Misura dell’indennizzo per irragionevole durata del processo

Rosaria Giordano
19 Febbraio 2016

Ragion pratica dell'introduzione del rimedio interno costituito dalla legge 24 marzo 2001, n. 89, c.d. Pinto è stata la consolidata giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo nel senso della sussistenza di una presunzione di violazione da parte dello Stato italiano dell'art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali laddove individua tra i caratteri dell'equo processo la ragionevole durata dello stesso.
Inquadramento

Ragion pratica dell'introduzione del rimedio interno costituito dalla l. 24 marzo 2001, n. 89, c.d. Pinto

è stata la consolidata giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo nel senso della sussistenza di una presunzione di violazione da parte dello Stato italiano dell'

art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali

(CEDU) laddove individua tra i caratteri dell'equo processo la ragionevole durata dello stesso.

La necessità di introdurre uno specifico rimedio “interno” volto a consentire la denuncia dell'irragionevole durata del processo dinanzi alle giurisdizioni nazionali è derivata, in particolare, dalla pronuncia resa dalla Grande Camera della Corte europea nel caso Kudla c. Polonia del 26 ottobre 2000, mediante la quale è stato chiarito che, qualora uno Stato contraente della CEDU non abbia introdotto al proprio interno uno specifico rimedio per lamentare l'eccessiva durata dei processi, ciò si pone in contrasto con l'

art. 13 CEDU

, in virtù del quale «ogni persona i cui diritti e le cui libertà riconosciuti nella presente Convenzione siano stati violati, ha diritto ad un ricorso effettiva davanti ad un'istanza nazionale».

In tal modo la Corte di Strasburgo, nel suffragare, con la richiamata sentenza, una rinnovata concezione di carattere «positivo» del principio di sussidiarietà, ha di fatto «invitato» anche l'Italia a prevedere nell'ambito del proprio sistema giudiziario un mezzo di ricorso per lamentare specificamente la violazione dell'

art. 6 CEDU

sotto il profilo dell'eccessiva durata dei processi. Invero, la

legge Pinto

è stata emanata, solo qualche mese più tardi, proprio per evitare le conseguenze negative che, almeno sul piano politico, sarebbero indubbiamente derivate da un atteggiamento passivo dello Stato italiano a fronte delle numerose violazioni della Convenzione.

Ne deriva che

la

l. n. 89/2001

deve essere applicata in modo conforme, anche in ordine all'entità dell'indennizzo riconosciuto, alla giurisprudenza della Corte di Strasburgo posto che, diversamente, il rimedio interno dovrebbe considerarsi ineffettivo con conseguente possibilità

ex

art. 35 CEDU

di nuovi ricorsi in sede europea (CONSOLO 572).

Ineffettività del rimedio interno: il caso c.d. Scordino

Il rischio di una discrasia, a svantaggio del ricorrente, tra l'entità degli indennizzi accordati in sede europea e quelli liquidati in ambito nazionale si è concretizzato sin dai primi mesi di applicazione del rimedio interno introdotto dalla

l. c.d. Pinto

, a causa della tendenza delle Corti d'Appello a liquidare indennizzi molto più bassi rispetto a quelli riconosciuti in sede europea, tendenza peraltro avallata dalla giurisprudenza di legittimità.

A fronte di tale situazione, la Corte europea è intervenuta con la decisione sulla ricevibilità resa nel caso Scordino c. Italia il 27 marzo 2003 (in Corr. Giur., 2003, 1494, con nota di SONAGLIONI), mediante la Corte europea ha ritenuto ricevibile un ricorso con il quale era stata direttamente adita, quindi senza che il relativo decreto fosse impugnato in Cassazione, per lamentare un'insufficiente liquidazione in sede di appello del danno da irragionevole durata del processo. Secondo la Corte di Strasburgo, infatti, la regola dell'

art. 35 CEDU

nella parte in cui pone la condizione di ricevibilità del previo esaurimento delle vie di ricorso interne non può trovare applicazione nelle ipotesi in cui un rimedio nazionale, pur formalmente esistente, risulti in concreto privo di effettività e quindi inutile per i singoli.

