Revocazione per contrarietà alla CEDU

Francesco Terrusi
28 Aprile 2023

Il d.lgs. n. 149/2022 ha introdotto una nuova fattispecie di revocazione delle decisioni passate in giudicato il cui contenuto sia stato dichiarato dalla Corte europea dei diritti dell'uomo contrario alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, prevista dall'art. 391-quater c.p.c.
Inquadramento

Tra gli interventi del d.lgs. n. 149/2022 sul processo di cassazione (in generale cfr., volendo, F Terrusi, Il processo di cassazione, in Il processo civile dopo la riforma Cartabia, a cura di A. Didone- F. De Santis, Milano 2023) possiede una spiccata rilevanza – almeno sulla carta - l'introduzione della nuova fattispecie di revocazione delle decisioni passate in giudicato il cui contenuto sia stato dichiarato dalla Corte europea dei diritti dell'uomo contrario alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (d'ora in poi breviter solo CEDU) o a uno dei suoi Protocolli (art. 391-quater c.p.c.).

Si tratta di un rimedio totalmente innovativo e interamente concentrato sulla Corte di cassazione.

A esso può accedersi in concorrenza di due condizioni:

(i) che la violazione accertata dalla Corte europea abbia pregiudicato un diritto di stato della persona;

(ii) che l'equa indennità eventualmente accordata dalla Corte europea ai sensi dell'articolo 41 della Convenzione non sia risultata idonea a compensare le conseguenze della violazione stessa.

Il corredo normativo di riferimento è costituito dall'art. 41 della CEDU, a tenore del quale “se la Corte dichiara che vi è stata violazione della Convenzione o dei suoi Protocolli e se il diritto interno dell'Alta Parte contraente non permette se non in modo imperfetto di rimuovere le conseguenze di tale violazione, la Corte accorda, se del caso, un'equa soddisfazione alla parte lesa”.

Per cogliere il senso dell'innovazione è opportuno ricordare i termini del dibattito giurisprudenziale che l'ha preceduta.

Il dibattito giurisprudenziale anteriore

Innanzi tutto, la possibile riapertura dei processi civili, quando il contenuto del giudicato sia tale da integrare una violazione dei diritti garantiti dalla CEDU, violazione naturalmente accertata dalla Corte europea e tale non poter essere ristorata per equivalente in un eventuale giudizio di danno, corrisponde a una sollecitazione esplicita, da tempo fatta dalla Corte costituzionale, in vista di una effettiva restitutio in integrum in casi particolari.

Ciò la Corte costituzionale disse con le decisioni n. 93 del 2018 e n. 123 del 2017, specificamente valorizzando proprio la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo, e in particolare la sentenza della Grande camera, 5 febbraio 2015, Bochan contro Ucraina, e quella sempre della Grande camera, 11 luglio 2017, Moreira Ferreira contro Portogallo.

Nella sostanza era stato rilevato che l'art. 46, paragrafo 1, della CEDU, come inteso da quella medesima Corte, non impone - allo stato - un obbligo di riapertura dei processi civili e amministrativi.

E tuttavia la stessa Corte europea dei diritti dell'uomo, nell'interpretare il citato art. 46, paragrafo 1, aveva anche incoraggiato gli Stati contraenti a introdurre la misura ripristinatoria della riapertura dei processi non penali, lasciando poi a questi la relativa decisione.

In tal guisa l'accento è sempre stato posto sulla preminente necessità di tutelare i soggetti che, pur avendo preso parte al giudizio interno, non fossero stati parti (o non fossero parti necessarie) del giudizio convenzionale.

La Corte costituzionale, a sua volta, data l'importanza del tema dell'esecuzione delle sentenze della Corte europea anche al di fuori della materia penale, aveva auspicato, per un verso, un sistematico coinvolgimento dei terzi nel processo convenzionale e, per altro verso, un intervento del legislatore che permettesse di conciliare il diritto di azione delle parti vittoriose in sede di giurisdizione convenzionale con quello di difesa dei terzi (su questi aspetti v. anche C. cost. n. 6 del 2018).

Era stato così osservato che la riapertura dei processi interni, finanche penali, a seguito di sopravvenute sentenze della Corte europea dei diritti dell'uomo di accertamento della violazione di diritti convenzionali, non è un diritto assicurato dalla Convenzione (paragrafo 60, lettera a).

Ma si è anche detto che ciò non interferisce col problema se una eventuale pronuncia della medesima Corte europea possa invece esser suscettibile di fondare un'istanza di revocazione nel giudizio a quo, attesa l'opportunità di favorire in via interpretativa, o di introdurre in via legislativa, forme di tutela dei diritti fondamentali riconosciuti in sede convenzionale.

L'intervento sul c.p.c. e la concentrazione del rimedio presso la Corte di cassazione

L'intervento sul codice di procedura civile, mediante introduzione dell'art. 391-quater, si inserisce in un tale campo di discussione, e dei citati indirizzi rappresenta una sorta di adempimento.

