Modalità di tassazione dei proventi illeciti

24 Marzo 2023

Secondo la Cassazione, per poter procedere alla tassazione di proventi illeciti non occorre una sentenza di condanna che accerti la sussistenza del delitto presupposto.
Massima

Ai fini dell'applicazione della disciplina in tema di tassazione dei proventi illeciti non è necessario che la sussistenza del delitto presupposto sia accertata da una sentenza di condanna passata in giudicato, essendo sufficiente che il fatto costitutivo di tale delitto non sia stato giudizialmente escluso, nella sua materialità, in modo definitivo e che il giudice procedente ne abbia incidentalmente ritenuto la sussistenza.

Il caso

La Corte di Cassazione, con l'Ordinanza in commento, ha chiarito alcuni rilevanti profili in tema di tassazione dei proventi illeciti.

Nel caso di specie, l'Agenzia delle Entrate aveva proposto ricorso per cassazione avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale, che ne aveva rigettato l'appello avverso la sentenza di primo grado, che aveva a sua volta accolto il ricorso del contribuente avverso un avviso di accertamento, con il quale l'Ufficio, sulla base di PVC della Guardia di Finanza - innescato a sua volta da un procedimento penale nei confronti dello stesso contribuente - aveva recuperato a tassazione, per il 2008, la somma di Euro 539.288,43.

Come acclarato in sede di indagini penali, il contribuente, ponendo in essere condotte con abuso d'ufficio in concorso con altri, aveva distratto in suo favore, a titolo di c.d. incentivo all'esodo per la cessazione volontaria del rapporto di lavoro, in modo difforme da quanto deliberato dal Comitato di Gestione dell'ente, dando luogo così a maggior reddito (inquadrabile nella categoria dei redditi diversi) quale provento illecito ai sensi dell'art. 14, l. n. 537/1993.

La Commissione Tributaria Regionale aveva ritenuto illegittimo l'avviso di accertamento in quanto:

1) in base a quanto verbalizzato in sede di PVC dalla G.d.F., non emergeva la esatta individuazione della somma sospettata di costituire provento illecito suscettibile di essere recuperata a tassazione;

2) a prescindere dalla suddetta carenza nell'individuazione della somma, che si (voleva) assumere come ulteriore importo da recuperare a tassazione, la mancata definizione della questione penale, impediva di essere certi in ordine all'ammontare da sottoporre a tassazione tra i "redditi diversi" ai sensi della L. n. 537 del 1993, art. 14, non potendosi prescindere, secondo il giudice di merito, in un'interpretazione della norma costituzionalmente orientata, dal giudicato penale, o quantomeno dalla presenza di elementi che potessero supportare adeguatamente l'esistenza dell'illecito fonte del provento illecitamente ottenuto.

Nel proporre ricorso per cassazione l'Amministrazione finanziaria deduceva quindi la violazione e falsa applicazione dell'art. 14, comma 4, l. n. 537/1993, per avere la CTR ritenuto illegittimo l'avviso di accertamento in questione, in quanto non era stato definito il procedimento penale nei confronti del contribuente (per appropriazione indebita), ancorchè, stante il principio di completa autonomia delle sfere dell'azione penale e amministrativa, l'Amministrazione finanziaria potesse comunque procedere alla contestazione del maggior reddito derivante da illecito anche nell'ipotesi di mancato accertamento (definitivo) in sede penale della natura illecita della percezione delle somme di denaro da parte del medesimo contribuente.

Con un secondo motivo di impugnazione si denunciava poi la nullità della sentenza impugnata per violazione del d.lgs. n. 546 del 1992, art. 1, comma 2, artt. 2 e 19, in combinato disposto con gli artt. 277 e 112 c.p.c., per avere la CTR annullato integralmente l'atto impositivo, non avendo, a suo avviso, l'Ufficio individuato con precisione l'entità del provento illecito da recuperare a tassazione, ancorchè, in forza del principio del giudizio tributario come giudizio d'impugnazione-merito, il giudice tributario, nel ritenere invalido l'atto impositivo per motivi non formali, fosse tenuto ad esaminare la pretesa tributaria, riconducendola, semmai, alla corretta misura entro i limiti posti dalle domande di parte.

La questione

Rileva la Corte come la seconda ratio della decisione, e cioè il fatto che la mancata definizione della questione penale non permetteva di essere certi in ordine all'ammontare da sottoporre a tassazione, assumeva carattere assorbente e che il motivo di impugnazione che “aggrediva” tale ratio era fondato.

