(Re)investimento del venditore nelle operazioni M&A di build up tra il negozio di compensazione e il c.d. “conferimento mascherato”

Benedetto Lonato
Francesco Doria Lamba
Martina Lacalamita
04 Maggio 2023

Il contributo analizza il tema, molto dibattuto nella prassi, in particolare nell'ambito di operazioni di build up da parte di fondi di private equity, del c.d. conferimento mascherato: la cessione, da parte del socio, di partecipazioni sociali e il contestuale re-investimento nel capitale sociale della società acquirente.
Premessa

Con il presente contributo si intendono analizzare alcuni aspetti di interesse giuridico inerenti al (re)investimento nel capitale sociale della società acquirente, o di altra società controllante la stessa, da parte del socio cedente nel contesto di più ampie operazioni di compravendita di partecipazioni societarie. Nella generalità dei casi, infatti, il (re)investimento si concretizza attraverso l'assegnazione al socio cedente di una partecipazione societaria nella società acquirente o in altra società, direttamente o indirettamente, controllante la società acquirente, a fronte di un conferimento in denaro o in natura.

Tale (re)investimento avviene contestualmente o, comunque, è sostanzialmente connesso, al pagamento del prezzo da parte della società acquirente per l'acquisto della partecipazione compravenduta.

Non è, infatti, infrequente riscontrare nell'ambito di contratti quadro inerenti operazioni di M&A, specie nell'ambito di investimenti istituzionali di private equity in operazioni di c.d. “build up”, esplicite previsioni in merito alla facoltà o l'obbligo, per il socio cedente delle partecipazioni della società target, di (re)investire parte dei proventi in un più ampio progetto di aggregazione.

Come detto, il (re)investimento, nello specifico, solitamente si concretizza nella sottoscrizione di un aumento di capitale sociale deliberato dalla società acquirente o da altra che la controlla direttamente o indirettamente (questo accade in particolare quando è prevista una successiva fusione tra la società acquisita e la società acquirente che ha contratto il debito al fine del perfezionamento dell'acquisizione).

Venendo alle modalità di (re)investimento solitamente adottate, una prima modalità (non così frequente nella prassi), prevede che una porzione della partecipazione nella società target, le cui quote o azioni sono – appunto – oggetto di compravendita, anziché essere compravenduta, venga direttamente conferita dal socio cedente, al fine di sottoscrivere e liberare un aumento di capitale in natura opportunamente deliberato dalla società acquirente (o da società che controlla direttamente o indirettamente la stessa). Trova quindi integrale applicazione la disciplina in tema di conferimenti in natura e, dunque, l'obbligo di presentare la relazione giurata di un esperto designato dal Tribunale, ai sensi dell'art. 2343 c.c., fatti salvi i casi previsti dall'art. 2343-ter c.c. qualora il valore della partecipazione oggetto di conferimento sia pari o inferiore, alternativamente, (i) al fair market value iscritto nel bilancio dell'esercizio precedente sottoposto a revisione legale o (ii) al valore risultante da una valutazione redatta, nei 6 mesi precedenti, da un esperto indipendente. Per le S.r.l. la disciplina dei conferimenti in natura, nell'ambito degli aumenti di capitale, è dettata dall'art. 2464, comma 5, che richiama le disposizioni inerenti la responsabilità del socio conferente di cui agli artt. 2254 e 2255, nonché dall'art. 2465, c.c.: e quindi il soggetto sottoscrittore dovrà presentare la relazione giurata di stima di un revisore legale o di una società di revisione legale iscritta nell'apposito registro.

Una seconda modalità, utilizzata frequentemente nella prassi, prevede che il socio cedente perfezioni – con la società acquirente – la compravendita della partecipazione nella società target e a seguire (contestualmente all'incasso del prezzo o in un momento successivo), lo stesso venditore proceda alla sottoscrizione e liberazione di un aumento di capitale riservato, utilizzando, appunto, una parte dei proventi derivanti dalla predetta compravendita. A differenza della soluzione precedentemente (conferimento diretto della partecipazione della società target), in questo caso il (re)investimento avviene attraverso una dazione in denaro (e non in natura). Tale soluzione ha, tuttavia, generato alcuni dibattiti in dottrina e giurisprudenza che si andranno ad approfondire nel presente contributo, specie con riferimento alla potenziale applicabilità di quanto previsto in merito ai conferimenti in natura a tutela delle parti interessate.

Infine, una variante della soluzione appena descritta prevede che il (re)investimento da parte del socio cedente si perfezioni mediante l'adempimento dell'obbligo di conferimento di denaro in esecuzione dell'aumento di capitale ricorrendo alla compensazione di un credito vantato dal sottoscrittore verso la società, in questo caso a titolo di pagamento di una porzione del prezzo della partecipazione di target ceduta.

