La tutela antidiscriminatoria nei rapporti di lavoro tra legislazione italiana e normativa europea

Isabella Seghezzi
06 Aprile 2023

Il diritto antidiscriminatorio ci presenta una moltiplicazione di fattori, ai quali si estende la protezione antidiscriminatoria in materia di lavoro. Il presente elaborato si pone la finalità di ripercorrere sinteticamente i principali passaggi dell'evoluzione ed affermazione del diritto antidiscriminatorio nell'ambito dei rapporti di lavoro, sia a livello nazionale e comunitario, con particolare riguardo al Codice delle Pari Opportunità tra uomo e donna di cui al Decreto legislativo 11 aprile 2006, n. 198, recentemente modificato dalla Legge 5 novembre 2021, n. 162.
La storia del diritto antidiscriminatorio: dall'Europa all'Italia

Il diritto antidiscriminatorio è vasto e omogeneo corpus di principi, concetti, strumenti di tutela di origine comunitaria.

La prima direttiva europea, ossia la Direttiva 75/117/CEE si occupa del tema della relativa all'applicazione del principio della parità delle retribuzioni tra i lavoratori di sesso maschile e di sesso femminile per uno stesso lavoro o per un lavoro di pari valore.

Non si tratta, quindi, di un generale divieto di discriminazione uomo-donna sui luoghi di lavoro, ma solo in un perimetro ben delimitato, che è quello della retribuzione.

La ratio della disposizione non si limitava solo ad evitare il c.d. dumping sociale, ma si legava anche agli scopi sociali della Comunità Europea, finalizzati a promuovere il costante miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro negli Stati Membri, come risulta dallo stesso Preambolo del TCE (cfr. Antonella Sciortino, L'uguaglianza di genere nell'UE: categorie giuridiche e tutele, in Rivista AIC, n. 4/2020, pubb. 23 settembre 2020).

Poco più avanti, sono state introdotte la Direttiva 76/207/CEE sulla parità di trattamento fra gli uomini e le donne per quanto riguarda l'accesso al lavoro, la formazione, la promozione professionale e le condizioni di lavoro e la Direttiva 97/80/CE sull'onere della prova nei casi di discriminazione basata sul sesso.

Proprio perché anzitutto legata ad obiettivi economici e di tutela del mercato, il diritto antidiscriminatorio si sviluppa partendo dall'ambito lavorativo, e solo successivamente l'alveo della discriminazione è esteso a fattori di rischio diversi dal sesso ed in settori ulteriori rispetto ai luoghi di lavoro.

È bene quindi sottolineare quelli che sono, nel loro insieme, i fattori di rischio tutelati in ambito comunitario: il sesso e il genere, l'origine etnica, la religione o convinzioni personali, l'età, la disabilità, l'orientamento sessuale. Tutti questi fattori di rischio trovano spazio nell'ambito della materia giuslavoristica.

La legislazione interna ha recepito la normativa comunitaria attraverso tre importanti provvedimenti:

(a) dalla Dir. 2000/43 discende il D. Lgs. 215/2003 («razza» e origine etnica);

(b) dalla Dir. 2000/78 discende D. Lgs. 216/2003 (religione, convinzioni personali, età, orientamento sessuale, disabilità);

(c) mentre dalle più recenti Dir. 2004/113 e Dir. 2006/54, D.lgs. 198/2006 discende il cd. «Codice pari opportunità» fra uomo e donna, che meglio si intende approfondire nel prosieguo.

La normativa antidiscriminatoria è, quindi, frazionata in più testi legislativi e, a seconda del caso specifico, e del fattore di rischio in rilevo, è necessario rifarsi a discipline differenti, ciascuna delle quali dotata di un proprio apparato di tutele, sanzioni, strumenti processuali per far valere i propri diritti.

Oltre un ventennio fa, si evidenziava come ‹‹Coloro che si occupano del tema della discriminazione e dell'eguaglianza nei rapporti di lavoro avvertono da tempo come la sua complessità derivi in primo luogo dalla difficoltà di definirne le coordinate con il solo ausilio degli strumenti di analisi tipici della dottrina lavorista›› (Marzia Barbera, Discriminazioni ed eguaglianza nel rapporto di lavoro, MILANO, 1991).