CASISTICA

Gli importi concessi dal giudice nazionale a titolo di risarcimento danni possono essere anche inferiori a quelli da essa liquidati, «a condizione che le decisioni pertinenti» siano «coerenti con la tradizione giuridica e con il tenore di vita del paese interessato», e purché detti importi non risultino irragionevoli, reputandosi, peraltro, non irragionevole una soglia pari al 45% del risarcimento che la Corte avrebbe attribuito. Pertanto, stante l'esigenza di offrire un'interpretazione della l. 24 marzo 2001 n. 89 idonea a garantire che la diversità di calcolo non incida negativamente sulla complessiva attitudine ad assicurare l'obiettivo di un serio ristoro per la lesione del diritto alla ragionevole durata del processo, evitando il possibile profilarsi di un contrasto della medesima con l'art. 6 Cedu, come interpretata dalla Corte di Strasburgo, la quantificazione del danno non patrimoniale deve essere, di regola, non inferiore ad euro 750,00 per ogni anno di ritardo eccedente il termine di ragionevole durata in relazione ai primi tre anni eccedenti la durata ragionevole, e non inferiore a euro 1.000,00 per quelli successivi, in quanto l'irragionevole durata eccedente tale periodo comporta un evidente aggravamento del danno.

Cass. civ., sez. IV, 28 maggio 2012, n. 8471.

La liquidazione di un indennizzo in misura inferiore a quella ordinariamente applicata dalla Corte europea da un lato non costituisce violazione di legge, e, dall'altro lato, non configura vizio di motivazione, se il giudice del merito giustifichi lo scostamento dall'ordinario parametro con la modesta entità delle somme richieste in giudizio e con l'assoluta incertezza del risultato perseguito, per essere la pretesa basata su principio di diritto fermamente escluso dalla uniforme giurisprudenza dell'ufficio giudiziario adito.

Cass. civ., sez. I, 7 novembre 2011, n. 23029

Un indennizzo liquidato in misura inferiore ai parametri indennitari della CEDU, qualora il giudice di merito abbia accertato la modestia della "posta in gioco" sia per il valore della causa, sia per la natura collettiva del ricorso, che può indurre ad una minore personalizzazione della controversia e, di conseguenza, ad una minore sofferenza per il suo prolungarsi.

Cass. civ., sez. I, 12 luglio 2011, n. 15268

Tale pronuncia si fonda proprio sulla circostanza che le Corti d'Appello in sede applicativa e, quindi, la stessa Corte di legittimità tendevano a svilire, nei primi mesi di vigenza della l. n. 89/2001, il legame sussistente tra la medesima e la CEDU, liquidando in concreto indennizzi significativamente più ridotti (v., anche, nella giurisprudenza di legittimità, Cass. civ., sez. I, 10 aprile 2003, n. 5664).

L'intervento delle Sezioni unite e la conformazione alla giurisprudenza europea

Per evitare la prevedibile conseguenza di nuove e reiterate condanne in sede europea in ragione della ritenuta ineffettività del rimedio interno introdotto,

le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con quattro decisioni rese lo stesso giorno (

Cass

. civ.

, sez. un., 26 gennaio 2004 nn. 1338

1340

, in Giust. Civ., 2004, 907, con nota di MOROZZO DELLA ROCCA), hanno quindi affermato rispetto all'applicazione della

l. n. 89/2001

, da un lato, che i

danni non patrimoniali legati ai ritardi nella definizione dei giudizi in via di principio, ovvero in assenza di particolari circostanze legate alla fattispecie concreta, non devono essere provati, e, per quel che maggiormente interessa in questa sede, che il giudice italiano è in linea di principio tenuto a considerare i criteri ermeneutici elaborati in materia dalla Corte dei diritti umani anche sotto il profilo della determinazione dell'entità dell'indennizzo richiesto dal ricorrente.

Sebbene a partire dalle quattro decisioni gemelle delle Sezioni Unite del gennaio 2004 la Corte di Cassazione abbia riconosciuto l'esistenza di un vincolo del giudice nazionale, anche nella determinazione dell'entità dell'indennizzo correlato alla violazione del termine di ragionevole durata del processo, alla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo, tuttavia è rimasta ferma un'importante differenza con la stessa, sempre in senso peggiorativo della posizione del soggetto privato ricorrente.

