra l'esigenza di non incentivare l'assunzione, da parte degli amministratori, di atteggiamenti eccessivamente avversi al rischio (per il timore di non superare un successivo vaglio giudiziale) e quella, altrettanto sentita, di fornire un'adeguata tutela ai soggetti danneggiati dalle decisioni assunte. Essa si traduce nella regola per cui le scelte di carattere gestorio, essendo a esclusivo appannaggio degli amministratori della società, non possono essere sindacate ovvero contestate nel merito, se assunte in buona fede e in base a un processo razionale, né dai soci, né dai creditori sociali, né dagli organi giurisdizionali, dal momento che chiunque pretenda di giudicare gli atti o i fatti compiuti dagli amministratori nell'esercizio del loro ufficio sovrapporrebbe ex post il proprio apprezzamento a quello dell'organo gestorio, sulla base di criteri di opportunità e di convenienza del tutto soggettivi.

Ne discende che l'amministratore non può, di per sé, essere chiamato a rispondere delle proprie decisioni imprenditoriali, che, quand'anche rivelatesi non vantaggiose dal punto di vista economico o addirittura rovinose, non possono costituire fonte di responsabilità contrattuale o risarcitoria per il solo fatto che la gestione dell'impresa sociale abbia avuto un cattivo esito (potendo, semmai, assumere rilievo sotto il profilo della sussistenza di una giusta causa di revoca).

Presa nella sua assolutezza, questa regola si presta chiaramente a un utilizzo distorto; per tale ragione, ne sono stati progressivamente definiti i limiti entro i quali può operare ed essere invocata per escludere la censurabilità della condotta dell'amministratore.

Così, è stato affermato che:

- l'amministratore deve sempre agire in modo informato, operando con diligenza, cautela, prudenza e perizia;

- ogni decisione dev'essere assunta in conformità alla legge, nei limiti dalla stessa imposti e non in conflitto d'interessi;

- ogni decisione dev'essere, altresì, ragionevole.

In questo modo, la business judgement rule non sottrae del tutto la scelta gestionale a qualsivoglia controllo, ma vale a circoscrivere l'ambito di quest'ultimo, impedendo che si verifichino indebite interferenze con l'ambito della discrezionalità che rappresenta pur sempre caratteristica indefettibile dell'agire dell'amministratore.

Un primo limite è, dunque, rappresentato dalla possibilità di sindacare la decisione sotto il profilo della diligenza impiegata dall'amministratore nell'assumerla, valutando il percorso compiuto a tale scopo, per verificare se siano state adottate o meno le opportune cautele e siano state assunte quelle informazioni che hanno da intendersi normalmente richieste per quel tipo di scelta. Se è vero, dunque, che non sono sindacabili nel merito le scelte gestionali discrezionali, anche se presentano profili di alea economica superiori alla norma, è altrettanto vero che resta valutabile la diligenza mostrata dall'amministratore nell'apprezzare preventivamente – se necessario, con adeguata istruttoria – i margini di rischio connessi all'operazione da intraprendere, così da non esporre l'impresa a perdite altrimenti prevedibili e prevenibili.

Un secondo limite è costituito dalla razionalità della decisione: anche nel caso in cui il percorso decisionale sia stato intrapreso con la dovuta diligenza, è pur sempre necessario che la scelta assunta sia caratterizzata da razionalità e da coerenza, secondo una valutazione da operarsi non già ex post (ossia alla luce dei risultati prodotti), bensì ex ante, avendo riguardo alle condizioni oggettive e soggettive riscontrabili al momento del compimento dell'atto, sulla scorta di quanto era ragionevole attendersi in base alle regole di comune esperienza.

La ragionevolezza, intesa anche come adeguatezza, del resto, è stata elevata a criterio guida della funzione amministrativa, se è vero che l'art. 2086 c.c., così come modificato dal d.lgs. n. 14/2019, impone l'istituzione di un assetto organizzativo, amministrativo e contabile adeguato alla natura e alle dimensioni dell'impresa, anche al fine di individuare tempestivamente e superare situazioni di crisi che possano incidere sulla continuità aziendale. Con specifico riferimento alle società di capitali, l'art. 2381, comma 5, c.c. – applicabile anche alle società a responsabilità limitata per effetto della modifica apportata all'art. 2475 c.c. dall'art. 377, comma 5, d.lgs. n. 14/2019 – impone l'obbligo di approntare il più adeguato assetto organizzativo quale principio generale di corretta amministrazione.