Si ritiene di non sottacere che nel corso degli anni si è assistito alla difficoltà del legislatore interno di costruire un sistema unitario di tutela antidiscriminatoria, con riguardo sia agli ambienti di lavoro che ad altri contesti non lavorativi, e di subire un “percorso rovesciato”, di adattamento della normativa interna a quella comunitaria, senza che il diritto interne prevedesse soluzioni migliori di quelle europee (Maria Vittoria Ballestrero, Le discriminazioni di genere sul lavoro. Dall'Italia all'Europa e viceversa, in Le discriminazioni di genere sul lavoro, Roma, 2005).

A ciò si aggiunga che, nonostante l'innovazione introdotta nell'ordinamento interno, su spinta europea, il diritto antidiscriminatorio anche sotto il profilo giudiziale della tutela specifica, ha avuto difficoltà ad emergere compiutamente.

Infatti, l'interesse del diritto del lavoro e dei giuslavoristi è stato definito storicamente modesto, e condizionato dalla convinzione che la normativa fosse di per sé sufficiente –nell'insieme dei suoi divieti, delle sue sanzioni e delle sue misure di carattere processuale– a prestare una forma di tutela adeguata.

Come noto, in attuazione dell'art. 19 TFUE –norma in base alla quale il Consiglio, deliberando all'unanimità secondo una procedura legislativa speciale e previa approvazione del Parlamento europeo, può prendere i provvedimenti opportuni per combattere le discriminazioni fondate sul sesso, la razza o l'origine etnica, la religione o le convinzioni personali, la disabilità, l'età o l'orientamento sessuale– sono state adottate le già citate direttive «gemelle», in quanto presentano molti aspetti comuni e sono volte a fornire una tutela organica contro le discriminazioni: la direttiva n. 2000/43/CE del 29 giugno 2000 che attua il principio della parità di trattamento fra le persone indipendentemente dalla razza e dall'origine etnica e la direttiva n. 2000/78/CE del 27 novembre 2000, che interviene sulla parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro; quest'ultima, peraltro, vede l'ambito di applicazione limitato al solo settore del lavoro.

Tale atteggiamento di diffidenza permase anche dopo l'approvazione delle citate direttive; tant'è che v'è chi ha sottolineato come “Nemmeno l'emanazione dei decreti (n. 215 e n. 216) di attuazione delle due direttive del 2000 nell'estate scorsa, ha suscitato grande interesse, se non all'interno della cerchia delle solite “vestali di parità” e dei pochi altri studiosi che non pensano che le questioni di genere siano questioni “di donne per donne”. (Gisella de Simone, Le discriminazioni di genere sul lavoro).

Il Codice delle pari opportunità

Entrando più nello specifico della materia è opportuno segnalare che il genere mantiene, a tutti gli effetti, una sua specificità e una disciplina separata. La Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea distingue la previsione di un generale divieto di discriminazione di cui all'art. 21 –che si riferisce ad una pluralità di fattori, compreso il sesso– dedicando una disposizione specifica alla parità tra uomini e donne, in tutti i campi della vita e delle relazioni, compresi quelli concernenti l'occupazione, il lavoro e la retribuzione.

L'evoluzione legislativa è approdata all'introduzione nel nostro ordinamento del Codice delle Pari opportunità tra uomo e donne, di cui al D.lgs. n.198/2006, in attuazione dell'articolo 6 della legge 28 novembre 2005, n. 246, finalizzato a combattere le discriminazioni esistenti tra i due sessi, ovvero garantire una valida uguaglianza degli stessi in ogni ambito sociale ed economico.

Tale legge istitutiva del Codice del 2006 ha subito nel tempo delle revisioni, dapprima attraverso il D.lgs. n. 5/2010, poi attraverso la legge di bilancio 205/2017 ed infine attraverso la L. 5 novembre 2021, n.162 quest'ultima intervenendo anche sulle definizioni di discriminazione.

Ai sensi dell'art. 25, comma 1, costituisce discriminazione diretta qualsiasi disposizione, criterio, prassi, atto, patto o comportamento, nonché l'ordine di porre in essere un atto o un comportamento, che produca un effetto pregiudizievole discriminando le candidate e i candidati, in fase di selezione del personale, le lavoratrici o i lavoratori in ragione del loro sesso e, comunque, il trattamento meno favorevole rispetto a quello di un'altra lavoratrice o di un altro lavoratore in situazione analoga.

