L'ordinanza che si annota, decidendo una controversia in cui si discuteva della responsabilità degli amministratori di una società di capitali per averne determinato e aggravato il dissesto, si pone nel solco di quel consolidato orientamento giurisprudenziale che circoscrive entro limiti ben definiti l'esimente della discrezionalità gestionale.
In linea generale, secondo quanto stabilito dall'art. 2392 c.c., gli amministratori devono adempiere i doveri loro imposti dalla legge e dallo statuto con la diligenza richiesta dalla natura dell'incarico e dalle loro specifiche competenze, nonché dalle dimensioni, dall'oggetto sociale e dalla struttura proprietaria e organizzativa della società, il che esclude che il relativo operato sia rimesso al libero arbitrio: in quest'ottica, l'alea che caratterizza ogni iniziativa imprenditoriale dev'essere compatibile con l'obbligo di destinare i mezzi conferiti dai soci o acquisiti presso terzi a un risultato positivo, frutto di un'accorta organizzazione gestionale volta alla realizzazione dell'interesse sociale.
La responsabilità gestoria, tuttavia, è collegata a un'obbligazione di mezzi e non ai risultati complessivi della gestione, sicché gli amministratori sono responsabili se violano gli obblighi loro imposti dalla legge, tra i quali non vi è – né potrebbe esserci – quello di gestire la società senza commettere errori.
La cosiddetta business judgement rule – che, come reso evidente dall'espressione, ha origine nei sistemi di common law e, in particolare, nell'ordinamento statunitense – è stata elaborata al fine di individuare il giusto punto di equilibrio tra l'esigenza di non incentivare l'assunzione, da parte degli amministratori, di atteggiamenti eccessivamente avversi al rischio (per il timore di non superare un successivo vaglio giudiziale) e quella, altrettanto sentita, di fornire un'adeguata tutela ai soggetti danneggiati dalle decisioni assunte. Essa si traduce nella regola per cui le scelte di carattere gestorio, essendo a esclusivo appannaggio degli amministratori della società, non possono essere sindacate ovvero contestate nel merito, se assunte in buona fede e in base a un processo razionale, né dai soci, né dai creditori sociali, né dagli organi giurisdizionali, dal momento che chiunque pretenda di giudicare gli atti o i fatti compiuti dagli amministratori nell'esercizio del loro ufficio sovrapporrebbe ex post il proprio apprezzamento a quello dell'organo gestorio, sulla base di criteri di opportunità e di convenienza del tutto soggettivi.
Ne discende che l'amministratore non può, di per sé, essere chiamato a rispondere delle proprie decisioni imprenditoriali, che, quand'anche rivelatesi non vantaggiose dal punto di vista economico o addirittura rovinose, non possono costituire fonte di responsabilità contrattuale o risarcitoria per il solo fatto che la gestione dell'impresa sociale abbia avuto un cattivo esito (potendo, semmai, assumere rilievo sotto il profilo della sussistenza di una giusta causa di revoca).
Presa nella sua assolutezza, questa regola si presta chiaramente a un utilizzo distorto; per tale ragione, ne sono stati progressivamente definiti i limiti entro i quali può operare ed essere invocata per escludere la censurabilità della condotta dell'amministratore.
Così, è stato affermato che:
- l'amministratore deve sempre agire in modo informato, operando con diligenza, cautela, prudenza e perizia;
- ogni decisione dev'essere assunta in conformità alla legge, nei limiti dalla stessa imposti e non in conflitto d'interessi;
- ogni decisione dev'essere, altresì, ragionevole.
In questo modo, la business judgement rule non sottrae del tutto la scelta gestionale a qualsivoglia controllo, ma vale a circoscrivere l'ambito di quest'ultimo, impedendo che si verifichino indebite interferenze con l'ambito della discrezionalità che rappresenta pur sempre caratteristica indefettibile dell'agire dell'amministratore.
