La sentenza che qui si analizza rappresenta un'utile guida per fornire una chiave interpretativa a una situazione, potenzialmente litigiosa, rispetto a cui molti operatori del diritto si confrontano sovente.
Si tratta - questa è la principale questione – del tema del preventivo deposito del bilancio. La ratio dell'art. 2429, comma 3, c.c. è chiara: il legislatore, di fronte a una delle competenze più significative dell'assemblea (i.e. l'approvazione del bilancio), richiede all'organo amministrativo, su cui grava la responsabilità della redazione del bilancio stesso, il preventivo deposito del documento, che deve restare presso la sede nei quindici giorni antecedenti all'assemblea fissata per la sua approvazione.
La norma in questione è stata foriera di non poca giurisprudenza, per valorizzarne il tenore sostanziale rispetto a quello formale. Ad esempio, la norma si è ritenuta violata nel caso in cui il fascicolo di bilancio, seppur effettivamente depositato, fosse stato poi concretamente di difficile accesso o ne fosse stata resa onerosa la consultazione, ad esempio perché il luogo di deposito richiedeva particolari procedure di accesso o orari molto limitati (cfr. Cass. Civ. 11 maggio 1998, n. 4734). Fermo restando che si è consolidato un orientamento che ritiene adempiuto l'obbligo di deposito della società anche nel caso in cui i documenti «risultino a disposizione dei soci nei soli orari di ufficio e nei giorni non festivi» (Cass. Civ. 17 gennaio 2001, n. 560, in Società, 2001, 671).
Il disposto di cui all'art. 2429, comma 3, c.c., in altri termini, ha tradizionalmente catturato l'attenzione dei giudici al fine di garantire la finalità che il legislatore voleva assicurare: il soddisfacimento del diritto dei soci di essere informati e, conseguentemente, poter esprimere il proprio voto in maniera consapevole. Proprio in scia a questa linea guida interpretativa si sono mossi anche i giudici milanesi, “contraddicendo” la lettera della norma (i.e. il formale requisito del termine di 15 giorni antecedente all'assemblea) proprio perché, nei fatti, il risultato finale era stato comunque raggiunto.
Altra questione toccata, più marginalmente, dalla sentenza, riguarda l'applicazione dell'art. 2466, comma 3, c.c., che prevede l'esclusione dalla “partecipazione alle decisioni dei soci” per quei soci che non hanno versato per intero il valore del proprio conferimento.
Al riguardo, i giudici milanesi effettuano un'interessante specificazione, prendendo spunto dai fatti di causa. L'attore infatti aveva allegato documentazione da cui, a suo dire, vi era stato un «tacito accordo tra i due soci di poter continuare ad esercitare il diritto di voto in assemblea sebbene non fosse stata ancora versata del tutto la quota di capitale sottoscritta». Al netto della efficacia probatoria dell'allegazione fornita, i giudici aditi propendono per l'irrilevanza di tale allegazione, dal momento che qualsiasi accordo avente tale oggetto non può essere opposto alla società, qualora il suo organo amministrativo abbia formalmente richiesto il versamento a integrale liberazione della quota. Si tratta, in altri termini, secondo il Tribunale, di una norma disposta a favore della società, della sua integrità patrimoniale e, in definitiva, di tutti gli stakeholder (a cominciare dai creditori), non rilevando alcun accordo, in deroga, pattuito tra i soci (in termini analoghi, l'ormai risalente Trib. Milano, 7 luglio 1994, in Società 1995, 537).