Alla Corte costituzionale la legittimità della preclusione alla impugnazione dell'estratto di ruolo

17 Aprile 2023

Due recenti ordinanze hanno promosso la rimessione alla Corte costituzionale della legittimità, specie ai sensi dell'art. 24 Cost. sulla garanzia del c.d. diritto di accesso al giudice, dell'art. 12, comma 4, del d.P.R. n. 602/1973, che nella formulazione modificata dall'art. 3-bis del d.l. n. 146/2021, preclude l'impugnazione dell'estratto di ruolo.
Massima

E' rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 3-bis del d.l. n. 146/2021 che ha introdotto il comma 4 all'art. 12 d.P.R. n. 602/1973 sia in relazione agli artt. 3 e 24 Cost. (poiché tipicizza le ipotesi in cui è ammessa l'impugnazione del ruolo e della cartella di pagamento, limitandola a un ristretto numero di casi in cui può procurare un pregiudizio, nei soli casi in cui il contribuente sia soggetto che opera con la pubblica amministrazione), sia in relazione all'art. 77 Cost. (difettando nella disposizione legislativa sopradetta i requisiti di necessità e urgenza), sia in relazione agli artt. 111 e 113 Cost. (in quanto il divieto di impugnazione dell'estratto di ruolo, introdotto con l''art. 3-bis, nel comprimerebbe il diritto di difesa costringendo il contribuente a trascinarsi una situazione debitoria nonostante la stessa sia illegittima, errata e/o prescritta), sia in relazione all'art. 117 Cost. (dal momento che la disposizione ridetta ha compresso eccessivamente la posizione dei contribuenti anche in considerazione della crisi pandemica che li ha coinvolti e della ripresa dell'attività di riscossione).

Il caso

L'impugnazione dell'estratto di ruolo è stata e rimante al centro di un complesso dibattito, tutt' altro che sopito a dispetto dall'articolata pronuncia della Sezioni Unite della quale si parlerà.

La questione si pone a valle della modifica legislativa operata dal d.l. n. 146/2021, art. 3-bis, inserito in sede di conversione dalla l. n. 215/2021, col quale, novellando il d.P.R. n. 602/1973 art. 12, è stato inserito il comma 4-bis; nel prosieguo si darà, appunto, conto del tenore della modifica legislativa e dei suoi margini di applicabilità ai processi pendenti.

Occorre chiarire innanzitutto che l'estratto di ruolo è un mero elaborato informatico contenente gli elementi della cartella, ossia gli elementi del ruolo afferente a quella cartella, che non contiene pretesa impositiva alcuna, a differenza del ruolo, il quale è atto impositivo, in quanto tale annoverato espressamente dal d.lgs. n. 546/1992 art. 19 tra quelli impugnabili. Diversamente, non risultando l'estratto di ruolo indicato in tale elencazione, per l'applicazione del criterio di predeterminazione normativa degli atti impugnabili, se ne è tradizionalmente sostenuta la non impugnabilità. Tale indicazione è stata dapprima rimessa in discussione dalla giurisprudenza, anche di legittimità, e infine confermata dalla Suprema Corte.

La questione

Dapprima, la Corte di cassazione ha ammesso che il contribuente, notiziato anche in forza di propria esclusiva iniziativa dell'esistenza di una pretesa tributaria mediante l'accesso all'estratto di ruolo, possa impugnare l'atto impositivo a esso sotteso e presupposto, vale a dire la cartella di pagamento, che veicola la pretesa oggetto di iscrizione a ruolo, lamentando l'omissione o l'invalidità della notifica della cartella.

Difatti, le Sezioni Unite, con sentenza n. 19704/2015, avevano ammesso l'impugnabilità dell'atto impositivo generatore dell'estratto di ruolo anche in mancanza di atti riscossivi e tanto al fine di rispondere al “bisogno di tutela dato dall'interesse a contrastare l'avanzamento della sequenza procedimentale in corso: l'invalidità della notificazione (e, a maggior ragione, l'omissione di essa) … rileva in quanto, impedendo la conoscenza dell'atto e quindi la relativa impugnazione, produca l'avanzamento del procedimento sino alla conclusione dell'esecuzione”.

