La dimensione temporale del danno da perdita parentale e le tabelle a punti

Giampaolo Miotto
20 Marzo 2023

Il Tribunale di Padova critica le tabelle “a punti” elaborate da Roma e Milano per aver sottovalutato l'incidenza della dimensione temporale del danno da perdita parentale sulla consistenza dei pregiudizi patiti dal superstite, osservando che questi sono proporzionati al periodo di tempo per il quale il danneggiato dovrà sopportarli.
La questione: diversa durata dei pregiudizi e proporzione tra i relativi risarcimenti

Con la sentenza in esame il Tribunale di Padova di fatto propone una “tabella” per la liquidazione del risarcimento del danno da perdita parentale diversa da quella milanese e da quella romana, perché ispirata dalla centralità della dimensione temporale del pregiudizio subito del danneggiato.

Al di là delle soluzioni tecniche individuate dal Giudice patavino per tradurre in pratica questo cambiamento di prospettiva (che poi si illustreranno), ciò che merita attenzione è (non solo lo sforzo compiuto per ideare e giustificare un'autonoma soluzione liquidativa, ma soprattutto) la riflessione sulle conseguenze pratiche derivanti dalla sottovalutazione dell'anzidetta dimensione temporale che la sentenza imputa tanto alla tabella romana, quanto a quella milanese (nella sua versione “a punti”).

Tali conseguenze sono ben identificate nelle premesse con le quali il decidente motiva il proprio dissenso rispetto ad entrambe.

Questi, invero, imputa alle tabelle “elaborate dal Tribunale di Roma” di essere “francamente squilibrate in eccesso, nei loro valori di base, per quanto attiene alla liquidazione del danno – il quale in Italia già raggiunge cifre di gran lunga superiori a quelle liquidate negli altri paesi dell'Unione Europea – venendo a prevedere risarcimenti che, anche nelle ipotesi caratterizzate da una perdita del rapporto parentale limitata a pochi anni di vita, come nel caso di soggetti particolarmente anziani, partono da cifre estremamente ragguardevoli, mai comunque inferiori ad una somma che si aggira intorno ad € 250.000,00”.

Ciò che determina una palese incongruenza che la sentenza in esame esemplifica raffrontando due casi concreti.

Da un lato quello della “perdita di un genitore novantenne – il quale ha una speranza di vita non superiore a due anni – da parte del figlio sessantenne non convivente”, che, adottando la tabella capitolina, verrebbe “compensata con la previsione di un versamento base di € 245.167,50… venendosi di fatto a rimunerare con l'esorbitante valore di circa € 120.000,00 ciascuno dei due anni di rapporto parentale perduti a seguito del prematuro decesso del de cuius”.

Dall'altro quello della perdita patita da un figlio che abbia l'età di un anno, il cui padre deceduto non convivente abbia un'età di trent'anni, e che quindi “si vede sottrarre in maniera quasi totale la fruizione del possibile rapporto parentale con il padre”, al quale risulta liquidabile “un risarcimento di € 294.201,00”, per cui, tenendo conto che la vittima primaria avrebbe avuto un'aspettativa di vita di “circa cinquant'anni” , il suddetto pregiudizio viene “compensato con una cifra sostanzialmente simile a quella sopra indicata ma pari a soli € 6.000,00 annui”.

Pertanto, due casi che, intuitivamente, si pongono agli antipodi della scala quantitativa sotto il profilo della durata del pregiudizio che il danneggiato dovrà patire (in termini di sofferenza interiore e di sconvolgimento della vita causato dalla perdita parentale) e quindi della sua consistenza vengono trattati, dal punto di vista liquidativo, “in maniera sostanzialmente simile”.

Ciò che, secondo l'estensore, “stride in maniera evidente con il senso di proporzionalità insito nella comune sensibilità odierna che il risarcimento per equivalente deve comunque mantenere”.

E contraddice quanto affermato dalla stessa giurisprudenza di legittimità, laddove descrive il danno da perdita parentale come il ”vuoto costituito dal non potere più godere della presenza e del rapporto con chi è venuto meno e perciò nell'irrimediabile distruzione di un sistema di vita basato sull'affettività, sulla condivisione, sulla rassicurante quotidianità dei rapporti tra moglie e marito, tra madre e figlio, tra fratello e fratello, nel non poter più fare ciò che per anni si è fatto, nonché nell'alterazione che una scomparsa del genere inevitabilmente produce anche nelle relazioni tra i superstiti” (Cass. civ., n. 10107/2011)”, dando luogo ad un pregiudizio destinato a ripercuotersi nel tempo (nello stesso senso si vedano pure: Cass. civ. n. 9196/2018 e Cass. civ. n. 29784/2018, Cass. civ. n. 3767/2018; in dottrina: Pojatti, L'inevitabile complessità del danno non patrimoniale, in Danno e resp. 2022, 217).

La sentenza patavina, poi, imputa le medesime “criticità” anche alle “nuove tabelle elaborate dal Tribunale di Milano”.