La giurisprudenza di legittimità ha, per esempio, ritenuto che il mancato rinnovo di un contratto a termine a una lavoratrice in gravidanza può integrare un'ipotesi di discriminazione diretta (Cass., sez. lav., 26 febbraio 2021, n.5476).

Mentre, ai sensi dell'art. 25, comma 2, si realizza una discriminazione indiretta quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento, compresi quelli di natura organizzativa o incidenti sull'orario di lavoro, apparentemente neutri mettono o possono mettere i candidati in fase di selezione e i lavoratori di un determinato sesso in una posizione di particolare svantaggio rispetto a lavoratori dell'altro sesso, salvo che riguardino requisiti essenziali allo svolgimento dell'attività lavorativa, purché l'obiettivo sia legittimo e i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e necessari.

A titolo esemplificativo, sul tema dei requisiti per l'assunzione, la Corte di Appello di Roma ha recentemente ribadito che, qualora sia prevista quale requisito una statura minima identica per uomini e donne, in contrasto con il principio di uguaglianza - perché evidentemente presuppone, erroneamente, l'insussistenza di diversità di statura mediamente riscontrabile tra uomini e donne - si configura una discriminazione indiretta a sfavore di queste ultime. In tali casi il giudice deve verificare, anche incidentalmente, la funzionalità del requisito richiesto rispetto alle mansioni da svolgere e, nel caso, la disapplicazione (Corte di Appello, Roma, sez. lav., 5 luglio 2021, n. 2676).

Completa il quadro sopra descritto il comma 2-bis, la cui nuova formulazione contiene disposizioni assai più ampie di quelle precedenti. E, infatti, mentre il testo superato trattava della discriminazione legata allo stato di gravidanza, alla maternità o alla paternità ovvero in ragione della titolarità e dell'esercizio dei relativi diritti, il testo attuale fa rientrare nella definizione di discriminazione ogni trattamento o modifica dell'organizzazione delle condizioni e dei tempi di lavoro che, in ragione del sesso, dell'età anagrafica, delle esigenze di cura personale o familiare, dello stato di gravidanza / maternità /paternità, ovvero in ragione della titolarità e dell'esercizio dei relativi diritti, pone o può porre il lavoratore in almeno una delle seguenti condizioni: (a) svantaggio rispetto alla generalità dei lavoratori; (b) limitazione delle opportunità di partecipazione alla vita o alle scelte aziendali; (c) limitazione rispetto all'avanzamento e alla progressione di carriera.

Il Codice delle pari opportunità, partendo dal principio di illiceità delle discriminazioni tra uomo e donna nei rapporti economici, pone il divieto di discriminazione in tutti gli aspetti della vita economica, e in particolare:

– per l'accesso al lavoro, in forma subordinata, autonoma, o in qualsiasi altra forma, compresi i criteri di selezione e le condizioni di assunzione nonché la promozione, indipendentemente dalle modalità di assunzione e qualunque sia il settore o il ramo di attività, e a tutti i livelli di gerarchia professionale;

– per la formazione e l'orientamento professionale;

– nella retribuzione per l'attività svolta, vietandosi qualsiasi discriminazione, diretta e indiretta, concernente un qualunque aspetto o condizione delle retribuzioni, per quanto riguarda uno stesso lavoro o un lavoro al quale è attribuito un valore uguale;

– nell'attribuzione delle qualifiche, delle mansioni, delle progressioni di carriera;

– nell'accesso alle prestazioni previdenziali, prevedendosi in particolare che le lavoratrici in possesso dei requisiti per avere diritto alla pensione di vecchiaia hanno diritto di proseguire il rapporto di lavoro fino agli stessi limiti di età previsti per gli uomini da disposizioni legislative, regolamentari e contrattuali;

– nell'accesso alle prestazioni pensionistiche complementari collettive, consentendo differenti trattamenti solo entro determinati limiti;

– nell'accesso agli impieghi pubblici, per cui la donna può accedere, senza limitazioni di mansioni e di svolgimento di carriera, a tutte le cariche, professioni e impieghi pubblici, nei vari ruoli, carriere e categorie, anche nelle Forze armate e nel Corpo della Guardia di Finanza, con riferimento all'arruolamento, al reclutamento e alla carriera militare.