La successiva pronuncia delle Sezioni Unite (Cass. civ., sez. un., n. 26283/2022) ha ritenuto invece insussistenti le limitazioni alla tutela alla luce della dilatazione degli spazi di azione attribuiti al contribuente in sede di riscossione, quali la possibilità di impugnare di fronte al giudice tributario l'atto di pignoramento (Cass. civ., sez. un., nn. 13913/2017 e 13916/2017; in termini, tra varie, Cass. civ., sez. un., n. 7822/2020, cit.); dall'altro lato, in quanto – ed è questo il profilo introduttivo che qui si approfondirà - “la Corte costituzionale (con sentenza n. 114/2018) ha escluso qualsivoglia vuoto di tutela nel caso di omessa o invalida notificazione della cartella di pagamento o dell'eventuale successivo avviso contenente l'intimazione ad adempiere”.

La stessa Corte costituzionale ha, invero, posto rimedio alla carenza di tutela che si profilava dinanzi al giudice ordinario, affermando l'illegittimità costituzionale dell'art. 57 del d.P.R. n. 602/1973 nella parte in cui non prevedeva che, nelle controversie che riguardano gli atti dell'esecuzione forzata tributaria successivi alla notificazione della cartella o all'intimazione di pagamento, fossero ammesse le opposizioni regolate dall'art. 615 c.p.c. Difatti, afferma il giudice delle leggi, “la pur marcata peculiarità dei crediti tributari non è tale da giustificare che …non vi sia una risposta di giustizia se non dopo la chiusura della procedura di riscossione ed in termini meramente risarcitori”.

Conseguentemente, secondo la più recente giurisprudenza delle Sezioni Unite, è prevalente l'esigenza – sottesa alla disposizione di nuova introduzione - di contrastare la prassi di azioni giudiziarie spesso strumentali, proposte anche a distanza di tempo assai rilevante dall'emissione delle cartelle e in situazioni di inattività dell'agente per la riscossione, a evidenti fini di riduzione del contenzioso. Ciò comporta, secondo la Corte, l'assenza di ogni profilo di arbitrarietà o irragionevolezza nella disposizione di cui al menzionato comma 4-bis.

Le soluzioni giuridiche

Sia il giudice di pace sia il giudice tributario partenopei, l'uno adito a seguito di opposizione proposta da un contribuente contro l'estratto di ruolo, ex art. 615 del c.p.c., l'altro adito in sede di ricorso avverso estratti di ruolo, hanno inteso con le ordinanze in commento rimettere la questione alla Corte costituzionale ritenendo non manifestamente infondata la censura della norma surrichiamata rispetto gli artt. 3, 24, 77, 111, 114, 117 della Costituzione, con particolare riferimento alla violazione del diritto di difesa in quanto, sotto un primo e invero centrale profilo “l'ambito delle previsioni (di impugnazione degli atti impositivi) è alquanto riduttivo e discriminerebbe tutti i contribuenti che non operano con la pubblica amministrazione che dalla iscrizione a ruolo del debito erariale subiscono un pregiudizio”.

L'argomentazione costituisce sintesi di una serie di osservazioni critiche svolte dai giudici remittenti – sostanzialmente dello stesso contenuto - alla pronuncia resa dalla Corte di Cassazione (Cass. civ., sez. un., n. 26283/2022) della quale invero analoga anche se più articolata composizione si trova in una pronuncia di merito che ha invece scelto di adottare una interpretazione – ritenuta costituzionalmente orientata – nel concreto non retroattiva della disposizione dell'art. 4-bis ricitato, in consapevole contrasto con le sezioni unite.

Si ritiene da parte delle ordinanze in commento che la tutela anticipatoria sia un valore costituzionale legato al principio della concreta tutela del diritto di difesa (richiamando Cass. civ., sez. un., n. 19074/2015, per cui “la tutela anticipatoria appare correttamente finalizzata a contrastare quanto più tempestivamente possibile un procedimento di imposizione e riscossione, specie nell'ipotesi in cui il danno potrebbe divenire in certa misura non più reversibile se non in termini risarcitori). Essa dovrebbe colmare una abnorme ed ingiustificata disparità tra i soggetti del rapporto tributario, tenuto conto che, diversamente dal processo civile, qui tutto dipende dall'Amministrazione procedente, sicché il procedimento potrebbe proseguire indisturbato fino alla sua conclusione attraverso il compimento dell'esecuzione senza che il contribuente abbia avuto mai modo di contestare la pretesa attraverso una impugnazione; e perché “in alcuni casi potrebbe anche non esservi un ulteriore atto prima di procedere ad esecuzione forzata sulla base del ruolo”. In tali casi il contribuente potrebbe quindi subire un danno immediato (ad esempio il “fermo” di beni mobili) che non sarebbe in alcun modo in grado di prevenire se non ricorrendo alla tutela cautelare dopo aver subito tale pregiudizio.