In proposito si osserva che, calcolando i risarcimenti liquidabili ai danneggiati dei due casi considerati dalla sentenza in esame sulla base della tabella ambrosiana, si ottengono dei risultati più proporzionati (€ 87.490,00 per il primo ed € 174.980,00, e cioè il doppio, per il secondo), e, tuttavia, la discrepanza tra il ristoro così attribuito per i due (soli) anni di durata del pregiudizio del primo caso (€ 43.745,00 l'uno) risulta pur sempre notevolmente squilibrato rispetto a quello liquidato per cinquantatré anni del secondo (€ 3.301,50 l'uno).

Per cui la sproporzione lamentata dal Giudice patavino, in tal caso, verrebbe attenuata, ma non rimediata.

La soluzione adottata: i criteri liquidativi ideati dalla sentenza e le loro ragioni teoriche

I criteri liquidativi adottati dalla sentenza in esame si fondano sul principio secondo il quale "una diversa determinazione dell'ammontare del risarcimento spettante in tale ipotesi” deve tener “conto del tipo di sofferenza psicologica patita dalla vittima in questi casi, caratterizzata da un dolore assai più intenso nel breve e poi destinato a scemare in maniera decisa nel corso degli anni”.

Su questo fondamento teorico (ricavato da un dato di esperienza), il Giudice patavino ha costruito la soluzione pratica adottata per attribuire un maggior peso alla proiezione temporale del pregiudizio subito dal congiunto ingiustamente privato (anzitempo) del rapporto parentale.

Questa consiste nella “individuazione di un valore base del punto di sofferenza, diverso per singole categorie di parenti, da moltiplicare poi per gli anni di rapporto famigliare residuo sottratti al godimento del sopravvissuto, tenendo conto dell'aspettativa di vita media del soggetto, tra i due, in astratto meno longevo (cioè a dire, se muore il padre, gli anni da conteggiare in favore del figlio sarebbero quelli della aspettativa media residua di vita del genitore al momento del decesso), computati sulla base delle più recenti tavole di mortalità predisposte in proposito dall'ISTAT”.

Il “valore base” così calcolato (in misura corrispondente “al risarcimento dovuto per un anno di danno biologico temporaneo del 20% su di una diaria giornaliera di € 135,00”, da ridurre per le diverse categorie di congiunti, in modo da privilegiare quelli più prossimi) è destinato, poi, a scontare una progressiva diminuzione, “del 20%... una volta trascorso il primo quinquennio dal decesso del de cuius, del 25%... per il periodo successivo al quindicesimo anno dalla morte e sino al trentesimo e di un ulteriore 50% per il periodo successivo a tale ultima data”.

Si tratta, quindi, di una tabella “scalare”, che prevede, per ciascuna annualità di rapporto parentale di cui il danneggiato è stato privato, valori risarcitori diversificati e decrescenti man mano che ci si allontana dalla data della morte della vittima primaria (oltre che differenziati per le diverse categorie di congiunti).

E questo per un periodo di tempo corrispondente alla residua aspettativa di vita (risultante dai più recenti dati statistici pubblicati dall'ISTAT) di colui che sia astrattamente il “meno longevo” tra vittima e danneggiato.

Ciò in quanto, trattandosi di un tipico danno futuro, si deve presumere che, se non si fosse verificato l'evento mortale, il danneggiato avrebbe continuato a beneficiare del rapporto con la vittima fino al decesso di uno dei due e quindi, sempre sul piano presuntivo, necessariamente di quello che, alla data dell'evento dannoso, godeva di una minor aspettativa.

L'importo ottenuto sommando i valori risarcitori delle singole annualità corrispondenti al periodo di tempo (di privazione del rapporto parentale) così determinato, dovrebbe essere poi ulteriormente personalizzato in relazione ad altri criteri, sostanzialmente assimilabili a quelli previsti dalle altre tabelle, anche se con diversa incidenza.

E cioè, in aumento o diminuzione (sino al 30%) in relazione alla “concreta natura del rapporto in essere fra le parti”, ovvero in diminuzione, nella misura del 25%, “in caso di mancata convivenza”, del 20% in caso di convivenza “con altri parenti stretti (genitori, coniugi, figlio o fratelli)”, del 10% nel caso “in cui il soggetto leso possa ancora godere della esistenza dei menzionati parenti, sebbene con lui non conviventi”.

Traducendo questi criteri nel concreto, la sentenza in esame ha liquidato ad un danneggiato di 48 anni convivente con altri congiunti, che aveva perduto un fratello di 66 anni, con il quale non conviveva, ed aveva rapporti di “natura saltuaria” un risarcimento di € 49.700,00.

Lo stesso danno, se liquidato secondo la tabella del Tribunale di Milano (attribuendo 10 punti per i criteri di cui al punto E) sarebbe stato risarcito con € 67.215,20 (il 35% in più) e secondo quella del Tribunale di Roma (applicando una riduzione di 1/3 per la “non convivenza”) in € 78.457,52 (il 67% in più).

Ovviamente, se si fosse trattato di un coniuge, di un genitore o di un figlio, tale divergenza di valori (con riguardo al pregiudizio subito da un danneggiato di età matura per la perdita di un consanguineo in terza età) sarebbe stata amplificata, tenendo conto delle peculiarità che connotano la tabella romana e quella milanese.