Il conferimento in danaro mediante compensazione del prezzo per la cessione della società target

Rispetto alla fattispecie della liberazione di un aumento di capitale in denaro, attraverso la compensazione con un credito, negli anni, si sono consolidati due principali orientamenti.

Secondo un primo orientamento, che trova espressione in particolare nella sentenza Cass. Civ., 10 dicembre 1992, n. 13095 (e seguita da una copiosa ma risalente giurisprudenza di merito) ma con scarso seguito in dottrina, la compensazione tra debito da conferimento del socio e debito della società nei confronti del socio medesimo non sarebbe mai ammissibile, neppure in forza di accordo tra le parti (c.d. compensazione volontaria).

Tale orientamento desume un generale divieto di compensazione dalle varie disposizioni normative di legge poste a salvaguardia del principio di corrispondenza fra realtà e apparenza del capitale sociale.

Secondo un diverso orientamento, condiviso da gran parte della dottrina che si è interessata alla questione – nonché da parte della giurisprudenza – la compensazione sarebbe sempre ammissibile, ad eccezione per il caso di conferimento in sede di costituzione della società (vedi Cass. Civ., Sez I, 5 febbraio 1996, n. 936).

Le argomentazioni a sostegno di tale orientamento partono dall'assunto secondo il quale, le obbligazioni reciproche sarebbero compensabili ogniqualvolta non vi sia un divieto imposto dal legislatore; tale assunto si muove dalla constatazione che non vi è alcuna norma nell'ordinamento che sancisca esplicitamente, o anche implicitamente, l'inoperatività della compensazione per tali fattispecie e, pertanto, essa debba reputarsi certamente legittima.

Alcuni commentatori ritengono in ogni caso irrinunciabile dotarsi di una perizia di stima del credito vantato dal socio; tale esigenza mira a tutelare, infatti, l'affidamento dei terzi circa la capitalizzazione della società e la garanzia patrimoniale dalla stessa derivante. Altri autori, invece, considerano superflua la redazione di una relazione in considerazione del fatto che la meccanica della compensazione, che determinerebbe comunque un'estinzione del debito della società in misura equivalente al credito conferito, ha una valenza unicamente contabile.

Sull'inammisibilità della compensazione

Con riferimento al primo orientamento, che nega l'ammissibilità della compensazione del credito del socio verso la società in sede di aumento di capitale, di grande interesse è la sentenza della Corte di Cassazione del 10 dicembre 1992, n. 13095.

La Suprema Corte si è interrogata, in primis, su quale sia la fonte normativa da cui deriverebbe l'assunto divieto di compensazione; la stessa ha concluso che tale proibizione non può in alcun caso essere ricondotta ai casi espressamente elencati dal codice civile, ma bensì può essere ricavata “analogicamente” dalle varie disposizioni normative di legge poste a salvaguardia del principio di corrispondenza fra realtà e apparenza del capitale sociale.

La Corte sostiene, infatti, che il debito del socio per i versamenti ancora dovuti non sia identico a qualsiasi altro debito verso la società: infatti, quanto ai versamenti a titolo di capitale, il rapporto di debito e credito si riflette sull'entità del capitale sociale e risponde ad una funzione pubblicistica, mentre ogni altro credito della società verso il socio, invece, incide esclusivamente sulle dinamiche interne esistenti tra le parti.

La Corte rileva, quindi, il rischio che possano essere deliberati aumenti di capitale con l'unico scopo di compensare crediti vantati dai soci nei confronti della società, negando ai terzi qualsivoglia trasparenza circa l'effettiva consistenza del patrimonio sociale.

L'argomento, tuttavia, non convince e pare ormai superato: la tutela dell'affidamento dei terzi dovrebbe assumere rilevanza ove siano poste in pericolo (o siano compromessi) l'integrità e la reale consistenza del capitale sociale; l'operare della compensazione, sotto questo profilo, non può comportare a priori una minaccia a tale affidamento ma, piuttosto, deve rappresentare una delle modalità (legittime) di estinzione delle obbligazioni (ex art. 1241 c.c.).

La Suprema Corte sul punto esprime un principio generale, ma, avrebbe dovuto circostanziarne il perimetro a quelle fattispecie in cui il credito vantato dal socio sia effettivamente inesistente; qualora, invece, il credito del socio sia effettivo, non vi dovrebbe essere alcun ostacolo al ricorso alla compensazione: invero, il socio adempie al proprio obbligo di conferimento estinguendo effettivamente il proprio debito in modo satisfattorio per la società.

L'ulteriore critica della Suprema Corte si fonda sulle restrizioni imposte dalla legge in tema di conferimento di crediti: in particolare, la Suprema Corte si concentra sul dettato di cui all'art. 2342 c.c. (art. 2464 c.c. per le S.r.l.), il quale, in caso di compensazione, risulterebbe violato, in quanto la norma prevede di regola il conferimento in denaro, nonché dell'art. 2342, comma 2, c.c., la cui norma contempla solo il conferimento di crediti del socio verso terzi e non anche quello dei crediti verso la società.

