La corresponsione del prezzo della compravendita di partecipazioni sociali e l'art. 2423 c.c.

Fabio Signorelli
02 Maggio 2023

La Cassazione si occupa di una vicenda relativa alla vendita di partecipazioni sociali, in presenza di un accordo secondo cui al pagamento di una parte del corrispettivo si affianchi, quale pagamento del prezzo residuo, l'assunzione a carico dell'acquirente dell'obbligo di eseguire un finanziamento in favore della società compravenduta. Secondo la Cassazione, il pagamento del prezzo può avvenire con qualunque modalità, purché nel rispetto delle disposizioni di cui all'art. 2423 c.c.
Massima

Nel caso di vendita delle partecipazioni sociali, ove al pagamento di una parte del corrispettivo si affianchi, al fine del pagamento del prezzo residuo, l'assunzione a carico dell'acquirente dell'obbligo di eseguire un finanziamento in favore della società compravenduta, con l'accordo che il socio entrante si attivi affinché quest'ultima paghi la relativa somma non allo stesso socio entrante, ma ai soci alienanti, al fine di tenerli indenni degli esborsi in precedenza eseguiti in favore della società a titolo di versamenti in conto aumento capitale sociale, tale accertata natura (di versamenti in conto aumento del capitale e non di finanziamenti) degli originari versamenti dei soci alienanti alla società non rende di per sé nulla, per violazione dell'art. 2423 c.c. o per preteso rimborso del capitale di rischio, la clausola che l'assunzione di quell'obbligo preveda.

Il caso

I giudici di merito e di legittimità si sono occupati di un negozio complesso con il quale alcuni soggetti avevano ceduto le rispettive partecipazioni nella società “A” ad un'altra società “B”, prevedendo che una parte del prezzo fosse corrisposto immediatamente e la restante parte mediante una serie di obbligazioni a carico dell'acquirente “B”, dovendo quest'ultima effettuare un finanziamento soci in favore della società compravenduta “A”, con l'intesa che quest'ultima dovesse utilizzare tale provvista per estinguere parte della propria esposizione debitoria verso i venditori, in misura proporzionale al credito di ciascuno. I venditori, lamentando l'inadempimento della società acquirente, chiesero al Tribunale, dapprima, la condanna della convenuta all'adempimento ma, in corso di causa, modificarono la domanda in quella di risoluzione del contratto. La Corte d'Appello ritenne ammissibile la domanda di risoluzione svolta in corso di causa, in ragione dello stretto collegamento funzionale tra l'atto di cessione delle quote sociali e gli accordi economici connessi, sul quale si sarebbero formate le volontà dei paciscenti. Tuttavia, nel merito, la Corte opinò che i soci alienanti, in precedenza, avessero eseguito non tanto dei finanziamenti soci quanto, piuttosto, dei versamenti in conto futuro aumento di capitale, appostati a riserva della società “A” ed utilizzati dall'assemblea dei soci a diminuzione delle perdite d'esercizio e, per l'effetto, stimò che, non essendovi finanziamenti soci da restituire ai venditori, questi ultimi non avessero diritto di ricevere alcunché, venendo così meno lo stesso relativo obbligo contrattuale, dovendosi qualificare tale clausola contrattuale come promessa del fatto del terzo, non sussistendo, sempre secondo la Corte d'Appello, un debito restitutorio in capo alla società compravenduta. La Corte d'Appello, tuttavia, si spinse oltre, ritenendo che tale clausola contrattuale fosse affetta da illiceità, dal momento che la società acquirente non avrebbe avuto il potere giuridico di far deliberare alla propria controllata il pagamento della somma in favore dei venditori. La Corte romana motivò tale assunto affermando che non esisteva alcun modo lecito per far in modo che la società “B” liquidasse direttamente i soci alienanti, senza violare i criteri di redazione del bilancio e le norme imperative poste a tutela dell'integrità del capitale sociale, neppure in mancanza di un pregiudizio per il suo patrimonio, concludendo per il rigetto delle domande proposte dai venditori. Questi ultimi impugnarono la sentenza della Corte d'Appello di Roma mediante ricorso per Cassazione, affidato a quattro motivi, i quali venivano dichiarati, rispettivamente, il primo e il secondo, inammissibile e infondato, il quarto assorbito e il terzo accolto, avendo la Corte territoriale proceduto ad una falsa applicazione degli artt. 1418 e 2423 c.c., come meglio spiegato nella massima in epigrafe.