Mentre, per converso, sensibilmente maggiore sarebbe stato il risarcimento da liquidare nel caso che il “meno longevo” fra danneggiato e vittima primaria avesse goduto di una lunga aspettativa di vita.

Per fare un esempio raffrontabile col caso sottoposto al Giudice patavino, il fratello diciottenne di una vittima ventottenne, a parità delle altre condizioni, sarebbe stato risarcito con € 235.400,00.

Ciò che, sotto il profilo metodologico, consente di cogliere la netta differenziazione determinata dal diverso peso attribuito alla dimensione temporale del pregiudizio nel risultato finale della taxatio di due danni destinati ad essere risentiti per durate molto differenti.

Riflessioni sulla morfologia del danno da perdita parentale: la sua dimensione temporale

Tuttavia, come si è anticipato, ciò che più interessa della sentenza patavina non è la soluzione tecnica ideata (come tutte, indubbiamente criticabile e perfettibile), ma l'interrogativo che essa pone in merito alla coerenza interna dei sistemi tabellari che ispirano le tabelle di Milano e Roma laddove entrambe producono liquidazioni risarcitorie molto simili per pregiudizi di consistenza (intuitivamente) molto diversa sotto il profilo della durata temporale per la quale quel pregiudizio è destinato a riprodursi nella vita interiore e nell'esistenza quotidiana del danneggiato.

L'omologazione (o l'inadeguata differenziazione) sul piano risarcitorio di situazioni pregiudizievoli molto differenti, infatti, si pone in contrasto col principio dell' “equità circostanziata” che deve presiedere (anche) alla liquidazione del danno da perdita parentale (Cass. Civ. n. 14931/2012), quale espressione del potere di valutazione equitativa del danno attribuito al Giudice dagli artt. 1226 e 2056 c.c.

Infatti, i parametri tabellari, se da un lato devono garantire l'“uguaglianza di trattamento di situazioni uguali, con conseguente rispetto del principio di equità” (Cass. Civ. n.41933/2022), dall'altro devono assicurare, per inevitabile conseguenza logica, che situazioni diverse vengano trattate in modo adeguatamente differenziato e cioè proporzionato alla rispettiva consistenza.

A ben guardare, pertanto, i rilievi del Giudice patavino circa l'iniquità dell'anzidetta assimilazione provocano l'interprete ad una più approfondita e matura riflessione sulla morfologia stessa del danno parentale, tale da consentire di perfezionare gli strumenti di valutazione del danno, rendendoli sempre più aderenti alla realtà di quest'ultimo.

È ben vero che la dottrina ha da tempo preso atto, con rassegnato realismo, della massificazione” del danno da perdita parentale, di cui le tabelle “a punti” rappresentano la consacrazione (Franzoni, Il quantum del risarcimento del danno parentale tra merito e diritto, in Danno e resp. 2022, 545; Ponzanelli, Le nuove tabelle milanesi sul danno da relazione parentale, in Danno e resp. 2022, 409).

Ma, pur accettando come inevitabile un sistema tabellare maggiormente vincolante per le Corti, sicuramente vi sono ancora spazi speculativi per cercare di avvicinarsi, nella formulazione di criteri strutturali di tale sistema, a quella proporzionalità del risarcimento rispetto all'effettiva consistenza dei pregiudizi da risarcire che rappresenta un obiettivo irrinunciabile dell'equità risarcitoria.

Sono spazi da ricercare non tanto nel territorio dei criteri liquidativi del risarcimento in sé considerati, quanto piuttosto nella struttura stessa del danno parentale.

Poiché è alla morfologia del danno che quei criteri debbono adattarsi per consentirne una valutazione equitativa quanto più realistica possibile e quindi, almeno tendenzialmente, più equa.

A questo fine, in mancanza di uno studio organico della tematica sotto il profilo dogmatico, risulta utile il tentativo di ricomporre i frammenti descrittivi del danno parentale che emergono, quasi carsicamente, dallo scenario giurisprudenziale, per ricostruirne i connotati.

Da questo esame risulta chiaro che la sua dimensione temporale appare tutt'altro che secondaria.

Com'è noto, la giurisprudenza da tempo individua il contenuto del danno di cui si discute “nella privazione di un valore non economico, ma personale, costituito della irreversibile perdita del godimento del congiunto, dalla definitiva preclusione delle reciproche relazioni interpersonali… che costituiscono conseguenza della lesione dell'interesse protetto” e cioè della morte del congiunto (Cass. Civ. n. 4817/2019).

E ne riconosce la poliedricità, attribuendogli una “duplice dimensione” (Cass. Civ. n. 26301/2021), l'una attinente alla “sofferenza interiore derivante dal venir meno del rapporto” con la vittima primaria e l'altra non già alla “mera perdita delle abitudini e dei riti propri della quotidianità, bensì” allo “sconvolgimento dell'esistenza, rivelato da fondamentali e radicali cambiamenti dello stile di vita” (Cass. Civ. n. 4571/2023, n. 19641/2016).

Quanto alla struttura del danno parentale, si è poi osservato come questa si connoti proprio per la sua proiezione temporale, essendo destinata a funestare la vita futura del danneggiato nella misura corrispondente alla durata della privazione inflittagli dall'evento lesivo.