Non esistendo un meccanismo processuale che consenta la riapertura del processo civile, la legge delega, al comma 10, lettera a), dell'art. unico, ha per l'appunto perseguito l'esigenza di introdurre un nuovo caso di revocazione, peraltro limitato alle sentenze emesse all'esito del processo civile che, in fase attuativa, siano declinate da particolari caratteristiche.

Per la complessità del rimedio, la competenza è stata concentrata sulla Corte di cassazione, in conformità di analoghe scelte di altri ordinamenti europei.

E' peraltro ovvio che una spiegazione aggiuntiva di tale scelta è che, di norma, i provvedimenti sottostanti sono almeno tendenzialmente integrati da decisioni della stessa Corte di cassazione, attesa la ricevibilità dei ricorsi alla Corte europea dei diritti dell'uomo solo dopo l'infruttuoso esaurimento delle vie giurisdizionali assicurate dal diritto nazionale.

Il tratto saliente dell'istituto

Il tratto saliente dell'istituto della revocazione del giudicato civile in presenza di violazioni alla Convenzione europea dei diritti dell'uomo accertate dalla Corte europea è che tali violazioni abbiano provocato un pregiudizio a un diritto di stato della persona, ove risulti impossibile rimuoverne le conseguenze tramite una tutela per equivalente.

Si deve trattare - è logico - di una inidoneità solo tendenziale, essendo il rimedio risarcitorio per sua natura finalizzato ad attribuire un'utilità economica alternativa.

La quale può tuttavia rivelarsi non del tutto satisfattiva in considerazione della tipologia del diritto leso.

Più complesso è stabilire il senso della locuzione “diritto di stato della persona”, che in prima approssimazione potrebbe dirsi evocativa della fattispecie degli status in senso tecnico (filiazione, cittadinanza, matrimonio e via dicendo).

Se così fosse l'ambito applicativo della norma diventerebbe assai stringente, com'è ovvio.

Per tale ragione una parte della dottrina ha opinato che il senso possa essere diversamente inteso, alla stregua di sinonimo cioè dei diritti non patrimoniali della persona, genericamente considerati (F.P. Luiso, Il nuovo processo civile, Commentario breve, Milano, 2023, 231).

Una soluzione di questo genere, per quanto conforme alla più estesa formulazione della previsione di delega, non sembra tuttavia consentita dal testo del decreto legislativo dal quale è sortito l'art. 391-quater; il quale testo, nel riferirsi ai “diritti di stato” assume una portata chiaramente restrittiva rispetto alle pur previste possibilità di intervento.

E' un fatto del resto che l'attuazione parziale di una legge delega non concretizza, in sé, una violazione dei principi costituzionali, in quanto non è dato riscontrare nel sistema l'eccesso di delega in minus.

La giurisprudenza della Corte costituzionale è nel senso che il parziale esercizio della delega da parte del legislatore può determinare una responsabilità politica del Governo verso il Parlamento, ma non una violazione dell'art. 76 cost., a meno che ciò non comporti uno stravolgimento completo della legge di delegazione: tra le moltissime, C. cost. n. 223 del 2019, C. cost. n. 304 del 2011, C. cost. n. 149 del 2005, nonché C. cost. n. 283 del 2013 (ord.) e n. 257 del 2005 (ord.). Il che non sembra potersi dire quanto alla disciplina della revocazione per contrarietà alla CEDU, perché niente conduce a ritenere che l'intera riforma fosse da questo punto di vista condizionata dalla necessità di dare più ampia colorazione della veste dell'istituto.

Del resto neppure la fattispecie in cui la violazione della CEDU si fosse concretata nel pregiudizio decisivo del diritto di difesa della parte a fronte di giudizi di contenuto patrimoniale, che pur era stata ipotizzata durante i lavori preparatorie della riforma, a opera della commissione ministeriale, in piena consonanza con l'ampiezza della norma di delega, ha trovato ingresso nel decreto legislativo delegato.

Ed è questo un sintomo abbastanza evidente della volontà del legislatore di contenere il nuovo rimedio in un ambito del tutto peculiare e marginale.

La disciplina processuale

Le regole alle quali l'art. 391-quater sottopone il giudizio di revocazione sono in certo qual modo semplici.

Il ricorso per revocazione può in questi casi esser proposto nel termine di sessanta giorni dalla comunicazione o, in mancanza, dalla pubblicazione della sentenza della Corte europea ai sensi del regolamento della Corte stessa.

Si apprende dalla relazione illustrativa che tale termine è stato determinato in coerenza con quello generale previsto dall'art. 325 c.p.c., cosa abbastanza naturale poiché ci si muove comunque all'interno del sistema delle impugnazioni.

Si applica l'art. 391-ter, secondo comma, c.p.c., nel senso che, quando pronuncia la revocazione, la Corte di cassazione decide la causa nel merito ove non siano necessari ulteriori accertamenti di fatto; altrimenti, pronunciata la revocazione, rinvia la causa al giudice che ha pronunciato la decisione cassata.