Evidenziano i giudici di legittimità che il quadro normativo di riferimento è costituito dall'art. 14, comma 4, l. n. 537/1993, che, nella formulazione vigente ratione temporis, prevedeva "Nelle categorie di reddito di cui al testo unico delle imposte sui redditi, approvato con d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 6, comma 1, devono intendersi ricompresi, se in esse classificabili, i proventi derivanti da fatti, atti o attività qualificabili come illecito civile, penale o amministrativo se non già sottoposti a sequestro o confisca penale. I relativi redditi sono determinati secondo le disposizioni riguardanti ciascuna categoria".

La Cassazione ha del resto a tal proposito già affermato il principio secondo cui i proventi derivanti da fatti illeciti, qualora non siano classificabili nelle categorie reddituali di cui all'art. 6, comma 1, d.P.R. n. 917/1986, vanno, comunque, considerati come redditi diversi, in base a quanto espressamente stabilito dall'art. 36, comma 34-bis, d.l. n. 223/2006, norma quest'ultima avente efficacia retroattiva, in quanto interpretazione autentica dell'art. 14, comma 4, l. n. 537/1993 (cfr., Cass., Sez. V, 7 agosto 2009, n. 18111; Cass., Sez. V, 28 dicembre 2017, n. 31026).

Le soluzioni giuridiche

Come ancora chiarito dalla Suprema Corte, non occorre in questi casi che la sussistenza del delitto presupposto sia accertata da una sentenza di condanna passata in giudicato, essendo sufficiente che il fatto costitutivo di tale delitto non sia stato giudizialmente escluso, nella sua materialità, in modo definitivo e che il giudice procedente ne abbia incidentalmente ritenuto la sussistenza (cfr., Cass., sez. 5, n. 6093 del 2022).

Nella specie, pertanto, il giudice di appello non aveva fatto corretta applicazione dei suddetti principi, in quanto aveva ritenuto illegittima la ripresa a tassazione di tale somma, limitandosi ad osservare che "la mancata definizione (quanto meno alla data della sentenza di primo grado) della questione penale, non permette(va) di essere certi in ordine all'ammontare da sottoporre a tassazione tra i redditi diversi" a norma della L. n. 537 del 1993, art. 14, con ciò senza operare, in ossequio al principio di autonomia del giudizio tributario rispetto a quello penale (ex multis, Cass., Sez. 6 - 5, Ordinanza n. 28174 del 24/11/2017; Sez. 6 - 5, Ordinanza n. 16262 del 28/06/2017;Cass., sez. 5, n. 16858 del 2021) una valutazione incidentale della sussistenza o meno nei confronti del contribuente degli estremi del reato di appropriazione illecita, quale assunta fonte del provento recuperato a tassazione nella categoria dei redditi diversi.

Osservazioni

A prescindere dallo specifico caso processuale, in termini più generali, giova anche evidenziare quanto segue.

L'art. 14, comma 4, legge 24 dicembre 1993, n. 537, laddove stabilisce che nelle categorie di reddito di cui all'art. 6, comma 1, d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, devono intendersi ricompresi i proventi derivanti da fatti, atti o attività qualificabili come illecito civile, penale o amministrativo, costituisce, come visto, interpretazione autentica della normativa contenuta nel Tuir (Cass., n. 27357 del 24/10/2019).

Il c.d. "pretium sceleris" si deve peraltro sempre considerare come reddito imponibile, e ciò anche nel caso in cui, ad esempio, le somme siano state percepite da soggetti che si siano prestati, in base ad accordi precedentemente intercorsi, a riversarle a terzi a titolo di "tangente", essendo del tutto irrilevante, quanto all'imponibilità di tale tipo di reddito, l'intenzione di non trattenerle nel proprio esclusivo interesse (cfr., Cass., n. 1058 del 18/01/2008).

Premesso dunque che la previsione di legge in esame non distingue tra novella ricchezza prodotta dal reato e ricchezza tout court, precedentemente tassata presso la persona offesa, va affermato chiaramente l'assoggettamento a tassazione di ogni tipo di proventi illecito, senza che sussista alcuna lesione dell'art.53 Cost.

La tassazione non “scatta” solo se viene disposta la confisca del profitto del reato.

Il reddito derivante dagli illeciti, essendo il reddito un dato economico e non giuridico è dunque comunque tassabile.

Quando la norma di cui alla L. 537/93 (sulla scia, peraltro, di tangentopoli) venne introdotta, la dottrina, per parte sua, affrontò l'argomento, basandosi su due distinte posizioni:

- l'una, per così dire, a carattere "giuridico", contraria all'imponibilità dei proventi illeciti;

- l'altra, per così dire, a carattere "economico", tendente, invece, ad ammetterla.

Secondo la prima tesi i proventi derivanti da attività illecite penalmente rilevanti non erano suscettibili di imposizione tributaria, dato che l'attività illecita non poteva essere considerata presupposto di imposta, costituendo il risultato ottenuto, pretium sceleris e non reddito tecnicamente e giuridicamente inteso; diversamente, secondo tale tesi, si sarebbe pervenuti alla conseguenza di chiedere all'autore dell'illecito di denunciare al Fisco i relativi proventi, con ciò finendo in sostanza con l'autodenunciarsi (in aperta violazione del noto principio nemo tenetur se detegere).