In un suo precedente, dopo aver premesso che ai fini di determinarne il risarcimento “non può non tenersi conto della presumibile durata nel tempo del pregiudizio provocato ai congiunti”, la Corte ha osservato che “i tipi di pregiudizio da sofferenza e da perdita del rapporto parentale conseguenti alla morte di un congiunto non si connotano per una gravità costante nel tempo, ma per una tendenziale progressiva diminuzione (in relazione, ad esempio, alla crescita dei figli ed all'incremento del loro grado di maturità psichica), anche in ragione dell'assuefazione alla mancanza del congiunto ed all'instaurarsi di possibili assetti compensativi” (Cass. Civ. n. 3357/2009).

Per affermare, poi, in termini pratici, che “nella liquidazione del danno non patrimoniale derivante dalla morte di un prossimo congiunto occorre di norma tenere conto dell'età della vittima, giacché tanto maggiore sarà quest'ultima, tanto minore sarà il periodo di tempo per il quale verosimilmente si protrarrà l'anticipata sofferenza dei congiunti”.

Queste argomentazioni colgono due aspetti diversi della struttura del danno parentale.

Per un verso, il suo protrarsi nel tempo, come si è detto, poiché esso non si esaurisce nell'immediatezza dell'evento dannoso costituito dalla morte del congiunto, ma si ripercuote anche in seguito nella vita del superstite, sia in termini di sofferenza interiore che di privazione relazionale.

Del resto ciò che la morte della vittima primaria danneggia è il “rapporto” che il congiunto coltivava nei suoi confronti, e cioè una relazione personale attuale che era destinata a perpetuarsi per altro tempo, se non fosse intervenuto l'evento dannoso ad interromperla, così privando il danneggiato proprio della possibilità di proseguirla.

Sicché la dimensione temporale è geneticamente insita nella struttura del danno parentale.

Ma, per altro verso, la pronuncia da ultimo citata pone in evidenza pure la tendenza del danno parentale ad attenuarsi col trascorrere del tempo, stante la capacità adattiva propria dell'essere umano, che gli consente progressivamente di riorganizzare la propria esistenza e di riorientare le proprie emozioni anche a fronte di eventi tragici, come la morte di un congiunto.

Questi connotati di durata temporale e di mutevolezza del pregiudizio nel tempo sono stati sottolineati anche da altre decisioni, seppure in relazione al solo pregiudizio della sofferenza interiore, come la stessa sentenza qui annotata, che li ha riferiti alla “sofferenza psicologica della vittima”.

Questo rilievo indubbiamente riecheggia il dictum delle sentenze di San Martino del 2008, che segnarono il definitivo superamento dell'arcaica concezione del danno morale inteso solo come pregiudizio “transeunte” proprio per dilatarne i confini e ricomprendervi pure la proiezione temporale della sofferenza soggettiva.

In quell'occasione le Sezioni Unite affermarono che “la limitazione alla tradizionale figura del cd. danno morale soggettivo transeunte va definitivamente superata”, in quanto “la figura, recepita per lungo tempo dalla pratica giurisprudenziale, aveva fondamento normativo assai dubbio, poiché né l'art. 2059 c.c. né l'art. 185 c.p. parlano di danno morale, e tantomeno lo dicono rilevante solo se sia transitorio, ed era carente anche sul piano della adeguatezza della tutela, poiché la sofferenza morale cagionata dal reato non è necessariamente transeunte, ben potendo l'effetto penoso protrarsi anche per lungo tempo”, integrando una “sofferenza la cui intensità e durata nel tempo non assumono rilevanza ai fini della esistenza del danno, ma solo della quantificazione del risarcimento” (SS.UU. n. 26973/2008).

Ma, per ovvie ragioni, i predetti connotati di natura temporale sono propri pure della dimensione “esistenziale” del danno parentale, riguardo alla quale le capacità di adattamento sociale della persona sono suscettibili di produrre, progressivamente ed a distanza di tempo, risposte (più o meno) efficaci anche al “vuoto” prodotto dalla morte di un congiunto nei “percorsi di vita quotidiana attiva” del danneggiato (così Cass. Civ. n. 28989/2019).

In conclusione, la ricomposizione della morfologia propria del danno parentale, così come sino ad oggi percepita dalla giurisprudenza, sul piano descrittivo, conferma che la sua dimensione temporale, nel duplice aspetto della sua durata e della tendenziale, progressiva riduzione della sua intensità, rappresenta un suo carattere essenziale.

E, dunque, un connotato di primaria importanza dei pregiudizi che ne costituiscono il contenuto e rilevano ai fini della sua valutazione equitativa e della conseguente commisurazione del suo risarcimento.

L'importanza della dimensione temporale del danno parentale nella giurisprudenza

Questa conclusione è confortata dal fatto che numerose altre pronunce dimostrano come la dimensione temporale del danno parentale abbia un peso determinante ai fini della sua quantificazione e, dunque, della liquidazione del risarcimento dovuto ai danneggiati.