Ancora, si valorizza in motivazione in entrambi i provvedimenti l'interesse del contribuente a tutelarsi dinanzi al “pregiudizio connesso alla iscrizione in un registro di pubblici debitori nei confronti dei quali è stato avviato un procedimento di esecuzione coatta” e perché potrebbe aversi un “eventuale completamento della esecuzione senza possibilità per il contribuente di far valere le proprie ragioni dinanzi ad un giudice i cui pregiudizi, potrebbero essere eventualmente fatti valere poi solo coi tempi e i modi di un'azione risarcitoria nei confronti dell'Amministrazione”.

In ultimo, assume rilievo – secondo la prospettazione dei remittenti - anche il principio di buon andamento della Pubblica amministrazione, in ragione delle conseguenze pregiudizievoli per essa derivanti da una procedura esecutiva male instaurata perché gli effetti di aggravio sul contenzioso non potrebbero comunque mai essere giustificati dalla compressione del diritto di difesa che altrimenti si verificherebbe.

Sul punto, va per vero ricordato che anche dopo la notifica della cartella permangono margini nei quali continua a sussistere la giurisdizione del giudice tributario, al quale il contribuente può rivolgersi.

Infatti, il passaggio della potestas iudicandi in capo al giudice ordinario si ha solo col compimento del primo atto dell'esecuzione esattoriale, che è il pignoramento.

La giurisprudenza della Corte Suprema (Cass. civ., sez. un., n. 34447/2019; Cass. civ., sez. un., n. 7822/2020) e anche quella del giudice delle leggi (Corte cost. n. 114/2018) chiariscono come le vicende precedenti la cartella costituiscono situazioni nelle quali la tutela del contribuente è riservata al giudice tributario mentre quelle successive vedono generalmente agire il giudice ordinario. Ciò ove dopo la notifica della cartella vi sia l'inizio dell'esecuzione, ad esempio con la notifica dell'atto di pignoramento. Quest'ultimo, primo atto dell'esecuzione, rientra nella competenza del giudice ordinario dell'esecuzione, secondo il riparto delineato dal combinato disposto degli artt. 19 d.lgs. n. 546/1992 e 57 d.P.R. n. 602/1973.

Ulteriormente, i giudici remittenti sospettano la violazione dell'art. 77 Cost. in termini di eccesso di delega: “la delega conferita al Governo era limitata all'ambito della riforma fiscale e non della giustizia tributaria” talché sarebbe manifestamente illegittimo l'art. 3-bis “non essendo soddisfatti i requisiti della straordinaria necessità e della straordinaria urgenza”, materia, quella della giustizia, tra l'altro, riservata dalla normazione del parlamento.

Inoltre, la mancata impugnazione dell'estratto di ruolo sarebbe contrastante anche con gli art. 111 e 113 Cost., il cui dettato impone di non porre ostacoli all'accesso alla giustizia, introducendo così nel nostro ordinamento una norma favorevole esclusivamente all'Amministrazione che si giova della stabilizzazione degli effetti dell'atto risultante non impugnabile.

Osservazioni

Ritengo debba in primo luogo ricordarsi che tra la notifica della cartella di pagamento per tributi e l'inizio dell'esecuzione forzata vi è una fase intermedia nella quale ben possono essere adottati atti quali l'avviso ex art. 50 d.P.R. n. 602/1973, il preavviso di fermo o di ipoteca, il rigetto di un'istanza di sgravio, o l'intimazione di pagamento. Tali atti esprimono la prossima messa in esecuzione di una pretesa creditoria di natura tributaria e come tali sono pacificamente impugnabili dinanzi alla Commissione tributaria, alla quale è proponibile anche la domanda cautelare di sospensione dell'atto impugnato, in applicazione dell'art. 47 d.lgs. n. 546/1992 che la prevede come concedibile – ove sussistano i requisiti – anche inaudita altera parte in forza del disposto del comma 3.

Solo con l'inizio effettivo dell'esecuzione esattoriale si realizza il trasferimento del potere giurisdizionale a sindacare della legittimità degli atti del creditore (l'Amministrazione finanziaria in persona del riscossore) in capo al giudice ordinario. Per vero, ciò potrebbe non verificarsi in ogni caso, perché se il pignoramento costituisce, nell'assunto difensivo, il primo atto con cui il contribuente è venuto a conoscenza della pretesa tributaria, per invalidità della notifica degli atti presupposti, ugualmente tale situazione sarebbe tutelabile di fronte al giudice tributario (Cass. civ., sez. un., n. 13913/2017, confermata da Cass. civ., sez. un., n. 7822/2020).