La questione e le soluzioni giuridiche

La vicenda è certamente molto interessante ma lo sono ancora di più le motivazioni della Suprema Corte che ha brillantemente e coraggiosamente valorizzato il legittimo esercizio del diritto d'iniziativa economica privata, stigmatizzando interpretazioni apodittiche e parziali degli accordi contrattuali inter partes.

La sentenza in commento compie quello sforzo interpretativo che è sembrato mancare alla Corte d'Appello che, probabilmente, stando almeno al testo della sentenza, avendo valutato apparentemente inutile e complicato il meccanismo del pagamento del prezzo della cessione delle quote sociali – in parte in contanti e in parte mediante un obbligo di finanziamento da parte della società acquirente a favore della società compravenduta affinché quest'ultima liquidasse, con tale provvista, il saldo-prezzo ai soci venditori – è giunta alla conclusione che tale clausola contrattuale fosse illecita in quanto – mi sembra in modo tautologico – non potesse esistere un modo lecito per far sì che la società compravenduta pagasse direttamente il prezzo della cessione ai soci alienanti, neppure in mancanza di un pregiudizio per il suo patrimonio.

Osservazioni

La Corte di Cassazione precisa innanzitutto che è sostanzialmente irrilevante il fatto che una somma di denaro non sia stata versata in società a titolo di finanziamento soci ma a titolo di futuro aumento di capitale e in tal guisa utilizzato, spettando al giudice del merito l'individuazione della natura delle dazioni di denaro dei soci, ben potendo accadere che una somma di denaro inizialmente versata ad un determinato titolo possa essere in altro modo destinata con il consenso del socio finanziatore e della società (ad esempio: l'iniziale finanziamento, con il consenso del socio finanziatore e della società, può trasformarsi in un versamento a fondo perduto o di altro genere; oppure, l'iniziale versamento in conto futuro aumento di capitale potrebbe essere, in seguito, trasformato in finanziamento, una volta che si sia preso atto che un aumento di capitale non possa più essere deliberato), senza che, per ciò stesso, possa sussistere un falso in bilancio e la violazione degli artt. 2423 e ss. c.c., una volta che, ben inteso, si siano effettuate le idonee appostazioni nel bilancio stesso, sulla base di documentate deliberazioni e pattuizioni delle parti, tanto più che, nel caso di specie, l'appostazione a titolo di riserva dell'iniziale versamento dei soci fondatori era correttamente avvenuta, così come accertato dalla stessa Corte d'Appello. Appare chiaro che le parti avessero reputato nel loro interesse che il prezzo della compravendita fosse costituito da un valore nummario più un valore corrispondente al valore della riserva a suo tempo costituita con la provvista fornita dai soci fondatori, con la conseguenza che la società compravenduta sarebbe stata soltanto il tramite dell'adempimento al quale si era obbligata la società acquirente. Il meccanismo divisato, secondo la Suprema Corte, non appare affetto da alcuna illiceità e rientra nella libera determinazione delle parti, quale esercizio dell'autonomia privata diretta a realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l'ordinamento giuridico.

La Suprema Corte censura, dunque, la dichiarazione di nullità della Corte romana, pronunciata senza l'accertamento della violazione di specifici divieti positivi, alterando il sinallagma contrattuale voluto dalle parti e, in particolare l'obbligazione di pagamento di una rilevante parte del prezzo. Il Giudice a quo ha avuto una visione parcellizzata degli obblighi assunti, indagando atomisticamente il regolamento degli interessi, contenuto negli accordi contrattuali, dimentico – chiosa, letteralmente, la sentenza in commento – che i concetti di illiceità per contrasto con norme imperative, ordine pubblico e buon costume, devono essere riempiti di contenuto da parte degli interpreti che devono scrutinare in modo rigoroso ed esaminare attentamente le condotte delle parti, che, pur nell'esercizio dell'autonomia negoziale, si pongano in contrasto con i divieti posti dall'ordinamento giuridico a tutela di interessi generali. In conclusione, la Corte d'Appello non ha motivato perché e in quale modo il seppur complesso meccanismo voluto dalle parti fosse affetto da nullità, non ha, cioè, spiegato quali norme o quali divieti fossero stati violati, rendendo, in tal modo, immeritevole di tutela l'autonomia contrattuale sancita dall'art. 1322 c.c., che incontra i suoi limiti, sostanzialmente, nell'accertamento della contrarietà del negozio realizzato alla legge, all'ordine pubblico e al buon costume.

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