Un primo limite è, dunque, rappresentato dalla possibilità di sindacare la decisione sotto il profilo della diligenza impiegata dall'amministratore nell'assumerla, valutando il percorso compiuto a tale scopo, per verificare se siano state adottate o meno le opportune cautele e siano state assunte quelle informazioni che hanno da intendersi normalmente richieste per quel tipo di scelta. Se è vero, dunque, che non sono sindacabili nel merito le scelte gestionali discrezionali, anche se presentano profili di alea economica superiori alla norma, è altrettanto vero che resta valutabile la diligenza mostrata dall'amministratore nell'apprezzare preventivamente – se necessario, con adeguata istruttoria – i margini di rischio connessi all'operazione da intraprendere, così da non esporre l'impresa a perdite altrimenti prevedibili e prevenibili.
Un secondo limite è costituito dalla razionalità della decisione: anche nel caso in cui il percorso decisionale sia stato intrapreso con la dovuta diligenza, è pur sempre necessario che la scelta assunta sia caratterizzata da razionalità e da coerenza, secondo una valutazione da operarsi non già ex post (ossia alla luce dei risultati prodotti), bensì ex ante, avendo riguardo alle condizioni oggettive e soggettive riscontrabili al momento del compimento dell'atto, sulla scorta di quanto era ragionevole attendersi in base alle regole di comune esperienza.
La ragionevolezza, intesa anche come adeguatezza, del resto, è stata elevata a criterio guida della funzione amministrativa, se è vero che l'art. 2086 c.c., così come modificato dal d.lgs. n. 14/2019, impone l'istituzione di un assetto organizzativo, amministrativo e contabile adeguato alla natura e alle dimensioni dell'impresa, anche al fine di individuare tempestivamente e superare situazioni di crisi che possano incidere sulla continuità aziendale. Con specifico riferimento alle società di capitali, l'art. 2381, comma 5, c.c. – applicabile anche alle società a responsabilità limitata per effetto della modifica apportata all'art. 2475 c.c. dall'art. 377, comma 5, d.lgs. n. 14/2019 – impone l'obbligo di approntare il più adeguato assetto organizzativo quale principio generale di corretta amministrazione.
Pertanto, l'insindacabilità dell'operato degli amministratori non è da intendersi in modo assoluto, potendo e dovendo essere accertato se essi abbiano agito con la diligenza e la prudenza che deve informare lo svolgimento dell'incarico e se, a fronte della condotta tenuta, la decisione assunta sia connotata da ragionevolezza, intesa come coerenza (e non come mera convenienza) giuridico-economica, alla luce degli opportuni controlli preventivamente svolti.
In altre parole, il giudice non può sindacare la scelta in sé, entrando nel merito della stessa, ma è tenuto a controllare il percorso attraverso il quale essa è stata assunta: la decisione di compiere o meno un atto di gestione o di compierlo in un certo modo non è suscettibile di essere apprezzata in termini di responsabilità, che, tuttavia, può essere ravvisata in presenza dell'omissione, da parte dell'amministratore, di quelle cautele, di quelle verifiche o di quelle informazioni preventive normalmente richieste prima di assumere quel tipo di scelta.
Quand'anche la condotta dell'amministratore risulti essere stata improntata ai canoni di diligenza e di prudenza e debba considerarsi – sotto questo profilo – corretta, il suo agire potrà essere fonte di responsabilità quando, nondimeno, sia stato palesemente irragionevole.
Pertanto, l'amministratore non può essere considerato responsabile delle decisioni prese con la dovuta diligenza tecnico-professionale che è da lui esigibile, ma lo sarà quando le operazioni intraprese si rivelino – fin dal principio, ossia secondo una valutazione ex ante – irrazionali, avventate, azzardate, di pura sorte, ovvero prevedibilmente rischiose e imprudenti, oltrepassandosi i limiti della ragionevolezza che deve pur sempre accompagnarsi alla discrezionalità dell'imprenditore.