Pertanto, l'insindacabilità dell'operato degli amministratori non è da intendersi in modo assoluto, potendo e dovendo essere accertato se essi abbiano agito con la diligenza e la prudenza che deve informare lo svolgimento dell'incarico e se, a fronte della condotta tenuta, la decisione assunta sia connotata da ragionevolezza, intesa come coerenza (e non come mera convenienza) giuridico-economica, alla luce degli opportuni controlli preventivamente svolti.

In altre parole, il giudice non può sindacare la scelta in sé, entrando nel merito della stessa, ma è tenuto a controllare il percorso attraverso il quale essa è stata assunta: la decisione di compiere o meno un atto di gestione o di compierlo in un certo modo non è suscettibile di essere apprezzata in termini di responsabilità, che, tuttavia, può essere ravvisata in presenza dell'omissione, da parte dell'amministratore, di quelle cautele, di quelle verifiche o di quelle informazioni preventive normalmente richieste prima di assumere quel tipo di scelta.

Quand'anche la condotta dell'amministratore risulti essere stata improntata ai canoni di diligenza e di prudenza e debba considerarsi – sotto questo profilo – corretta, il suo agire potrà essere fonte di responsabilità quando, nondimeno, sia stato palesemente irragionevole.

Pertanto, l'amministratore non può essere considerato responsabile delle decisioni prese con la dovuta diligenza tecnico-professionale che è da lui esigibile, ma lo sarà quando le operazioni intraprese si rivelino – fin dal principio, ossia secondo una valutazione ex ante – irrazionali, avventate, azzardate, di pura sorte, ovvero prevedibilmente rischiose e imprudenti, oltrepassandosi i limiti della ragionevolezza che deve pur sempre accompagnarsi alla discrezionalità dell'imprenditore.

Conclusioni

È proprio sulla scorta dei principi sopra delineati che la Corte di cassazione, con l'ordinanza annotata, ha respinto il ricorso proposto dai due amministratori, confermandone la responsabilità.

L'addebito loro mosso non era quello di avere compiuto un'operazione – l'acquisizione di un ramo d'azienda – assolutamente lecita e fisiologica nell'ambito di un'attività imprenditoriale, ma di averla condotta secondo criteri incompatibili con le regole di sana e prudente gestione, sia nella fase genetica (essendosi trattato dell'acquisto di un complesso aziendale fortemente indebitato, accompagnato dalla mancata acquisizione della disponibilità dell'unico cespite in grado di esprimere un valore), sia nella fase successiva (visto che, per coprire le ingenti perdite che maturavano e incrementavano progressivamente a fronte della mancata adozione delle iniziative volte a rendere produttiva e redditizia la gestione, è stato fatto ricorso ad artifici contabili, per mascherare l'emersione della situazione di insolvenza, omettendo l'assunzione dei provvedimenti necessari).

In sintonia con quanto affermato dai giudici di legittimità, la giurisprudenza di merito, in fattispecie nelle quali venivano in considerazione condotte omologabili a quelle addebitate ai ricorrenti, si era già espressa nel senso della predicabilità della responsabilità degli amministratori per avere posto in essere operazioni distrattive, che avevano spogliato la società del complesso aziendale necessario per lo svolgimento dell'attività d'impresa (Trib. Napoli, 14 dicembre 2022), per avere violato il dovere di rappresentare in bilancio, in modo veritiero e corretto, la situazione patrimoniale e finanziaria della società, al fine di mascherare lo stato di dissesto, ignorando la perdita del capitale sociale (Trib. Catanzaro, 16 novembre 2018, in un caso in cui le perdite di gestione operativa erano state occultate mediante la sopravvalutazione di crediti e senza adeguata appostazione di fondi per il relativo rischio), per avere commesso irregolarità nella tenuta delle scritture contabili al fine di occultare operazioni illecite e di celare l'esistenza di una causa di scioglimento, consentendo l'indebita prosecuzione dell'ordinaria attività gestoria nonostante la perdita dei requisiti di capitale previsti dalla legge (Trib. Palermo, 11 giugno 2019).

La pronuncia annotata, quindi, conferma che la business judgement rule e i limiti al sindacato giudiziale che vi si accompagnano non mettono gli amministratori al riparo dalle responsabilità che scaturiscono da condotte palesemente contrarie ai doveri connaturati alla loro funzione e dall'assunzione di scelte che non si inscrivono nella logica di una efficiente e corretta gestione imprenditoriale.

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