È illegittimo il licenziamento per scarso rendimento fondato su condotte del lavoratore già oggetto di precedenti disciplinari
09 Marzo 2023
Massima
Lo scarso rendimento non può essere dimostrato da plurimi precedenti disciplinari del lavoratore già sanzionati, perché ciò costituirebbe un'indiretta sostanziale duplicazione degli effetti di condotte ormai esaurite. Il caso
Il dipendente di una società di trasporto passeggeri viene esonerato in via definitiva dal servizio per scarso rendimento, ai sensi dell'art. 27, comma 1, lett. d), dell'allegato al R.d. n. 148/1931, relativo alla disciplina applicata agli autoferrotranvieri.
Nel corso dei 35 anni di servizio alle dipendenze della società, il dipendente ha ricevuto ben 110 sanzioni disciplinari, sfociate nell'atto espulsivo, che, però, viene impugnato e annullato in primo grado, sulla base del divieto del ne bis in idem in materia disciplinare. Il provvedimento di esonero, infatti, risulta adottato sulla base della medesima contestazione che ha dato luogo alla sanzione conservativa della sospensione dal servizio e dalla retribuzione, applicata appena una ventina di giorni prima.
La Corte d'appello di Bologna respinge il reclamo proposto dalla società, che ricorre per la cassazione della sentenza. Le questioni
Già con la sentenza del 14 febbraio 2017, n. 3855, la Suprema Corte si era pronunciata sui requisiti per la sussistenza dell'inadeguatezza quali-quantitativa posta alla base dell'esonero definitivo dal servizio per gli autoferrotranvieri: “sul piano oggettivo, un rendimento inferiore alla media, e, sul piano soggettivo, l'imputabilità colpa dell'agente, determinata da imperizia, incapacità e negligenza” (v. anche Cass. 23 marzo 2017, n. 7522).
Nella pronuncia in commento, però, la questione controversa non concerne tanto l'individuazione di tali elementi – pacificamente documentati nei precedenti gradi di giudizio – o la giustificatezza del provvedimento espulsivo sulla base del notevolissimo numero di contestazioni disciplinari relative allo scarso rendimento, quanto la verifica della duplicazione dell'esercizio del potere disciplinare. Secondo le risultanze agli atti, la società avrebbe contestato e sanzionato due volte lo stesso fatto: è per questa ragione che il recesso intimato è illegittimo. Le soluzioni giuridiche
La Corte di cassazione sottolinea che “lo scarso rendimento non può essere di per sé dimostrato dai plurimi precedenti disciplinari del lavoratore già sanzionati in passato, perché ciò costituirebbe una indiretta sostanziale duplicazione degli effetti di condotte già esaurite”.
Anche per la fattispecie di scarso rendimento contemplata dall'all. al R.d. n. 148/1931 deve essere applicato il consolidato orientamento giurisprudenziale secondo il quale vige il divieto “di esercitare due volte il potere disciplinare per lo stesso fatto sotto il profilo di una sua diversa valutazione o configurazione giuridica” (in tal senso, v. anche Cass. 22 ottobre 2014, n. 22388; Cass. 11 ottobre 2016, n. 20429).
D'altronde, la natura disciplinare della condotta descritta dalla lett. d) del primo comma del cit. art. 27 risulta evidente dal riferimento al comportamento “imputabile a colpa dell'agente nell'adempimento delle funzioni del proprio grado”.
Inoltre, è vero che l'ipotesi di scarso rendimento può essere integrata da una pluralità di comportamenti, ma questi non devono essere già stati sanzionati in passato. Nel caso di specie, la società ricorrente aveva già consumato il proprio potere disciplinare anche in ordine all'ultimo episodio in ordine di tempo, per il quale aveva adottato la misura conservativa della sospensione. Osservazioni
Come evidenzia la Suprema Corte, non è compito della giurisprudenza “fornire suggerimenti (postumi) su come la datrice di lavoro avrebbe dovuto regolarsi correttamente rispetto ad un dipendente già destinatario di ben centodieci sanzioni disciplinari, tutte però non espulsive”.
La Cassazione, perciò, non intende entrare nel “merito” della questione, ossia, nella giustificatezza di un provvedimento di recesso a fronte di condotte del lavoratore reiteratamente e colpevolmente non adeguate e sufficienti, ma fa presente che la procedura adottata è viziata ab origine, perché il fatto già sanzionato non è più sanzionabile e, quindi, “equivale a fatto non più antigiuridico” (sul punto, v. anche Cass. 30 ottobre 2018, n. 27657).
Ciò spiega perché alla fattispecie in esame si applichi il quarto comma dell'art. 18 Stat. lav., così come modificato dalla L. n. 92/2012, e non il quinto comma, relativo ai vizi procedurali. La Suprema Corte si è più volte espressa sul punto (v. Cass. n. 20450/2015; Cass. n. 18418/2016), ribadendo come “non sia plausibile che il legislatore, parlando di insussistenza del fatto contestato, abbia voluto negarla nel caso di fatto sussistente ma privo del carattere di illiceità, ossia non suscettibile di alcuna sanzione”.
La tutela applicabile è, pertanto, quella reintegratoria c.d. debole o attenuata ex art. 18, comma 4, Stat. lav., che prevede l'annullamento del licenziamento e la condanna del datore di lavoro alla reintegrazione nel posto di lavoro e alla corresponsione di un'indennità risarcitoria non superiore alle dodici mensilità della retribuzione globale di fatto, dedotto l'aliunde perceptum e percipiendum. |