Si tratta di quelle decisioni con le quali le Corti hanno esercitato il potere riduttivo del risarcimento determinato sulla base dei criteri tabellari perché il “meno longevo” fra danneggiato e vittima primaria (e cioè, generalmente, quest'ultima) possedeva, in concreto, un'aspettativa di vita inferiore a quella media a causa di una condizione clinica compromessa da gravi patologie.

In questi casi, la dimensione temporale del pregiudizio sofferto dal danneggiato è oggettivamente ridotta rispetto a quella che ordinariamente si presume, facendola corrispondere all'aspettativa di vita media risultante dai dati ISTAT.

In concreto la sua “speranza di vita” è minore di quella media e, quindi, la prova presuntiva della probabile durata della privazione del rapporto parentale non può essere inferita da quest'ultima, bensì da quella, minore, in concreto prevedibile.

Ad esempio, la Corte d'appello di Venezia (sentenza n. 1577/2022), con riguardo al caso di un “grande anziano” (83 anni) affetto da “gravi e plurime patologie”, tali da far ritenere al CTU medico-legale “più probabile una sua premorienza […] nell'intervallo compreso fra 2 e 5 anni”, ha ridotto del 20% il risarcimento calcolato secondo la nuova tabella “a punti” del Tribunale di Milano perché “nel 2011 la speranza di vita di un maschio di 83 anni era di 6,52 anni”.

In ciò la Corte lagunare ha ritenuto di uniformarsi alla più recente giurisprudenza di legittimità (Cass. Civ. n. 4551/2019, n. 679/2016) che ha “riconosciuto rilevanza in tema di danno da premorienza alla durata effettiva della vita”, sostenendo che “la probabile durata della vittima rileva sempre perché ai prossimi congiunti si risarcisce un “danno conseguenza”” e quindi il “giudizio prognostico” sulla dimensione temporale di tale pregiudizio, da compiersi ai fini liquidativi, deve riferirsi alla “speranza di vita della vittima primaria e non del prossimo congiunto da risarcire”.

Si badi che, significativamente, questa decisione fa riferimento non già all'età della vittima primaria, bensì alla sua “speranza di vita”.

È questa, infatti, e non l'età della vittima primaria, la vera “misura” del pregiudizio sofferto dal suo congiunto per la deprivazione del rapporto parentale.

Analogo il ragionamento che ha sorretto una decisione del Tribunale di Milano (sentenza n. 8741/2020) nel caso di un altro ottantatreenne che non godeva “di condizioni di salute ottimali”, sì da “far presumere che la sua aspettativa di vita non fosse particolarmente lunga” e da motivare quindi la dimidiazione del “valore base previsto nella forbice della Tabella milanese”.

Perciò, anche in questo caso, la dimensione temporale del pregiudizio, intesa quale presumibile durata della privazione subita dal congiunto, ha avuto un peso determinante nella quantificazione del risarcimento.

Si noti che queste decisioni sono, in concreto, espressione del “potere equitativo integrativo” attribuito dagli artt. 1226 e 2056 c.c. al Giudice del merito quanto alla selezione dei “criteri obiettivi – id est verificabili - idonei a valorizzare tutte le variabili del caso concreto ed a consentire la verifica "ex post" del ragionamento seguito dal Giudice in ordine all'apprezzamento della gravità del fatto” (Cass. Civ. n. 12913/2020).

E, in tale prospettiva, che le Corti hanno attribuito rilievo, ai fini della aestimatio del danno alla presumibile durata della vita futura del “meno longevo” fra danneggiato e vittima primaria, ravvisandovi una fondamentale dimensione del pregiudizio non patrimoniale patito dal congiunto per la privazione del “rapporto parentale”.

Tale soluzione liquidativa ovviamente presuppone il riconoscimento che quest'ultimo non si realizza e non si esaurisce istantaneamente, al verificarsi dell'evento morte che lo cagiona, ma è destinato a perpetuarsi, proiettandosi nel futuro della vita del danneggiato per una durata che, seppure sul piano prognostico e probabilistico, può essere individuata secondo criteri oggettivi (l'aspettativa di vita media ovvero quella in concreto prevedibile per la vittima primaria).

All'insieme di queste considerazioni consegue con evidenza che la “misura” di questa proiezione temporale del danno parentale, al pari della minore o maggiore prossimità del suo rapporto con la vittima, è una delle “dimensioni” che contribuiscono a circoscriverne l'entità e, quindi, a determinarne la consistenza.

Cosicché essa assume un'importanza centrale per la sua aestimatio e, conseguentemente, per la taxatio del credito risarcitorio del danneggiato.

Il danno da perdita parentale come “danno futuro” e la prova presuntiva della sua consistenza

Queste riflessioni mettono in luce due aspetti del danno parentale sui quali sembra il caso di riflettere maggiormente.

In primo luogo, sotto il profilo dogmatico, quello da perdita parentale dev'essere annoverato (salvo eccezioni) nella categoria tra i danni futuri.

E lo è in senso proprio, poiché per “danno futuro” s'intende quello che al “momento della decisione giudiziale […] non esiste ancora o esiste solo in parte” e che, tuttavia, abbia già “esternato elementi dai quali si può ragionevolmente prevedere che si produrrà”, in contrapposizione al “danno presente o attuale”, e cioè quello che, nel medesimo momento, “si è già determinato completamente” (Monateri, La responsabilità civile, in Trattato Sacco, Torino, 1998, 285).