La necessità di limitare la fase rescissoria dinanzi la Corte di cassazione alle sole ipotesi in cui la nuova decisione sia possibile senza ulteriori accertamenti di fatto è coerente (non soltanto con la disciplina propria della revocazione in sé considerata, ma anche) con l'estraneità di una potestà istruttoria in capo alla Corte di legittimità, sicché il rinvio all'art. 391-ter deve essere letto in coordinazione col noto criterio secondo il quale una decisione sul merito, da parte della Corte di cassazione, è sempre subordinata al requisito della non necessità di ulteriori indagini istruttorie.

In dottrina, quanto all'art. 391-ter c.p.c., è stato affermato che la situazione data non sarebbe esattamente corrispondente a quella dell'art. 384 c.p.c., per la fondamentale ragione che una minimale attività di accertamento la Corte è comunque tenuta a fare per stabilire se esista il vizio denunziato in revocazione; sicché - si dice - la necessità o meno di nuovi accertamenti di fatto in sede rescissoria andrebbe apprezzata non solo con riferimento alle risultanze dell'attività cognitiva svolta nei pregressi gradi, ma anche rispetto a quanto accertato dalla stessa Corte di cassazione nella fase rescindente (F.P. Luiso, Diritto processuale civile, Milano 2022, II, 498 e seg., cui adde G. Impagnatiello, Commento all'art. 391-ter, in L.P. Comoglio-C. Consolo-B. Sassani-R. Vaccarella (a cura di), Commentario del codice di procedura civile, vol. IV, 2013, 1316 e seg.).

La puntualizzazione assume senso e significato ove sia revocata una decisione della Corte che abbia a sua volta deciso nel merito, non anche invece quando si tratti di revocazione di una decisione di rigetto del ricorso ovvero di una decisione solo rescindente.

Infatti, se la Cassazione non decide nel merito, il giudicato sostanziale, eventualmente in contrasto con la CEDU, si forma sulla decisione impugnata (in ipotesi di rigetto del ricorso) o su quella eventuale resa in sede di rinvio che non sia a sua volta impugnata.

Il punto semmai è che, secondo una più che consolidata giurisprudenza, in tutti i giudizi dinanzi alla Corte di cassazione la non necessità di nuovi accertamenti di fatto, ai fini di una possibile statuizione diretta sul merito, deve rilevarsi dal testo della decisione impugnata; nel senso che da questo deve emergere la sufficienza degli accertamenti effettuati per poter decidere la causa nel merito (ex aliis Cass. civ., sez. V, 14 maggio 2003, n. 7451, Cass. civ., sez. VI-2, 13 settembre 2013, n. 21045.).

Sicché, ove dal testo niente possa apprezzarsi, la fase rescissoria, tanto ai fini dell'art. 384 c.p.c., quanto ai fini dell'art. 391-ter c.p.c., non potrà mai essere attivata.

Secondo l'art. 391-quater l'accoglimento della revocazione non può pregiudicare i diritti acquisiti dai terzi di buona fede che non hanno partecipato al giudizio svoltosi innanzi alla Corte europea.

Tale condizione di buona fede è da valutare, naturalmente, anche in relazione al comportamento assunto rispetto al processo convenzionale.

Ed è importante sottolineare che unitamente all'introduzione della nuova fattispecie di revocazione per contrarietà del giudicato alla CEDU il legislatore ha poi modificato il testo dell'art. 397 c.p.c., chiarendo che la legittimazione a proporre l'azione di revocazione è attribuita anche al procuratore generale presso la Corte di cassazione.

Simile precisazione, considerando l'ampia formulazione del principio di delega, si giustifica con l'esigenza di salvaguardia di un interesse superiore dell'ordinamento a rimuovere le conseguenze di una violazione della Convenzione da parte di una decisione del giudice ordinario, non tollerabile in quanto già accertata dalla Corte europea dei diritti dell'uomo.

Un nodo problematico

Un nodo problematico può peraltro individuarsi in ciò: che l'art. 41 della CEDU, come all'inizio si diceva, stabilisce che la Corte europea, nel dichiarare che vi è stata una violazione della Convenzione o dei suoi Protocolli, può accordare alla parte lesa un'equa soddisfazione “se il diritto interno dell'Alta Parte contraente non permette se non in modo imperfetto di rimuovere le conseguenze di tale violazione”.

A sua volta il rimedio della revocazione introdotto dall'art. 391-quater richiede come condizione della revocazione, tra l'altro, che l'equa indennità eventualmente accordata dalla Corte europea ai sensi dell'art. 41 della CEDU non sia idonea “a compensare le conseguenze della violazione”.

Questa condizione, diremmo in certo qual modo circolare, comporta una distonia di ordine logico, perché proprio per il fatto che la revocazione è prevista come rimedio di diritto interno per il caso della decisione che sia stata dichiarata in contrasto con la CEDU o con uno dei Protocolli è logico pensare che la Corte europea non accorderà mai (o comunque difficilmente sarà indotta ad accordare), nei casi orientati dall'art. 391-quater, quell'equa soddisfazione alla quale la norma allude.

Come quindi si possa ipotizzare, in concreto, la concomitante sussistenza delle due condizioni è difficile dire, e l'istituto, da questo punto di vista, sembra patire un senso di vacuità che ne potrebbe minare la portata applicativa.

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