Anche in questo caso, la tesi non è del tutto persuasiva. Lo scopo delle norme che disciplinano i conferimenti è quello di garantire che la società si arricchisca di un effettivo e concreto valore economico; non si comprende come il ricorso compensazione non possa comunque assicurare tale risultato.

A seguire, la Suprema Corte delinea la differenza tra la compensazione e gli altri tipi di conferimento, vuoi in denaro, in natura e quindi crediti verso terzi. Solo questi ultimi, secondo la Suprema Corte, sono funzionali alla garanzia dei terzi creditori, in quanto entità suscettibili di essere espropriate.

In tale ipotesi, anche qualora si considerasse la compensazione come espressione di un conferimento di un credito, non si rinviene all'interno dell'ordinamento alcuna ragione di disparità di trattamento fra il conferimento di un credito verso la società rispetto a qualsiasi conferimento di un credito verso terzi.

Non solo, il capitale costituisce una garanzia per terzi, ma solo in senso lato, in quanto rappresenta un fondo della società su cui i creditori potranno eventualmente soddisfarsi, tuttavia, in modo indiretto: in via indiretta in quanto, secondo l'ordinamento, il capitale costituisce esclusivamente un valore contabile ascritto in bilancio, destinato a confondersi con il restante patrimonio sociale; inoltre, l'imputazione a capitale di tali importi non consente ai creditori sociali di aggredirli in via diretta: tale natura appartiene piuttosto al patrimonio della società, il quale costituisce una garanzia generica, ma diretta, in favore dei creditori.

Infine, a sostegno del principio espresso, la Suprema Corte ricorre alla disciplina e ai principi relativi alla redazione del bilancio e, nello specifico, al divieto di operare la compensazione tra poste attive e passive in quella sede: tale principio, secondo le argomentazioni della Corte, confermerebbe la sussistenza di un divieto di compensazione anche nel caso di debito da conferimento.

Anche in questo caso, l'argomentazione dalla Corte non convince; per quanto non vi siano dubbi che le norme poste a disciplina della redazione del bilancio mirino a garantire una corretta e veritiera rappresentazione della situazione patrimoniale e finanziaria della società, estendere tale preclusione alla fattispecie in esame significherebbe riconoscere al divieto una portata talmente ampia da impedire il ricorso alla compensazione tra qualunque altro credito della società verso terzi e qualunque altro credito di questi ultimi verso la società.

In favore della compensabilità dei crediti

La Corte è tornata a pronunciarsi sulla questione e, a distanza di pochi anni, si è espressa con favore rispetto alla compensazione: infatti, con la sentenza del 5 febbraio 1996, n. 936, la Corte ha sancito che “è ammissibile la compensazione tra il credito certo, liquido ed esigibile del socio di una società per azioni e il suo debito verso la società per la sottoscrizione di nuove azioni emesse in sede di aumento di capitale sociale”; per quanto si sia assistito ad un sostanziale revirement rispetto alla precedente posizione assunta sulla questione, si è comunque escluso che la compensazione possa operare in sede di costituzione della società. La contrarietà della Corte al ricorso alla compensazione in sede di costituzione si basa sull'assunto per cui i conferimenti iniziali debbano essere costituiti solo da beni idonei a formare oggetto di garanzia patrimoniale. Al riguardo va, tuttavia, evidenziato che oggetto del conferimento è solitamente una somma di denaro e dunque un bene fungibile idoneo avente le caratteristiche richieste ai fini della costituzione del capitale originario della società e, parimenti, ad essere oggetto di compensazione. La Cassazione, dunque, pare confondere l'oggetto del conferimento con le modalità di esecuzione di conferire, attribuendo a quest'ultima principi e limitazioni che appartengono invece all'oggetto del conferimento.

La Suprema Corte sembrerebbe essersi convinta del fatto che nel nostro ordinamento non vi è alcuna norma che impedisca in via generale la compensazione legale tra crediti reciproci, certi, liquidi ed esigibili di una società di capitali e dei suoi soci. Pertanto, in mancanza di norma espressa che ne sancisca il divieto, di regola la compensazione deve ritenersi operante in coerenza con le norme di cui agli artt. 1241 e ss. c.c., salvo che, in relazione ad ipotesi particolari, possa ravvisarsi il divieto di cui all'art. 1246, n. 5, c.c.

Riconoscendo la capacità della compensazione di concorrere positivamente all'aumento di capitale, non vi sono, quindi, ragioni per escluderne l'ammissibilità quale meccanismo di estinzione dell'obbligazione di conferimento (così Cass. civ., Sez. I, 19 marzo 2009, n. 6711). Peraltro, a tal riguardo si osserva che non sussiste un interesse – di terzi o sociale – contrario ad ammettere tale compensazione ma, piuttosto, esiste un interesse generale e sociale alla conversione dei crediti verso la società in capitale di rischio.