Invero, se la Corte di Strasburgo ha tradizionalmente accordato l'indennizzo per ciascun anno di durata della procedura ritenuta irragionevolmente lunga, è

rimasto consolidato nella nostra giurisprudenza interna il diverso principio in forza del quale in tema di equa riparazione il danno deve essere liquidato non avendo riguardo all'intera durata del processo ma per il solo periodo eccedente la durata ragionevole (

Cass. civ.,

sez. I, 13 gennaio 2010, n, 401

).

Tale differente impostazione interpretativa è stata giustificata dalla S.C. in ragione della formulazione in parte qua della

l. Pinto

, peraltro non modificata neppure dalla recente novellazione realizzata dalla

l. n. 134/2012

. In particolare, invero, si è evidenziato a riguardo che sebbene per la Corte europea, in caso di durata irragionevole del processo, l'indennizzo calcolato per un anno deve essere moltiplicato per ogni anno di durata del procedimento e non per ogni anno di ritardo, diversamente, per il giudice nazionale è

sul punto vincolante il comma 3 dell'

art. 2 l. n. 89/2001

, secondo cui è influente solo il danno riferibile al periodo eccedente il termine ragionevole (

Cass. civ.,

sez. I, 17 giugno 2009, n. 14108

).

La stessa Corte di legittimità, tuttavia, non ha trascurato di riconoscere che il diverso parametro di calcolo dell'equa riparazione, introdotto dalla Corte europea, produce l'effetto di aprire alla vittima della violazione la via sussidiaria dell'applicabilità dell'art. 41 della Convenzione da parte della Corte stessa

(

Cass. civ.,

sez. I, 3 gennaio 2008, n. 14

).

Entità dell'indennizzo ex art. 2-bis l. n. 89 del 2001

Sino alle novità introdotte sull'entità degli indennizzi erogabili prima nel 2012 ed ora dalla legge di stabilità per l'anno 2016, si era consolidato il principio in virtù del quale, stante l'esigenza di offrire un'interpretazione della

l. 24 marzo 2001 n. 89

idonea a garantire che la diversità di calcolo non incida negativamente sulla complessiva attitudine ad assicurare l'obiettivo di un serio ristoro per la lesione del diritto alla ragionevole durata del processo, evitando il possibile profilarsi di un contrasto della medesima con l'

art. 6 Cedu

, come interpretata dalla Corte di Strasburgo, la quantificazione del danno non patrimoniale deve essere, di regola, non inferiore ad euro 750,00 per ogni anno di ritardo eccedente il termine di ragionevole durata in relazione ai primi tre anni eccedenti la durata ragionevole, e non inferiore a euro 1.000,00 per quelli successivi, in quanto l'irragionevole durata eccedente tale periodo comporta un evidente aggravamento del danno (

Cass.

civ.,

28 maggio 2012 n. 8471

;

Cass.

civ.,

14 ottobre 2009 n. 21840

).

Si riteneva, poi, che, in ogni caso, l'importo di euro 500,00 per ciascun anno di ritardo rende illegittima la liquidazione (

Cass.

civ., 01

marzo 2007 n. 4845

).

L'aumentare degli esborsi

a carico dello Stato a titolo di equa riparazione ha indotto, peraltro, il legislatore ad intervenire in due occasioni sull'impianto originario della

l. n. 89/2001

allo scopo, evidente, di ridurre l'entità dell'indennizzo riconoscibile.

In primo luogo, infatti, l'

art. 55 d. l. 22 giugno 2012 n. 83

, convertito nella

l. 7 agosto 2012 n. 134

ha introdotto all'interno della

l. c.d. Pinto l'

art. 2-

bis

, rubricato «misura dell'indennizzo».

Il primo comma di tale disposizione normativa non aveva carattere innovativo poiché recepiva la richiamata giurisprudenza della S.C., consolidata almeno a partire dall'anno 2004, stabilendo che il giudice liquida a titolo di equa riparazione una somma di denaro, non inferiore a 500 euro

e non superiore a 1.500 euro, per ciascun anno, o frazione di anno superiore a sei mesi, che eccede il termine ragionevole di durata del processo.

Peraltro, profilo non secondario di differenza della nuova normativa rispetto all'assetto tradizionale era la possibilità, riconosciuta di liquidare un indennizzo pari anche all'importo di 500 euro per ciascun anno di ritardo, mentre, alla stregua di quanto già evidenziato, la Corte di Cassazione riteneva che l'importo dell'equa riparazione non potesse in ogni caso scendere al di sotto della soglia della somma di 750 euro per ogni anno eccedente la durata ragionevole del processo.