Né questo assetto è mutato per effetto della sentenza n. 114/2018, con la quale la Corte costituzionale ha dichiarato la parziale incostituzionalità dell'art. 57, comma 1, lettera a) d.P.R. 602/1973: anche la Consulta, per individuare il riparto di giurisdizione tra giudice tributario ed ordinario, fa riferimento alle di vicende che hanno preceduto e che seguono la notifica della cartella. Nondimeno, in tali casi nei quali si dubita e si contesta la notifica della cartella, la tutela del contribuente si risolve nell'ammettere l'impugnazione – sempre in applicazione del generale principio di cui all'art. 19 comma 3 del d.lgs. n. 546/1992 – dell'atto precedente in occasione dell'impugnazione dell'atto successivo, potendosi far valere i vizi dell'atto non notificato.

In tal senso il comma 1 lettera a) dell'art. 57 ridetto è stato dichiarato parzialmente incostituzionale “nella parte in cui non prevede che, nelle controversie che riguardano gli atti dell'esecuzione forzata tributaria successivi allanotifica della cartella di pagamento o all'avviso di cui all'art. 50 del d.P.R. n. 602/1973, sono ammesse le opposizioni regolate dall'art. 615 c.p.c.”. Il problema di legittimità costituzionale era dato proprio dalla limitazione dell'opposizione ex art. 615 c.p.c., che, secondo la formula della lettera a), non poteva avere ad oggetto che le questioni concernenti la pignorabilità dei beni”. Restavano quindi escluse le opposizioni ex art. 615 c.p.c. volte a far valere sopravvenuti eventi estintivi del credito, come ad esempio la prescrizione, il pagamento o la caducazione per legge dei crediti stessi.

Ebbene, tale limitazione, secondo la Consulta, confliggeva “frontalmente con il diritto alla tutela giurisdizionale riconosciuto in generale dall'articolo 24 Costituzione e nei confronti della pubblica amministrazione dall'articolo 113 Costituzione, dovendo essere assicurata in ogni caso una risposta di giustizia a chi si oppone alla riscossione coattiva”.

Da qui la pronunzia di parziale incostituzionalità, che però, come visto, riguarda il citato comma 1 lett. a) dell'art. 57 “nella parte in cui non prevede che, nelle controversie che riguardano gli atti dell'esecuzione forzata tributaria successivi alla notifica della cartella di pagamento o all'avviso di cui all'art. 50 del d.P.R. n. 602/1973, sono ammesse le opposizioni regolate dall'art. 615 c.p.c.”.

Pertanto, la pronunzia fa riferimento proprio agli “atti dell'esecuzione forzata tributaria successivi alla notifica della cartella di pagamento…” con ciò accordandosi – proprio per mezzo del meccanismo di cui all'art. 19 d.lgs. n. 546/1992 – una tutela giurisdizionale contro gli atti della fase intermedia, ossia successivi alla cartella ma anteriori all'esecuzione.

Indicazioni analoghe provenivano dalla giurisprudenza di Legittimità (Cass. civ., sez. un., n. 13913/2017; Cass. civ., sez. un., n. 7822/2020) secondo la quale “in materia di esecuzione forzata tributaria, l'opposizione agli atti esecutivi riguardante l'atto di pignoramento, che si assume viziato per l'omessa o invalida notificazione della cartella di pagamento (o degli altri atti presupposti dal pignoramento), è ammissibile e va proposta ... davanti al giudice tributario”.

Mi pare allora che – diversamente da quanto temuto dai giudici remittenti - non siamo in presenza di un “vuoto di tutela”, qual era quello, evidente, relativo all'art. 57, d.P.R. n. 602/1973 oggetto della nota pronunzia della Corte costituzionale n. 114/2018, nemmeno per quanto concerne la tutela cautelare anche inaudita altera parte.

Neppure, peraltro, a mio avviso di verte in una ipotesi di vero e proprio solve et repete che la stessa Corte costituzionale nella pronuncia già citata in tale occasione ha chiaramente delineato nei suoi presupposti, diversi da quelli presenti nella fattispecie in esame; l'art. 6 della legge 20 marzo 1865, n. 2248, recante «Legge sul contenzioso amministrativo (All. E)» era la nota disposizione che, non solo condizionava la tutela giurisdizionale del contribuente alla pubblicazione del ruolo e all'iscrizione a ruolo dell'imposta (nel suo primo comma), ma anche prevedeva (nel suo secondo comma) che gli atti d'opposizione per essere ammissibili di fronte al giudice dovessero essere accompagnati dal «certificato di pagamento dell'imposta», attribuendo al solve la funzione di condizione di ammissibilità processuale dell'impugnazione giudiziale.