Essendo la garanzia patrimoniale – richiesta dal legislatore a tutela dei terzi – offerta dal patrimonio sociale stesso, ne consegue che nessun pregiudizio può derivare ai creditori sociali da un aumento di capitale sottoscritto attraverso l'estinzione per compensazione di un debito del socio: in concreto, piuttosto, ciò comporta un aumento della garanzia patrimoniale generica offerta dalla società ai creditori, poiché dalla trasformazione del credito del socio in capitale di rischio deriva che detta garanzia non debba più considerare il credito del socio che nel percorso si è estinto per compensazione. Ne consegue che il conferimento per compensazione di un credito del socio verso la società dal punto di vista economico deve essere considerato alla stregua di un conferimento effettivo che aumenta la consistenza del capitale di rischio.

L'istituto della compensazione, che generalmente risponde ad esigenze di semplicità/celerità ed equità, in questa circostanza, produce un beneficio aggiuntivo per il socio sottoscrittore dell'aumento di capitale: è indiscutibile, infatti, che la compensazione oltre ad attribuire la possibilità al socio di estinguere il proprio debito verso la società, al contempo, consenta allo stesso di ricevere immediato ristoro dei propri crediti nei confronti di quest'ultima.

Nella sentenza in commento la Cassazione non prende, invece, posizione circa la necessità che il credito del socio – suscettibile di compensazione – verso la società sia oggetto di relazione di stima.

Al fine di valutare la necessità o meno della relazione di stima occorrerebbe verificare, innanzitutto, la sussistenza dei presupposti per un'estensione in via analogica della norma codicistica riferita alla fattispecie di conferimento del credito. Allo stato non vi sono, però, pronunce che sopperiscano al silenzio del legislatore.

Non vi è dubbio, pertanto, che l'obbligo di una perizia debba essere ricercato ricorrendo a strumenti diversi dall'analogia.

In ogni caso, le opinioni espresse da dottrina e giurisprudenza circa la perizia sono discordanti. Secondo alcuni, la relazione di stima sarebbe sostanzialmente inutile se si considera la valenza puramente contabile della compensazione, che elide il debito della società in misura equivalente al credito conferito.

Altri, invece, sostengono che la perizia di stima sia necessaria in un'ottica di tutela dell'affidamento dei terzi, il quale, in mancanza della stessa, risulterebbe inevitabilmente leso qualora non fosse garantita l'effettiva corrispondenza tra capitale nominale e capitale reale.

Il conferimento mascherato

Ai nostri fini, la discussione intorno alla necessità di una perizia di stima che accompagni il (re)investimento, per come lo abbiamo inteso in questa nota, è divenuta centrale alla luce della successiva elaborazione giurisprudenziale e dottrinale della categoria del c.d. “conferimento in natura mascherato”, a prescindere dal ricorso all'istituto della compensazione.

In particolare, la Corte d'Appello di Milano, con una pronuncia del 15 dicembre 2000, ha statuito, l'invalidità degli accordi aventi ad oggetto un conferimento in natura cd. “mascherato”. Secondo la Corte d'Appello milanese, infatti, “allorché singoli accordi siano fra loro collegati da un programma unitario, di cui essi appaiano come momenti di realizzazione, tendente a garantire che, a fronte di finanziamenti destinati alla ricapitalizzazione di una s.p.a., la società stessa acquisti per un prezzo predeterminato beni in natura messi a disposizione dal finanziatore, si configura un conferimento in natura mascherato”.

Per conferimento “mascherato”, chiarisce la Corte, si intende quindi la fattispecie caratterizzata dalla coesistenza di tre elementi:

(i) la previsione della sottoscrizione dell'aumento di capitale in denaro;

(ii) la vendita alla società di un bene appartenente al socio sottoscrittore; e

(iii) il collegamento tra questi negozi dato dall'esistenza di un programma e, alternativamente (a) dalla sua consacrazione in un accordo, (b) dalla possibilità di realizzare il programma mediante l'esercizio di un potere anche indiretto, estraneo ad un accordo.

La predetta pronuncia inquadra la fattispecie nell'alveo dei conferimenti in natura da cui discende la necessaria applicazione dell'art. 2343 c.c., pena l'invalidità dell'accordo sottostante il conferimento e la vendita.