Si tratta di un danno “per sua natura necessariamente in qualche misura incerto nel quantum, che richiede perciò una valutazione probabile, consentita dagli artt. 1226 e 2056 c.c.” (Trimarchi, La responsabilità civile: illeciti, rischio, danno, Milano, 2021, 595), proprio perché, nel momento in cui viene decisa la lite, normalmente, per buona parte, esso non si è ancora prodotto.

Dal che si desume l'assoluta rilevanza della sua dimensione temporale ai fini dell'aestimatio della sua consistenza e della conseguente taxatio del credito risarcitorio del danneggiato.

In secondo luogo, a tale sua natura (oltre che alla sua incommensurabilità in termini matematici, poiché esso incide su beni ed utilità di natura immateriale che sono insuscettibili di valutazioni di mercato) si ricollega la necessarietà della prova presuntiva della sua consistenza.

Prova questa che, per ciò che attiene alla sua dimensione temporale, come si è visto, non può prescindere dai dati statistici riguardanti l'aspettativa di vita media ovvero, qualora ne sussistano i presupposti, dalla stima probabilistica della effettiva, minore “speranza di vita” del “meno longevo” fra danneggiato e vittima primaria, qualora si debba presumere che questa sia inferiore a quella media.

Infatti, il danno da perdita parentale consiste in una sofferenza e in una perdita di utilità (costituita dalla soppressione della relazione con la vittima) destinate a proiettarsi nel futuro, per cui, ai fini della sua aestimatio, può mutuarsi quanto si è affermato per il danno biologico riguardo al fatto che “l'età assume rilevanza in quanto col suo crescere diminuisce l'aspettativa di vita (sicché è progressivamente inferiore il tempo per il quale il soggetto leso subirà le conseguenze non patrimoniali della lesione […])” (Cass. civ. n. 9011/2022).

La rilevanza della residua aspettativa di vita del più anziano fra vittima primaria e danneggiato

Da queste premesse possono trarsi delle conclusioni rilevanti ai fini di una revisione critica delle tabelle risarcitorie del danno parentale mediante il sistema “a punti”.

Anzitutto per quel che concerne la scelta dei criteri di assegnazione del punteggio.

Infatti, fra gli altri, oggi le tabelle di Roma e Milano prevedono quelli della “età della vittima” e della “età del superstite”, che la giurisprudenza (da ultimo Cass. Civ. n. 10579/2021) continua tralaticiamente ad indicare fra i “requisiti” di una corretta valutazione estimativa del danno parentale.

Senza però aver mai verificato se tale assunto sia razionalmente e giuridicamente fondato.

In realtà, i rilievi critici che possono muoversi a questo proposito sono più d'uno, e di tutta evidenza.

In primo luogo, a ben guardare, l'età della vittima, in sé considerata, non riveste alcuna rilevanza ai fini di dimensionare la consistenza dei pregiudizi subiti dal danneggiato, per la semplice ragione che non è la vittima a patire la sofferenza interiore e la privazione relazionale che debbono essere risarcite.

A ben guardare, invero, tale elemento può riverberarsi solo indirettamente su tali pregiudizi (nel caso che la vittima sia più anziana del danneggiato, come più frequentemente accade) perché influisce sulla “misura” di tempo per la quale il danneggiato dovrà sopportare il peso di quella sofferenza e di quella privazione.

Perché ciò che veramente rileva non è l'età, bensì la residua “aspettativa di vita”, come giustamente ha ritenuto la sentenza in esame.

Ciò in quanto, nella loro dimensione temporale, questi pregiudizi sono direttamente proporzionali al periodo di tempo per il quale, in assenza dell'evento dannoso, il danneggiato avrebbe presumibilmente continuato a godere della relazione col suo congiunto.

Allo stesso modo, l'età del danneggiato, in sé considerata, non ha alcuna rilevanza ai fini di determinare questa “dimensione temporale”.

Ad essa può essere attribuita una qualche incidenza ai fini della aestimatio del danno in questione, e cioè per graduare la consistenza del danno, ma per ragioni del tutto diverse.

E cioè perché una più giovane età del danneggiato può far presumere che questi abbia subito, quanto meno nel periodo immediatamente successivo all'evento dannoso, una sofferenza più intensa e maggiori difficoltà sul piano relazionale, dovute ad una perdita più inattesa e più crudele (come nel caso del danno subito da un figlio o un fratello in giovane età).

In realtà, anche l'età del danneggiato si riverbera indirettamente sulla dimensione temporale del danno nei soli casi in cui egli sia più anziano della vittima e, dunque, la sua “aspettativa di vita” sia inferiore a quella di quest'ultimo, perché, in questi casi, è solo per quel periodo di tempo che si può presumere che il superstite sia stato ingiustamente privato della relazione col congiunto deceduto.