Ad avviso di chi scrive, ciò che il codice introduce di innovativo sono gli strumenti specifici di tutela giudiziale, individuale e collettiva, con la legittimazione ad intervenire della consigliera di parità e del sindacato, anche su delega, con la possibilità di utilizzare il rito ordinario dell'art. 414 oppure un rito speciale.

Nel caso di discriminazione è, inoltre, opportuno sapere che l'onere della prova è “alleggerito” (cfr. Alberto Guarisio, La tutela giurisdizionale, in La tutela antidiscriminatoria. Fonti, strumenti, interpreti, Torino, 2019, p. 445)

Infatti, la caratteristica che più caratterizza il rito antidiscriminatorio è contenuta nell'art. 40 del Codice delle Pari Opportunità e consiste in uno spostamento dell'onere della prova dal ricorrente/discriminato al resistente/discriminante. Concretamente, il ricorrente può fornire elementi di fatto desumibili anche da dati statistici (relativi ad assunzioni, retribuzione, mansioni, qualifiche, trasferimenti e progressioni di carriera e licenziamenti) purché idonei a fondare, in termini precisi e concordanti, la presunzione dell'esistenza di atti o patti o comportamenti discriminatori in ragione del sesso, spetta al convenuto l'onere della prova sull'insussistenza della discriminazione.

Tale previsione agevola in maniera sostanziale la posizione della persona discriminata, che si trova spesso in difficoltà nel reperimento, all'interno della realtà aziendale e in una posizione non certo paritaria rispetto al proprio datore, delle prove necessarie per la compiuta dimostrazione dell'esistenza di una condotta discriminatoria.

La recente sentenza della Corte di giustizia europea 12 gennaio 2023

Un dato positivo, tuttavia, emerge dall'incremento della casistica giurisprudenziale, che funge da indice nella valutazione di come la nostra società abbia metabolizzato la cultura antidiscriminatoria.

Ricopre un ruolo centrale, nell'ambito del diritto antidiscriminatorio, la giurisprudenza della Corte di Giustizia, la cui giurisprudenza ha contribuito in maniera sostanziale e decisiva, a forgiare le categorie di discriminazione.

Il più recente approdo giurisprudenziale è rappresentato dalla Sentenza del 12 gennaio 2023 che affronta il tema dell'occupazione, dell'accesso a tutte le attività professionali e delle definizioni di lavoro autonomo e lavoro subordinato.

In particolare, la Corte di Giustizia si è dovuta esprimere su un caso di violazione del principio della parità di trattamento a causa di una discriminazione diretta fondata sull'orientamento sessuale per quanto riguarda le condizioni di accesso e di esercizio di un'attività economica svolta nell'ambito di un contratto di diritto privato. Nel decidere, la Corte di Giustizia ha dovuto ripercorrere le finalità perseguite dalla Direttiva n. 78/2000, volta ad eliminare, per ragioni di interesse sociale e pubblico, tutti gli ostacoli fondati su motivi discriminatori all'accesso ai mezzi di sostentamento e alla capacità di contribuire alla società attraverso il lavoro, a prescindere dalla forma giuridica in virtù della quale esso è fornito.

La direttiva n.2000/78 è quindi destinata a coprire un ampio ventaglio di attività professionali. Di queste, tuttavia, possono beneficiare della tutela antidiscriminatoria di cui alla citata direttiva, solo le attività esercitate nell'ambito di un rapporto giuridico caratterizzato da una “certa stabilità”. E poiché, per poter esercitare effettivamente la sua attività professionale il ricorrente necessitava della conclusione di un contratto d'opera, tale elemento non può che rientrare nella nozione di “condizioni di accesso” alle attività autonome ai sensi dell'art.3, § 1, lett. a), della direttiva 2000/78.

Ad avviso della Corte di Giustizia, quindi, tale disposizione deve essere interpretata nel senso che: “osta ad una normativa nazionale la quale , in virtù della libera scelta della controparte contrattuale ha l'effetto di escludere dalla tutela contro le discriminazioni, che deve essere offerta in forza di tale direttiva, il rifiuto, fondato sull'orientamento sessuale del soggetto di cui trattasi, di concludere o rinnovare un contratto con quest'ultimo avente ad oggetto la realizzazione di talune prestazioni da parte dello stesso nell'ambito dell'attività autonoma.

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