La posizione assunta dalla Corte di Appello di Milano si pone, in effetti, come un punto di sintesi delle tesi affermatesi in dottrina fino a quel momento:

(i) da principio, si è ritenuto, che la illiceità dell'operazione derivasse dall'elusione della norma di cui all'art. 2343 c.c., il quale descrive e regola il procedimento di stima dei conferimenti di beni in natura e di crediti; i commentatori peraltro osservano che tale soluzione, dovrebbe comportare l'attivazione dell'operatività dell'ultimo comma dell'art. 2343 c.c., con la paradossale conseguenza di creare un danno alla società, nell'ipotesi in cui il socio conferente decidesse di esercitare il diritto di recesso;

(ii) in seguito, si è ipotizzato che la norma violata dovesse essere individuata nell'art. 2342, comma 1, c.c., il quale impone che conferimenti diversi dal denaro debbano essere espressamente contemplati e disciplinati all'interno dell'atto costitutivo della società; anche questa lettura si rivela insufficiente, in quanto si limita a considerare la questione relativa all'ammissibilità della compensazione affidandosi solamente alla volontà dei consociati espressa nell'atto costitutivo, tralasciando il principio relativo alla corretta formazione e all'integrità del capitale sociale;

(iii) da ultimo, si è affermata la tesi – oggi predominante – secondo la quale l'illiceità dello schema negoziale deriverebbe dalla violazione del dettato dell'art. 2346 c.c., il quale – appunto – sancisce il principio dell'esatta formazione del capitale sociale, mediante il divieto di emettere azioni per un corrispettivo non inferiore al valore nominale (aumentato dell'eventuale sovrapprezzo).

Dedicando attenzione a quest'ultimo orientamento, l'interesse preminente tutelato nella procedura dell'esatta formazione del capitale sociale – che rischierebbe di essere pregiudicato dal collegamento con una vendita e allocazione del prezzo allo scopo della liberazione dell'aumento di capitale – è l'integrale copertura, con riferimento alle società per azioni, del valore corrispondente al prezzo di emissione delle azioni e, con riferimento alle società a responsabilità limitata, del prezzo di sottoscrizione delle quote.

Il prezzo della vendita di partecipazioni, infatti, sfugge a ogni preventivo controllo di congruità ed è, spesso e volentieri, il solo frutto di un accordo tra le parti; pertanto, la determinazione di un prezzo per un bene che si riveli sensibilmente sopravvalutato potrebbe pregiudicare l'integrità del capitale sociale (e dell'eventuale riserva di sovrapprezzo). Vi è, dunque, il pericolo che la società paghi per l'acquisto un prezzo eccessivo e che ciò, avvenendo in collegamento con la sottoscrizione di un apporto di denaro commisurabile al prezzo, faccia mancare nel patrimonio sociale una parte del risultato economico del conferimento, nell'esatta misura costituita da quella frazione di prezzo che il socio riceve in più rispetto al valore reale del bene che trasferisce alla società.

In questi termini e in questa misura si ha, appunto, una violazione del principio di integra e corretta prestazione del conferimento, che trova un esplicito riconoscimento normativo, quanto alle società per azioni, nel divieto di emettere azioni per una somma inferiore al valore nominale aumentato, si intende, dell'eventuale premio di emissione.

In particolare, secondo la tesi della violazione dell'art. 2346 c.c., la nullità dell'accordo negoziale di conferimento in natura mascherato sarebbe legata alla mancanza di congruità del prezzo per il quale la società conferitaria si impegna ad acquistare il bene in natura.

Ne deriva, quindi, che non tutti i conferimenti in natura “mascherati” costituiscono necessariamente una fattispecie problematica nella sostanza e che in ogni caso non è in discussione la legittimità dell'operazione se accompagnata da una relazione di stima, da redigersi secondo le disposizioni codicistiche, che determini la congruità del prezzo.

Nondimeno, l'esistenza di un nesso temporale o funzionale tra la delibera di aumento e l'operazione da cui il debito da compensare si origina, potrebbe comportare il rischio che l'operazione di (re)investimento sia preordinata all'elusione delle norme in materia di acquisti potenzialmente pericolosi.

Oltre a tutto quanto precede, non si deve ignorare quanto previsto dall'art. 2343-bis c.c.: nel caso, appunto, di operazioni di (re)investimento non è inusuale, infatti, che (i) il corrispettivo dovuto dalla società acquirente sia superiore alla decima parte del capitale sociale della stessa e che (ii) la società acquirente sia stata costituita da meno di due anni.

Qualora, appunto, ricorrano i predetti presupposti è previsto, dall'art. 2343-bis c.c., che il predetto acquisto – di beni o crediti – oltre a necessitare di un'espressa approvazione da parte dell'assemblea dei soci, l'alienante debba presentare una relazione giurata di un esperto ovvero la documentazione di cui all'art. 2343-ter, commi 1 e 2, c.c. contenente la descrizione dei beni o dei crediti, il valore a ciascuno di essi attribuito, i criteri di valutazione seguiti, nonché l'attestazione che tale valore non è inferiore al corrispettivo, che deve comunque essere indicato.