Gli importi riconoscibili sono di recente stati ulteriormente ridotti.

In evidenza

In particolare, la legge di stabilità per l'anno 2016

ha previsto, intervendo sull'art. 2-bis, che per ciascun anno di ritardo l'indennizzo può essere riconosciuto entro una «forbice» ricompresa tra 400 ed 800 euro. E' stato inoltre previsto che la somma può essere diminuita fino al 20 per cento quando le parti del processo presupposto sono più di dieci e fino al 40 per cento quando le parti del processo sono più di cinquanta e che può essere diminuita fino a un terzo in caso di integrale rigetto delle richieste della parte ricorrente nel procedimento cui la domanda di equa riparazione si riferisce. La compatibilità di tali limitazioni con la giurisprudenza europea è, peraltro, difficilmente sostenibile e vi è quindi il concreto rischio di un nuovo caso c.d. Scordino.

Ulteriori problematiche sul piano interpretativo derivano dal terzo comma dello stesso

art. 2-

bis

legge c.d. Pinto

secondo cui «La misura dell'indennizzo, anche in deroga al comma primo, non può in ogni caso essere superiore al valore della causa o, se inferiore, a quello del diritto accertato dal giudice».

Invero, secondo una parte della dottrina, da tale norma dovrebbe inferirsi la carenza di legittimazione attiva della parte soccombente nel processo presupposto, non essendo stato accertato alcun diritto in favore della stessa, a richiedere l'equa riparazione del danno da irragionevole durata del processo (IANNELLO 13 ss.).

Diversamente, secondo la giurisprudenza di legittimità anteriore a tale modifica della

l. n. 89/2001

, ad opera della

l. n. 134/2012

, almeno ai fini della legittimazione attiva alla proposizione della domanda di equa riparazione, non assume alcuna rilevanza la circostanza che la parte ricorrente sia rimasta soccombente nel giudizio c.d. presupposto del quale denuncia l'irragionevole durata (

Cass. civ.,

sez. VI, 3 maggio 2012, n. 6685

).

È stato da altri osservato che, essendo collocata la disposizione tra quelle relative alla «misura dell'indennizzo» e

non già all'esclusione dello stesso (prevista, peraltro, non per la mera situazione di soccombenza ma quando alla medesima si «accompagni» una responsabilità processuale aggravata

ex art. 96 c.p.c.

), la norma in considerazione debba essere collocata tra le disposizioni rilevanti ai soli fini della determinazione dell'equa riparazione e non già della sussistenza del relativo diritto, in conformità, del resto, alla rubrica della disposizione “Misura dell'indennizzo” (CONSOLO – NEGRI 1431). La prospettiva nella quale va correttamente intesa tale disposizione è infatti quella di evitare che, all'interno di controversie di limitato valore economico, si finisca per liquidare indennizzi “esorbitanti” rispetto a tale valore, in coerenza, peraltro, con il nuovo sistema di accesso al giudizio della Corte europea dei diritti dell'uomo dopo l'entrata in vigore del Protocollo n. 14 alla CEDU che esclude, invero, tale accesso in mancanza di un danno rilevante.

Ipotesi di esclusione del diritto all'equa riparazione

L'

art. 2, comma 2-

quinquies

,

l. c.d. Pinto

, introdotto dalla

l. n. 134/2012

, ha previsto una serie di ipotesi di esclusione dall'indennizzo che sono state anch'esse «incrementate» dalla legge di stabilità per l'anno 2016 la quale ha previsto che:

«Non è riconosciuto alcun indennizzo: a) in favore della parte che ha agito o resistito in giudizio consapevole della infondatezza originaria o sopravvenuta delle proprie domande o difese, anche fuori dai casi di cui all'articolo 96 del codice di procedura civile;
b) nel caso di cui all'articolo 91, primo comma, secondo periodo, del codice di procedura civile;
c) nel caso di cui all'articolo 13, comma 1, primo periodo, del decreto legislativo 4 marzo 2010, n. 28;
d) in ogni altro caso di abuso dei poteri processuali che abbia determinato una ingiustificata dilazione dei tempi del procedimento».