Le considerazioni che precedono convergono nel rendere evidente come sia nel giusto il Giudice patavino quando sostiene che, quanto alla dimensione temporale del danno parentale, l'unico criterio rilevante è quello dell' “aspettativa di vita media del soggetto” fra danneggiato e vittima “in astratto meno longevo” o, per meglio dire, della residua aspettativa di vita del più anziano fra il danneggiato e la vittima primaria, e cioè di quello fra i due che, alla data dell'evento mortale, godeva della minor speranza di vita.

Perché è per quel periodo di tempo che il danneggiato viene privato della relazione parentale, con tutte le conseguenze pregiudizievoli che ne possono derivare (e che è suo onere provare, anche solo presuntivamente).

Infatti, in assenza dell'illecito, il “rapporto parentale” sarebbe stato destinato ad esaurirsi naturalmente con la premorienza di uno dei suoi due protagonisti ossia, sul piano probabilistico, di quello che (alla data dell'illecito) godeva della minor “speranza di vita”.

Quindi, per questo aspetto, i criteri dell'età del danneggiato e dell'età della vittima primaria non hanno alcuna giustificazione razionale e dovrebbero essere sostituiti da quello della residua aspettativa di vita del più anziano fra danneggiato e vittima primaria.

La “misura” della dimensione temporale del danno parentale e la sua valorizzazione nel sistema tabellare “a punti”

Una seconda conclusione riguarda, invece, la modalità con la quale la dimensione temporale del danno parentale è attualmente valorizzata dai sistemi tabellari “a punti”.

Infatti, per un verso, si tratta di modalità assai rudimentali, perché prevedono lo stesso trattamento per classi decennali di età (Milano) o addirittura ventennali (Roma), così assimilando ingiustificatamente pregiudizi destinati a protrarsi per tempi molto diversi.

Dover sopportare la perdita di un coniuge o di un figlio per un anno, palesemente, non è la stessa cosa di doverla patire per dieci o addirittura vent'anni.

Nei due casi, inoltre, i pregiudizi causati dalla perdita parentale hanno una consistenza non solo diversa, ma davvero molto diversa, com'è intuitivo.

Pertanto è indiscutibile che attribuire lo stesso risarcimento per due danni così differenti è profondamente iniquo.

Per altro verso, tali modalità non tengono conto dell'altro dato di esperienza giustamente additato dal Giudice patavino (peraltro conformemente agli altri precedenti giurisprudenziali già citati), per cui la “sofferenza psicologica patita dalla vittima” (non diversamente dai pregiudizi relazionali già citati) è “caratterizzata da un dolore più intenso nel breve e poi destinato a scemare in maniera decisa nel corso degli anni”.

Infatti, considerando (solo) l'età della vittima e quella del danneggiato, le tabelle esistenti non consentono di modulare il relativo punteggio nel tempo (in misura progressivamente decrescente), in modo da adattarlo a questo connotato proprio dei pregiudizi da risarcire.

E, per un altro verso ancora, il “peso specifico” che le anzidette tabelle attribuiscono ai punteggi assegnabili per l'età del danneggiato e della vittima non pare proporzionato all'oggettiva importanza che la dimensione temporale del danno da perdita parentale riveste nell'economia della sua complessiva consistenza.

Sia nella tabella milanese che in quella romana quelli relativi all'età del danneggiato e della vittima, infatti, “pesano” per il 27% circa dei punteggi massimi attribuibili, esplicando un'incidenza molto relativa sui risarcimenti complessivamente liquidabili sulla scorta dei rispettivi valori-base e, in realtà, assai modesta soprattutto nell'economia della tabella romana, stante il ben maggiore ammontare del suo valore-base.

La “palese incongruenza” lamentata dalla sentenza annotata laddove questa evidenzia che l'impiego di entrambe tabelle “a punti” porta a liquidare risarcimenti “sostanzialmente simili” per danni destinati a protrarsi per periodi di tempo enormemente diversi (e l'“iniquità” di tale “situazione”) deriva in primo luogo proprio dalla sottovalutazione della loro dimensione temporale nella predeterminazione dei punteggi tabellari anzidetti.

Non è questa la sede per indicare le soluzioni tecniche ideali per rimediare simili incongruenze, ma, nella prospettiva del sistema tabellare “a punti”, il loro superamento non pare poter prescindere da tre precondizioni costituite:

a) dalla sostituzione dei criteri dell'età del danneggiato e della vittima con quello della residua aspettativa di vita del più anziano fra i due;

b) dall'attribuzione a tale criterio di una maggior incidenza ponderale ai fini del calcolo del risarcimento, sì che questa risulti proporzionata all'oggettiva rilevanza, ai fini dell'aestimatio della consistenza dei pregiudizi da risarcire, del fattore costituito dal periodo di tempo per cui il danneggiato dovrà presumibilmente sopportarli;

c) dalla modularità “a scalare” del risarcimento da liquidarsi in relazione alla durata di tale periodo di tempo, in modo che la sua quota relativa al periodo più prossimo all'evento dannoso sia massimale e quelle relative ai successivi periodi siano di valore progressivamente decrescente.