Fuori dalle ipotesi degli acquisti pericolosi, se, da un lato, come si è visto, la giurisprudenza richiede il rispetto delle formalità di cui all'art. 2343 c.c. per il conferimento di un credito nei confronti della società, dall'altra resta ferma la posizione secondo cui, ove due crediti siano coesistenti e reciproci tra il socio e la società, tali poste dovrebbero potersi compensare senza che necessariamente si ricorra ad una perizia.

La compensazione rappresenta, infatti, l'istituto naturale applicabile nel caso in cui il creditore assuma un'obbligazione verso il proprio debitore, determinandone l'estinzione. Il creditore della società, nel momento in cui sottoscrive l'aumento di capitale, assume con la società un'obbligazione, assumendo dunque la contemporanea qualifica di debitore/creditore nei confronti di quest'ultima e, in modo speculare, la società impersona al contempo il ruolo di debitrice e quello di creditrice.

Siamo di fronte quindi a due posizioni simmetriche di debito-credito. In tale contesto, in forza dei principi a cui sono ispirate le regole della compensazione, l'aumento del capitale si realizza mediante un'operazione contabile interna per la quale si elide una posizione debitoria e si incrementa la posta del capitale. In questa operazione contabile interna, la voce di debito della società, cui corrisponde il credito del sottoscrittore, va utilizzata nel suo valore nominale, in forza dei principi che regolano la compensazione.

In questo senso, qualora il sottoscrittore, al fine di sottoscrivere l'aumento di capitale, utilizzi il proprio credito verso la società, lo stesso si estinguerà ope legis o per la volontà delle parti.

Qualora la tesi della non applicabilità dell'art. 2343 c.c. al conferimento del credito del socio verso la società trovasse credito, allora, mancando qualsiasi norma di cui si possa assumere l'elusione o la violazione, il ricorso alla compensazione non potrebbe che considerarsi lecito anche senza il rispetto delle formalità connesse alla redazione di una perizia.

La massima n. 125/2013 del Consiglio Notarile di Milano

In favore della legittimità della compensazione di crediti del sottoscrittore nell'ambito della sottoscrizione di un aumento di capitale, si è poi espresso il Consiglio Notarile di Milano (massima n. 125 del 5 marzo 2013) il quale ha rilevato che “l'obbligo di conferimento di denaro in esecuzione di un aumento di capitale di s.p.a. o s.r.l. può essere estinto mediante compensazione di un credito vantato dal sottoscrittore verso la società, anche in mancanza di espressa disposizione della deliberazione di aumento”.

La massima in esame non si limita, tuttavia, a riconoscere l'estinzione dell'obbligo di conferimento mediante compensazione ma esprime la posizione del Consiglio Notarile di Milano circa la compensazione tra debito per il conferimento in denaro e un credito vantato dal sottoscrittore nei confronti della società sorto in virtù di una prestazione di natura non finanziaria quale, ad esempio, la vendita di un bene alla società: in tale caso – allorché ricorra sostanziale contestualità e corrispondenza tra la prestazione eseguita a favore della società e l'aumento di capitale sottoscritto dal creditore, ovvero quando risulti che le (due) operazioni sono tra loro preordinate – il Consiglio Notarile reputa che la sussistenza di una relazione di stima eseguita nel rispetto delle disposizioni di cui agli artt. 2343, 2343-ter o 2465 c.c. costituisca elemento idoneo ad assicurare l'osservanza dei principi che presiedono alla corretta formazione del capitale sociale.

Si prenda, ad esempio, il caso in cui il socio presti beni e servizi in favore della società: in questa circostanza, le motivazioni finanziarie si inseriscono all'interno di una più ampia operazione e si combinano con l'ulteriore interesse della società di acquisire quei determinati beni o servizi. In questa fattispecie il problema non si pone e non si risolve sul piano del “rischio” del creditore e della compensazione come strumento per eliminarlo, bensì su quello della valutazione globale del rapporto e di una prevenzione e repressione degli abusi che con esso possono realizzarsi a danno della società e degli altri soci; abusi che possono riguardare sia l'effettiva consistenza economica dell'operazione sia il pericolo che a seguito di essa si provochi artificiosamente una disparità di trattamento tra i soci: interessi i quali entrambi trovano parziale tutela nella duplice cautela prevista dall'art. 2343-bis c.c., che espressamente ammette la compensazione con crediti derivanti da cessione di beni o prestazioni di servizi a favore della società.

Le medesime considerazioni valgono per operazioni aventi ad oggetto crediti vantati dal socio verso la società a titolo di restituzione di finanziamenti di altra natura ovvero derivanti da altri atti negoziali dallo stesso effettuati con la società, quali crediti commerciali a qualsiasi titolo (vendita di merci, prestazione di servizi), nonché al credito del prestatore di lavoro per la propria remunerazione e il credito derivante dall'alienazione di un bene (e quindi eventualmente di una partecipazione) alla società per importo superiore al suo valore effettivo con successiva compensazione fra obbligazione del prezzo e quella derivante dall'obbligo di conferimento.