A sostegno, invece, della tesi della tassabilità, poi prevalsa, stava la considerazione che presupposto dell'imposizione è soltanto il possesso di un reddito (concezione cosiddetta "economica"), indipendentemente dalla sua provenienza.

In altre parole, chi trae proventi dall'attività illecita realizza, comunque, una ricchezza che costituisce la causa del pagamento di un tributo.

Per chi commette delitti da cui deriva un determinato provento, dunque, non vige alcuna immunità fiscale.

In base all'art. 53 Cost., del resto, ciascuno deve contribuire alle spese pubbliche. E vi deve dunque contribuire (a maggior ragione) anche chi delinque, o comunque ottiene proventi da attività illecite.

La fattispecie, del resto, non rileva solo ai fini imposte dirette, ma anche ai fini Iva.

La Sentenza n. 24471 del 17 novembre 2006 della Suprema Corte ha infatti stabilito che, in forza dell'art. 14, comma 4, della L. 24 dicembre 1993, n. 537, le attività illecite sono soggette, oltre che alle imposte sui redditi, anche all'Iva.

Secondo la Corte Suprema, in ogni caso, l'attività illecita deve essere soggetta all'Iva in base ai principi dell'ordinamento comunitario, a cui l'Italia non può sottrarsi, secondo i quali (vedi Corte di giustizia della Comunità europea, causa C-283/95 dell'11 giugno 1998), se vi è concorrenza tra attività svolte lecitamente ed illecitamente, non vi è distinzione tra operazioni lecite ed illecite.

Analoghe considerazioni sono desumibili inoltre dalla sentenza n. 3550 del 12 marzo 2002 della Corte di Cassazione, secondo cui “sono assoggettabili anche ad Iva, in forza del principio stabilito dall'art. 14, comma 4 della L. 24 dicembre 1993, n. 537, i proventi derivanti da attività illecita”.

Continua la Corte inoltre stabilendo che “l'affermazione di principio secondo la quale i proventi provenienti da attività illecita non sarebbero assoggettabili ad imposta è manifestamente errata. Essa contrasta con il preciso disposto dell'art. 14, comma 4, della L. 24 dicembre 1993, n. 537, secondo il quale "i proventi derivanti da fatti, atti o attività qualificabili come illecito civile, penale o amministrativo", devono intendersi ricompresi nelle categorie di reddito di cui all'art. 6 del Tuir. Anche se la norma è riferita alla disciplina delle imposte sul reddito, è inequivocabilmente una norma di principio, in forza della quale non si può eccepire la esenzione tributaria per i proventi derivanti da attività illecite”, anche ai fini Iva.

Quindi, alla luce dell'insegnamento della Corte Suprema, l'articolo 14 citato rappresenta una norma di principio generale del nostro Ordinamento, un criterio ermeneutico sistematico, valido sia ai fini delle imposte dirette che ai fini IVA.

L'eventuale deroga, invero, entra in considerazione "solo in situazioni specifiche nelle quali, a causa delle caratteristiche particolari di talune merci o di talune prestazioni, è esclusa qualsiasi concorrenza tra un settore economico lecito e un settore illecito" (Cfr. Corte di Giustizia CE, sentenza 29 giugno 2000, causa C-455/98; sentenza 29 giugno 1999, causa C-158/98).

Conclusioni

Conseguentemente, se, da un lato, è stato effettivamente escluso che, per esempio, gli stupefacenti ed il denaro falso non possono essere inseriti nel circuito economico per il loro carattere, intrinseco, di merci illecite, dall'altro, l'alcool etilico non presenterebbe tale carattere (benché l'importazione e la vendita siano soggette in alcuni Paesi ad autorizzazione). L'alcool importato di contrabbando sarebbe quindi del tutto in concorrenza con i prodotti alcolici legalmente venduti, di modo che farebbe sorgere comunque un debito doganale e d'imposta Iva.

Gli accertamenti di questo tipo, peraltro, come ora confermato ancora dalla sentenza in commento, possono essere indirizzati anche nei confronti di chi è stato condannato con sentenza ancora non definitiva.

E, anche nel caso in cui il contribuente/imputato abbia patteggiato, la prova della legittimità della pretesa (fiscale) dell'Amministrazione sarà del resto fornita ex se, laddove la Corte di Cassazione ha infatti stabilito in via consolidata che il patteggiamento costituisce indiscutibile elemento di prova per il giudice tributario nel processo relativo alla legittimità dell'avviso di accertamento emesso dall'Agenzia delle Entrate per il recupero a tassazione dei proventi illeciti.

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