In conclusione

Benché la soluzione tecnica ideata dal Giudice patavino si esponga alle stesse critiche che la dottrina ha rivolto alle Tabelle di Roma e Milano, e principalmente a quella di prevedere “una scansione per punti non fondata su alcuna evidenza di carattere scientifico/metodologico” [Ziviz, Misura per misura (del danno da perdita del rapporto parentale), in Resp. civ. prev. 2021, 823] e sia (come le altre) perfettibile, le incongruenze alle quali essa tenta di por rimedio sono evidenti.

Ed accomunano entrambi i sistemi tabellari “a punti” (seppur in diversa misura).

Ambedue, infatti, consentono che danni di durata relativamente breve vengano risarciti con somme simili a quelle liquidabili per danni destinati, invece, a ripercuotersi per decenni nella vita interiore e in quella relazionale del superstite.

Con una conseguente ipervalutazione dei primi rispetto alla maggiore consistenza dei secondi, tale da trasformarli in una sorta di guidrigildo corrisposto per il vulnus recato al gruppo familiare della vittima, perchè non proporzionati all'effettiva perdita subita dal danneggiato.

La causa di questa discrasia sono il misconoscimento del parametro che effettivamente rileva per determinare la dimensione temporale dei pregiudizi da risarcire (e cioè della residua aspettativa di vita del più anziano fra vittima e danneggiato), la inadeguata ponderazione della sua oggettiva incidenza sulla consistenza del danno da risarcire e la imprecisa formulazione dei punteggi attribuibili.

I quesiti posti dalla sentenza annotata, peraltro, al di là dello specifico tema affrontato, dimostrano come il passaggio da un sistema liquidativo che (come quello della primegenia tabella milanese) attribuiva maggior discrezionalità al motivato esercizio del potere equitativo del Giudice del merito, ad un sistema tabellare “a punti”, come postulato dalla Cassazione, sia tutt'altro che miracolistico.

Infatti, chi intenda porsi in questa prospettiva liquidativa deve prendere atto quello da perdita parentale è, per sua natura, un danno poliedrico, multidimensionale e, quindi, oggettivamente complesso, perché la sua consistenza è condizionata da numerose variabili, che incidono in modo assai differenziato (oltre che notevolmente soggettivo) su di essa.

E che i criteri assunti per determinare il “punteggio” da attribuire ad ogni singolo danno (e così stimarne la consistenza) null'altro sono che delle astrazioni formulate ai fini della prova presuntiva della grandezza di ciascuna di queste numerose variabili.

Così si presume che il danno subito da un figlio per la morte di un genitore sia maggiore di quello del fratello di questi, che il pregiudizio di un figlio convivente sia più grave di quello che non conviveva con la vittima…

Ragion per cui, a ben guardare, la formulazione dei punteggi attiene da un lato al problema della prova presuntiva della consistenza dei pregiudizi causati dall'illecito e dall'altro a quello della motivazione della sentenza che su quella prova si fonda, dovendo rispettare l'imperativo del razionale ed oculato esercizio del potere equitativo affidato al Giudice del merito.

Ma, se così stanno le cose e se si intende davvero proseguire sulla via delle tabelle “a punti”, abbandonando quella della motivata equità della decisione del caso singolo (da esercitare sul presupposto di valore base personalizzabile fino ad un limite massimo), occorre allora prendere atto che la selezione dei criteri di attribuzione dei punteggi, l'attribuzione a ciascuno di essi di una certa valenza ponderale piuttosto che un'altra ai fini del risultato finale e la tecnica di modulazione dei singoli punteggi devono essere puntualmente giustificate sotto il profilo razionale.

Ciò che, ad oggi, proprio non sembra sia avvenuto.

Detto in altri termini, quando Cass. Civ. n. 10579/2021 ha predicato la superiorità della tabella “a punti” col lodevole intento di promuovere una maggior “uniformità e prevedibilità” dei risarcimenti, non sembra aver ponderato la complessità dello strumento che ha indicato a tal fine e le difficoltà che l'ideazione e la giustificazione di una simile tabella avrebbe implicato.

Prova ne sia il fatto che si sia poi limitata a riproporre, quali suoi “requisiti”, i criteri meramente indicativi in precedenza ideati dalla giurisprudenza di merito, fra i quali quelli dell'età della vittima e del danneggiato che, come riteniamo di aver dimostrato, non sono affatto idonei a quantificare la misura della dimensione temporale del danno parentale.

Pertanto, qualora s'intenda perseverare nella via della tabella “a punti” (scelta che, invero, meriterebbe una più meditata riflessione), parrebbe saggio considerare le tabelle attualmente edite non già come un punto di arrivo, bensì come l'inizio di un percorso di verifica e di affinamento dei criteri liquidativi previsti, della loro valenza ponderale e delle modalità di attribuzione dei punteggi stabiliti per i singoli criteri.

Ciò che dovrebbe farsi da un lato monitorando le indicazioni che emergono dalla curia, con riguardo alla varietà della casistica dei danni da risarcire, e dall'altro mediante una più approfondita riflessione teorica sulla natura e sui connotati propri del danno da perdita parentale, finalizzata a forgiare criteri liquidativi realmente corrispondenti alla sua morfologia e, dunque, alla effettiva consistenza che esso assume nei singoli casi concreti.

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