Con specifico riferimento al conferimento in natura mascherato, è opportuno sottolineare che le motivazioni che accompagnano la massima chiariscono – in linea con la dottrina – come il tema si ponga non solo per il caso di ricorso all'istituto della compensazione, bensì ogni qualvolta la sottoscrizione in denaro dell'aumento di capitale sia in qualche modo collegata al pagamento di un prezzo di vendita di un bene, ad esempio una partecipazione, del sottoscrittore dell'aumento di capitale alla società.

In ogni caso, la massima (nonché la sua motivazione) è portatrice della diffusa convinzione che l'ammissibilità della compensazione volontaria o della compensazione con crediti non finanziari non possa essere sempre né invalida, né sempre e comunque lecita.

Il criterio di valutazione non può limitarsi ad un confronto tra il “valore” del conferimento dovuto e quello del credito del socio, bensì ci si deve soffermare a ad analizzare le circostanze che in concreto caratterizzano la genesi del credito del socio. Lo studio di alcuni indici è determinante ai fini dell'analisi.

Tra gli indici rilevatori, è importante considerare la progressione temporale della genesi dei crediti e, in particolare, il momento in cui sorge il credito che il sottoscrittore intende utilizzare in compensazione. Si consideri il caso in cui il credito del socio sorga quando egli stesso era già debitore del conferimento: in tali circostanze, vi è il sospetto che il credito del socio sia stato appositamente valorizzato per consentire una facile compensazione ai fini della liberazione dell'aumento di capitale; la predisposizione di una perizia, in tali frangenti, consentirebbe di dissipare ogni profilo di rischio.

Il secondo indice da considerare con attenzione è dato dalla preordinazione. Il principio espresso nella massima assume un'importanza centrale allorché le due operazioni (i.e. compravendita a favore della società con prezzo dilazionato e sottoscrizione dell'aumento in denaro, con compensazione dei due crediti) appaiano costituire, un'unica operazione assimilabile ad un conferimento in natura del bene oggetto della compravendita; per la corretta formazione del capitale sociale e a tutela della sua integrità, la valutazione peritale del bene compravenduto è – quindi – suggerita.

Il filo conduttore della preordinazione più di tutti espone al rischio che l'operazione di (re)investimento possa qualificarsi quale “conferimento in natura mascherato”: quando l'operazione di vendita della target in qualche modo prevede o contempla, a prescindere dalla cronologia prevista per le diverse obbligazioni di pagamento che a nostro parere è abbastanza irrilevante in costanza di reciproci impegni vincolanti, un impiego di denaro da parte della parte venditrice per un investimento “equity” nella società acquirente. La considerazione ha una sua valenza, a parere degli scriventi, a prescindere anche dal “livello” a cui si attua effettivamente il reinvestimento nell'ambito della catena di controllo della società acquirente.

Come si è avuto modo di approfondire, non vi è una norma che vieti la compensazione dei crediti reciproci anche ai fini della sottoscrizione e liberazione dell'aumento di capitale; d'altro canto, non si possono nemmeno ignorare i margini di potenziale abuso e il rischio che le parti con il loro accordo possano dare corso a condotte volte ad eludere i principi relativi alla corretta formazione del capitale sociale, in questo senso aiuta il richiamo fatto dal Consiglio in relazione all'applicabilità delle disposizioni di cui agli artt. 2343, 2343-ter o 2465 c.c.

In conclusione, sul punto pratico, secondo alcuni la perizia sarebbe necessaria soltanto con riferimento alla compensazione di crediti non esigibili.

Altri, distinguono tra crediti vantati dai soci per finanziamenti infruttiferi in denaro dai crediti dei soci nascenti da altre prestazioni, ad esempio, per il credito nascente dal mancato pagamento del prezzo di un bene venduto dal socio alla società, o il credito nascente dalla prestazione di servizi. Solo il primo caso potrà andare esente dalla redazione di una perizia di stima: i sottoscrittori hanno già versato alla società (anche se sotto forma di finanziamento) somme di denaro liquido. L'avvenuto versamento sarà attestato dagli amministratori e dall'organo di controllo, ove previsto nelle s.r.l. e risulterà regolarmente esposto in bilancio, come credito liquido ed esigibile.

Nello stesso senso, si è altresì espresso il Comitato Interregionale dei Consigli Notarili delle Tre Venezie, la cui massima n. H.A.4 recita che “non è necessaria la relazione di stima nel caso di aumento di capitale mediante imputazione allo stesso di somme derivanti da prestiti effettuati dai soci o da terzi alla società, sempre che detti prestiti siano avvenuti in denaro e che risultino da bilancio o da apposita situazione patrimoniale approvata dall'assemblea”.