Profili di compatibilità con la CEDU anche alla luce del protocollo XIV alla convenzione

In questa sede non possono trascurarsi peraltro, considerata l'origine “europea” della

l. c.d. Pinto

e la correlata esigenza, riconosciuta dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione almeno a partire dalla decisione n. 1338/2004, di interpretarne le disposizioni in conformità alla giurisprudenza della Corte di Strasburgo, le novità introdotte dal Protocollo n. 14 alla Convenzione europea dei diritti dell'uomo al sistema di accesso al giudizio della Corte stessa per l'incidenza che tale tematica può avere sul riconoscimento dell'indennizzo da irragionevole durata del processo.

Più in particolare, l'articolo 12 del Protocollo n. 14, ratificato con

l. 15 dicembre 2005, n. 280

, ha introdotto la lett. b) del terzo paragrafo all'

art. 35 CEDU

secondo cui la Corte dichiara irricevibile qualsiasi ricorso individuale presentato, in applicazione dell'articolo 34 della medesima Convenzione, qualora ritenga che il ricorrente non abbia subito alcun danno rilevante, a meno che il rispetto dei diritti dell'Uomo garantiti dalla Convenzione e dai suoi Protocolli non esiga un esame del ricorso per quanto riguarda il merito ed a patto di non rigettare, per questa ragione alcuna causa che non sia stata debitamente esaminata da un tribunale interno.

Tali condizioni di ricevibilità trovano applicazione, come espressamente previsto dall'art. 20 del Protocollo n. 14, anche alle procedure pendenti

alla data del 1° luglio 2010 di entrata in vigore di detto Protocollo qualora non sia già intervenuta una decisione della Corte sulla ricevibilità del ricorso.

Finalità precipua del nuovo terzo paragrafo dell'art. 35 è consentire alla Corte di trattare e definire rapidamente i ricorsi di carattere futile, onde potersi concentrare sul compito essenziale affidato alla stessa ovvero assicurare a livello europeo la tutela effettiva dei diritti garantiti dalla Convenzione e dai suoi Protocolli

L'interpretazione della portata del nuovo filtro all'accesso al giudizio di merito della Corte di Strasburgo è

oggetto di ampio dibattito tra i commentatori della riforma realizzata dal Protocollo n. 14 alla CEDU. Ciò dipende dalla formulazione non particolarmente felice della nuova disposizione convenzionale che, da un parte, pone quale condizione di ricevibilità dei ricorsi individuali la sussistenza di un danno rilevante in capo al ricorrente e che, tuttavia, individua un limite all'operare della condizione nella necessità di un esame del ricorso per assicurare il rispetto dei diritti dell'Uomo garantiti dalla Convenzione e dai suoi Protocolli nonché nel non rigettare, per questa ragione alcuna causa che non sia stata debitamente esaminata da un tribunale interno

In questa sede, ci si può limitare ad evidenziare che, in accordo con la tesi più ragionevole, affinché operi la nuova condizione di ricevibilità introdotta per i ricorsi individuali con conseguente preclusione all'accesso al giudizio della Corte di Strasburgo, devono sussistere cumulativamente i tre seguenti presupposti, i.e. mancanza di un danno rilevante in capo al ricorrente, non contrasto dell'omesso esame del ricorso con l'esistenza di tutela dei diritti umani, previo esame adeguato delle medesime doglianze da parte di un Tribunale interno. In altre e più chiare parole, anche l'aver subito un danno privo di particolare rilevanza potrà essere oggetto di denuncia dinanzi alla Corte europea qualora in violazione del principio di sussidiarietà il ricorso non sia stato adeguatamente esaminato in ambito nazionale.

Per quel che interessa maggiormente ai fini che ne occupa, la nozione di «danno rilevante» non è stata definita dal Rapporto Esplicativo al Protocollo n. 14 alla Convenzione nel quale si è evidenziato soltanto

che la nuova disposizione ha inteso fornire alla Corte uno strumento flessibile per individuare i ricorsi la cui qualità merita di essere esaminata sia in ragione del diritto fatto valere dal ricorrente sia dal punto di vista più generale del diritto della Convenzione e della tutela dell'ordine pubblico europeo.

