Le società in nome collettivo appartengono alla categoria delle società di persone; di quelle società in cui, a differenza delle società di capitali, la rilevanza delle qualità personali dei soci (intuitus personae) rappresenta un requisito indefettibile. Il codice civile nel disciplinare questi tipi sociali ha adottato la tecnica normativa cosiddetta “a cascata”, dettando una normativa esaustiva per la società semplice (la quale non esercita attività commerciale) e poche e specifiche norme per gli altri due tipi sociali (che esercitano attività commerciale) - la società in nome collettivo e la società in accomandita semplice - ai quali ha aggiunto il richiamo alle norme del tipo precedente.
La nozione che il codice civile dà all'art. 2291 c.c. della società in nome collettivo (s.n.c.) pone come elemento costitutivo della stessa la circostanza che tutti i soci rispondono solidalmente e illimitatamente per le obbligazioni sociali e che un eventuale patto contrario non avrebbe effetto nei confronti dei terzi. Tale norma, oltre a differenziare tale tipo sociale dalla società semplice, è esplicativa dell'autonomia patrimoniale imperfetta della s.n.c., che è alla base del principio di responsabilità sussidiaria dei soci: secondo tale principio il creditore sociale può chiedere ad ogni socio quanto gli è ancora dovuto dalla società solo dopo che sia esaurito il patrimonio della società stessa. Per le società in nome collettivo il legislatore ha poi dettato una norma specifica per i creditori particolari dei soci (art. 2305 c.c.) che la discosta anche in questo caso dalla normativa di riferimento (quella cioè dettata per le società semplici) ed in particolare dall'art. 2270 c.c.: nelle s.n.c. il creditore particolare del socio, finché dura la società, non può chiedere la liquidazione della quota del socio debitore.
La Corte di Cassazione, nella sentenza in commento, mette in risalto la norma di cui all'art. 2305 c.c. e la non applicabilità alle s.n.c. dello schema di cui all'art. 2270 c.c. dettato per le società semplici. Conseguentemente ribadisce come la quota del socio della s.n.c. sia espropriabile solo se sia stato deliberato lo scioglimento della società e compiuta la liquidazione o comunque solo dopo che sia stata liquidata la quota del socio debitore per lo scioglimento del suo rapporto sociale.
Quanto all'azione revocatoria, in base alla quale il creditore, ottenuta la dichiarazione di inefficacia può, ex art. 2902 c.c., promuovere nei confronti dei terzi acquirenti le azioni esecutive o conservative sui beni che formano oggetto dell'atto impugnato, essa è funzionale - sottolinea la Corte - al compimento degli atti esecutivi una volta che la quota sia diventata espropriabile per effetto della liquidazione. Da qui il parallelismo tra l'art. 2305 e l'art. 2902 c.c.: come il creditore particolare del socio non può, ex art. 2305 c.c., chiedere la liquidazione della quota del socio debitore finché dura la società, analogamente il creditore del socio che abbia ceduto la propria quota, una volta ottenuta la dichiarazione di inefficacia nei suoi confronti degli atti di disposizione del patrimonio con i quali il debitore rechi pregiudizio alle sue ragioni, solo se vi è stata la liquidazione della quota e vi ha titolo può compiere le azioni esecutive o conservative del credito; ovviamente del credito risultante dalla liquidazione di quella quota. Va anche detto che in caso di positivo esperimento della revocatoria ordinaria, la garanzia patrimoniale generica dell'attore è reintegrata per un valore equivalente al credito allegato, indipendentemente dal fatto che l'atto dispositivo dichiarato inefficace avesse un valore superiore (così, Trib. civ. Monza, sent., 11 aprile 2017). Nel caso che ci occupa la conservazione della garanzia patrimoniale si forma come reintegrazione del valore del bene uscito dal patrimonio del debitore.
Il parallelismo normativo si ferma qui. Il creditore del socio che abbia ceduto la propria quota non potrebbe infatti agire sugli utili spettanti al debitore finché dura la società, o compiere gli atti conservativi sulla quota spettante nella liquidazione nè fare opposizione alla proroga della società. Ciò in quanto il debitore non è ormai più socio e, in ogni caso, si tratta di facoltà avulse dagli effetti dell'azione revocatoria. Va infine precisato, come già acclarato dalla giurisprudenza di legittimità (Cass. civ., sez. III, sent., 15 febbraio 2011 n. 3676; Cass. civ., sez. VI, ord., 11 giugno 2021 n. 16614) che l'accoglimento dell'azione revocatoria, ai sensi degli artt. 2901 e 2902 c.c., non comporta l'invalidità dell'atto di disposizione sui beni e il rientro di questi nel patrimonio del debitore alienante, bensì l'inefficacia dell'atto soltanto nei confronti del creditore che agisce per ottenerla.