Altri commentatori negano la necessità della relazione di stima, in quanto l'ordinamento già prevede dei rimedi contro tali abusi. Tale opinione si fonda sull'assunto secondo cui la compensazione deve ritenersi lecita nei limiti in cui il credito del socio verso la società sia vero ed esistente; la verifica si sposta, piuttosto che sul piano del valore effettivo del credito, su quello della verifica della sua genuinità ed esistenza.

Taluni ancora, pur riconoscendo i pericoli dell'operazione, evidenziano che l'ordinamento, attraverso la disposizione di cui al 2343-bis c.c., offre specifica tutela nella fase più delicata di vita della società (primi 2 anni dalla costituzione) e per gli acquisti economicamente più di peso (ove corrispettivo dovuto dalla società sia pari o superiore al decimo del capitale sociale); in fattispecie, però, oltre il perimetro dell'acquisto pericoloso, il problema sussiste e il rimedio non può consistere certamente in un rifiuto a priori di uno schema negoziale lecito; piuttosto, se non fosse possibile rintracciare una soluzione a priori che assicuri la liceità del (re)investimento, è possibile considerare gli strumenti che l'ordinamento offre volti a rintracciare e a determinare la responsabilità degli organi amministrativi della società ove l'operazione si riveli essere stata realizzata eludendo le norme che disciplinano i conferimenti in natura.

In conclusione

Come si è avuto modo di approfondire il rischio che il (re)investimento nell'ambito di un'operazione di M&A possa essere qualificato quale “conferimento in natura mascherato” è intrinseco all'operazione stessa a prescindere che si ricorra alla compensazione nell'ambito della sottoscrizione di un aumento di capitale (tema specifico affrontato dal Consiglio Notarile di Milano) ovvero la liberazione dello stesso avvenga a mezzo di un pagamento in denaro.

L'operazione di vendita di partecipazioni o dell'azienda e il successivo conferimento in denaro può rappresentare una potenziale lesione dei principi inerenti alla corretta formazione del capitale sociale molto più latente e sfumata di quella che invece ricorre per il caso di utilizzo dell'istituto della compensazione.

A prescindere dalla compensazione o meno del credito, in tale contesto al fine di valutare la liceità o meno dell'operazione di sottoscrizione dell'aumento di capitale in virtù della compensazione o del (re)investimento di parte del prezzo derivante dalla vendita, è opportuno considerare con attenzione gli indici man mano individuati dalla giurisprudenza e dai commentatori più autorevoli. In questo contesto, venendo alla pratica, come si è visto la progressione temporale e la preordinazione rappresentano la vera cartina tornasole di possibili abusi. In tale contesto, per gli operatori del settore è opportuno tenere conto di tali indici rilevatori nelle attività di pianificazione dell'operazione di compravendita e di (re)investimento, considerando con la giusta attenzione la necessità, da valutarsi caso per caso, di adempiere alle formalità tipiche dei conferimenti in natura.

È opportuno quindi valutare anzitutto l'effettivo collegamento tra l'operazione di acquisizione della società target e l'investimento richiesto nel progetto alla parte venditrice nonché considerare sommariamente la ragionevolezza del valore attribuito al bene oggetto di compravendita e per il quale sia sorto il credito del soggetto sottoscrittore in relazione al patrimonio della società oggetto dell'aumento di capitale.

Ove l'accertamento nel caso di specie evidenzi elementi di criticità tali da poter ricondurre alla figura del “conferimento in natura mascherato”, può essere suggeribile dotarsi di una perizia di stima al fine, in primis, di ottemperare al disposto di cui all'art. 2343-bis c.c. (ipotesi molto ricorrente nelle operazioni di acquisizione ove, appunto, vengono costituti veicoli ad hoc per perfezionare le acquisizioni) ovvero, qualora non si ricada nell'alveo di applicazione dell'art. 2343-bis c.c.

In questo senso non crediamo possa escludersi ogni rischio solo sulla base della cronologia degli adempimenti prevista nell'accordo quadro dell'operazione, ad esempio per il caso in cui il completamento del reinvestimento, secondo gli accordi presi, dovesse intervenire prima della data del closing relativo all'acquisizione della target. È il collegamento, la preordinazione che anzitutto interessa. L'evidenza dell'esistenza di un progetto “unico”.

Anche l'oggetto del reinvestimento potrebbe non essere un indicatore sufficiente ad escludere la necessità di approfondimento dove, ad esempio, la parte venditrice, secondo gli accordi, dovesse essere richiesta di completare il reinvestimento non nel capitale sociale della società acquirente ma ad esempio in una società controllante, una holding di progetto.

A prescindere da ogni altra valutazione, la necessità di completare l'operazione rispettando le formalità del conferimento in natura parrebbe invece meno marcata per il caso in cui il reinvestimento fosse completato attraverso la sottoscrizione da parte del venditore di quote di un fondo di investimento.