Ciò posto, si è evidenziato, in dottrina, che, ferma la necessità di distinguere tra gravità della violazione del diritto e danno subito dal ricorrente (posto che le stesse possono non coincidere nei casi concreti), la Corte non dovrebbe ricostruire la nozione di danno rilevante, ai fini dell'accesso al giudizio dinanzi a sé, considerando esclusivamente il danno patrimoniale subito dal ricorrente al fine di non

“banalizzare” in termini economici un contenzioso come quello demandato all'esame della Corte di Strasburgo finalizzato in via principale alla tutela dei diritti e delle libertà fondamentali a prescindere dalla ricorrenza di un danno patrimoniale in senso stretto fermo restando, nondimeno, il potere della Corte stessa, rispetto a tipologie meno gravi di violazione, di tenere conto dell'importanza del danno subito dal ricorrente dal punto di vista economico, in una valutazione che, quindi, deve essere effettuata caso per caso.

Sull'individuazione della nozione di danno rilevante subito dal ricorrente individuale è poi intervenuta anche la Corte di Strasburgo la quale, premesso in termini generali, che l'art. 35 della Convenzione, come modificato dal Protocollo n. 14 introduce un «filtro» per i ricorsi individuali, imponendo di dichiararne l'irricevibilità quando «il ricorrente non ha subito alcun pregiudizio importante, salvo che il rispetto dei diritti dell'uomo garantiti dalla convenzione e dai suoi Protocolli esiga un esame del ricorso nel merito e a condizione di non rigettare per questa ragione alcuna causa che non sia stata debitamente esaminata da un tribunale interno», ha evidenziato che tale «pregiudizio importante», ispirato al principio de minimis non curat praetor, richiama l'idea che la violazione di un diritto, seppure esistente da un punto di vista meramente legale, deve raggiungere un minimo livello di gravità per essere esaminata da un giudice internazionale.

La valutazione di questo livello minimo, ha sottolineato inoltre la Corte, è relativa, dipendendo da tutte le circostanze del caso concreto, e deve quindi

essere compiuta tenendo conto sia della percezione soggettiva del ricorrente, sia dell'oggettiva posta in gioco, con la conseguenza che il valore monetario non è il solo elemento da prendere in considerazione, poiché una violazione della Convenzione può riguardare importanti questioni di principio e così determinare un pregiudizio importante senza incidere su interessi economici.

Quanto evidenziato ha avuto i dovuti riflessi nella giurisprudenza interna avendo la S.C. sancito che ai sensi dell'art. 12 del Protocollo n. 14 alla CEDU, la soglia minima di gravità, al di sotto della quale il danno non è indennizzabile, va apprezzata nel duplice profilo della violazione e delle conseguenze, sicché dall'ambito di tutela della

l. 24 marzo 2001, n. 89

, restano escluse sia le violazioni minime del termine di durata ragionevole, di per sé non significative, sia quelle di maggior estensione temporale, ma riferibili a giudizi presupposti di carattere bagatellare, in cui esigua è la posta in gioco e trascurabili i rischi sostanziali e processuali connessi (

Cass. civ.,

sez. II, 14 gennaio 2014, n. 633

).

Riferimenti

CONSOLO – NEGRI, Ipoteche di costituzionalità sulle ultime modifiche alla

legge Pinto: varie aporie dell'indennizzo municipale per durata irragionevole del processo (all'epoca della – supposta – spending review)

, in Corr. Giur., 2013, n. 11, 422;

GIORDANO, L'equa riparazione per irragionevole durata del processo, Milano 2015; GIORDANO, Giurisdizione europea e nazionale sui diritti umani. Profili processuali, Roma 2012; NEGRI, Legge stabilità 2016: modifiche alla

legge n. 89/2001, c.d. legge Pinto

, in Corr. Giur., 2016, n. 1, 5;

PISILLO MAZZESCHI, Il coordinamento

tra la nuova condizione di ricevibilità prevista dal Protocollo n. 14 alla Convenzione europea e la regola del previo esaurimento dei ricorsi interni

, in Riv. dir. internaz., 2005, 601 ;

SUDRE, L'épuisement des voies de recours internes, in – MARGUÉNAUD ANDRIANTSIMBAZOVINA – GOUTTENOIRE – LEVINET,

Les grands arrêts de la Cour européenne des droits de l'homme, 2a ed., PUF, Paris 2004, 576 ss.

Sommario