La Corte costituzionale ha poi precisato nella medesima sopradetta sentenza che “la pur marcata peculiarità dei crediti tributari, che può sì giovarsi di una disciplina di favore per l'amministrazione fiscale, come ritenuto da questa Corte (da ultimo, sentenza n. 90/2018), e che è a fondamento della speciale procedura di riscossione coattiva tributaria rispetto a quella ordinaria di espropriazione forzata, non è però tale da giustificare che, nelle ipotesi in cui il contribuente contesti il diritto di procedere a riscossione coattiva e sussista la giurisdizione del giudice ordinario, non vi sia una risposta di giustizia se non dopo la chiusura della procedura di riscossione ed in termini meramente risarcitori”.

Con ciò pare potersi dire che l'incostituzionalità sorgerebbe unicamente quando il diniego di giustizia consista nel consentire l'accesso alla tutela solo una volta definita la procedura riscossiva, il che in questo caso non avviene stanti gli spazi di tutela sopra descritti.

Per vero, la giurisprudenza costituzionale riconosce un'ampia discrezionalità del legislatore nella conformazione degli istituti processuali (tra le ultime, sentenze n. 23/2015, n. 243/2014 e n. 157/2014), anche in materia di competenza (ex plurimis, sentenze n. 159/2014 e n. 50/2010), sebbene resti “naturalmente fermo il limite della manifesta irragionevolezza della disciplina, che si ravvisa, con riferimento specifico al parametro evocato, ogniqualvolta emerga un'ingiustificabile compressione del diritto di agire (sentenza n. 335/2004)”. E allora ciò che conta è che non vengano imposti oneri tali o non vengano prescritte modalità tali “da rendere impossibile o estremamente difficile l'esercizio del diritto di difesa o lo svolgimento dell'attività processuale (sentenza n. 63/1977; analogamente, cfr. sentenza n. 427/1999 e ordinanza n. 99/2000; ordinanza n. 386/2004)”;

La Consulta ha anche tenuto conto dell'orientamento della CEDU (Corte cost., n. 94/2017), rilevando che «sostanzialmente analoghe sono le traiettorie seguite dalla consolidata giurisprudenza della Corte EDU, secondo cui «il “diritto a un tribunale”, di cui il diritto all'accesso […] costituisce un aspetto, non è assoluto, potendo essere condizionato a limiti implicitamente ammessi. Tuttavia, tali limiti non debbono restringere il diritto all'accesso ad un tribunale spettante all'individuo in maniera tale, o a tal punto, che il diritto risulti compromesso nella sua stessa sostanza. Inoltre, limiti siffatti sarebbero da considerarsi in violazione dell'articolo 6 § 1 a meno che non perseguano uno scopo legittimo e che esista un ragionevole rapporto di proporzionalità tra i mezzi impiegati e lo scopo perseguito» (Corte EDU, 4 febbraio 2014, Staibano e altri contro Italia, paragrafo 27; nonché la giurisprudenza ivi citata: 24 settembre 2013, Pennino c. Italia, paragrafo 73; Papon c. Francia, 25 luglio 2002, paragrafo 90; 14 dicembre 1999, Khalfaoui c. Francia, paragrafi 35-36)”.

Se quindi – secondo lo scrivente – le considerazioni sopra svolte non inducono a ritenere particolarmente agevole la via della incostituzionalità, altre indicazioni possono trarsi in ordine all'esistenza di profili non sottoposti alla più recente pronuncia delle Sezioni Unite, e quindi ancora suscettibili di confronto con le disposizioni costituzionali.

Si tratta della rilevanza, o irrilevanza, della formazione di un giudicato espresso o inespresso (quindi implicito) che abbia avuto luogo nei gradi di merito in ordine proprio alla questione preliminare della impugnabilità dell'estratto di ruolo.

Viene infatti da chiedersi se tale giudicato risulti o meno opponibile alla questione della inammissibilità dell'impugnazione, ove sussistano i presupposti per la sua dichiarazione da parte del giudice del gravame, anche in cassazione.

Anche su tale delicato profilo va quindi attesa rispettosamente la pronuncia del giudice delle leggi.

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