Appello (specificità dei motivi)Fonte: Cod. Proc. Civ. Articolo 342
07 Giugno 2023
Inquadramento
Il vecchio testo dell'art. 342 c.p.c., antecedente alla riforma del 2012, richiedeva all'appellante l'esposizione di «motivi specifici dell'impugnazione». Con detta riforma il testo della norma è stato radicalmente modificato, e lo stesso riferimento alla specificità è stato soppresso e sostituito con la formulazione che segue: «La motivazione dell'appello deve contenere, a pena di inammissibilità: 1) l'indicazione delle parti del provvedimento che si intende appellare e delle modifiche che vengono richieste alla ricostruzione del fatto compiuta dal giudice di primo grado; 2) l'indicazione delle circostanze da cui deriva la violazione della legge e della loro rilevanza ai fini della decisione impugnata». Con l'ultima riforma, c.d. Cartabia, l'art. 342 c.p.c. è stato nuovamente modificato, ed oggi, per le impugnazioni proposte a far data dal 1° marzo 2023, stabilisce che: «L'appello deve essere motivato, e per ciascuno dei motivi deve indicare a pena di inammissibilità, in modo chiaro, sintetico e specifico: 1) il capo della decisione di primo grado che viene impugnato; 2) le censure proposte alla ricostruzione dei fatti compiuta dal giudice di primo grado; 3) le violazioni di legge denunciate e la loro rilevanza ai fini della decisione impugnata». Sorge dunque il problema di comprendere quale sia la nozione di specificità dei motivi di appello oggi accolta dal codice di rito. Affermava il Chiovenda che «ogni domanda deve di regola poter essere oggetto di un duplice esame da parte di due diversi giudici; due esami ugualmente pieni, di due giudici aventi perfetta parità di poteri … L'appello non è più il reclamo contro il giudice inferiore, ma semplicemente il mezzo per passare da uno all'altro esame della causa» (Chiovenda, Saggi, Milano, 1993, II, 361). Ora, parlare male del Chiovenda, presso di noi, è pressappoco un delitto di lesa maestà, sicché non è propizio avventurarsi in una simile tenzone, e tuttavia non può negarsi che l'idea di «due esami ugualmente pieni, di due giudici aventi perfetta parità di poteri», è obiettivamente strampalata, da un lato perché non si comprende per quale ragione il secondo giudizio dovrebbe essere migliore del primo, dall'altro perché non si capisce per quale ragione il giudizio pieno dovrebbe essere raddoppiato e non invece triplicato o quadruplicato, e così via. In effetti, la nostra Cassazione, volendo espressamente ribaltare l'affermazione del Chiovenda, ha da lungo tempo chiarito che l'appello non rappresenta più il mezzo per passare da uno all'altro esame della causa, secondo il modello del novum iudicium, ma consiste in una revisio fondata sulla denunzia di specifici vizi di ingiustizia o nullità della sentenza impugnata, sicché l'appellante è tenuto a fornire la dimostrazione della fondatezza delle singole censure mosse alle singole statuizioni offerte dalla sentenza impugnata, il cui riesame è chiesto per ottenere la riforma del capo decisorio appellato. È stato in proposito affermato che l'appello deve contenere «i motivi specifici dell'impugnazione». Il che sta ad indicare che l'atto d'appello «non può limitarsi ad individuare le statuizioni concretamente impugnate e cosi i capi di sentenza non ancora destinati a passare in giudicato ex art. 329 cpv., c.p.c. ma deve contenere anche le argomentazioni dirette a confutare la validità delle ragioni poste dal primo giudice a fondamento della soluzione delle singole questioni su cui si regge la decisione … e, quindi, non può non indicare le singole questioni sulle quali il giudice ad quem e chiamato a decidere …, sostituendo o meno per ciascuna di esse soluzioni diverse da quelle adottate in prime cure» (Cass. civ., sez. un., 23 dicembre 2005, n. 28498).
In tale ottica, è divenuto ius receptum, nella giurisprudenza della S.C., il principio secondo cui il requisito della specificità dei motivi di cui all'art. 342 c.p.c. postula che alle argomentazioni della sentenza impugnata vengano contrapposte quelle dell'appellante, finalizzate ad inficiare il fondamento logico-giuridico delle prime, non essendo le statuizioni di una sentenza scindibili dalle argomentazioni che la sorreggono. L'appello deve cioè necessariamente contenere una parte argomentativa idonea a contrastare la motivazione della sentenza impugnata. Né — ha più volte ribadito la giurisprudenza di legittimità — v'è la possibilità di rinviare l'esposizione delle argomentazioni ad un momento successivo del giudizio o addirittura alla comparsa conclusionale, essendo l'atto d'appello quello che fissa i limiti della controversia in sede di gravame ed esaurisce il diritto potestativo di impugnazione (Cass. civ., 11 ottobre 1999, n. 11386; Cass. civ., 19 maggio 2000, n. 6503; Cass. civ., 27 giugno 2002, n. 9378). Ciò — occorre rammentare — nonostante la sentenza di primo grado sia stata censurata nella sua interezza, dovendo anche in tal caso essere specificamente confutate le ragioni addotte dal primo giudice. L'atto d'appello, ha ripetuto la S.C., deve rivolgere alla sentenza impugnata «censure puntuali e precise», ovvero deve contenere la specificazione «sia pure in forma succinta, degli errores attribuiti alla sentenza di primo grado» (Cass. civ., sez. II, 22 gennaio 2001, n. 875; Cass. civ., sez. III, 5 agosto 2002, n. 11710; Cass. civ., sez. III, 16 dicembre 2005, n. 27727; Cass. civ., sez. lav., 23 gennaio 2009, n. 1707). Val quanto dire che la formulazione dell'atto d'appello deve consentire di individuare con chiarezza le statuizioni investite dal gravame, onde consentire all'appellato e al giudice di valutare esattamente la portata dell'impugnazione. I motivi dell'impugnazione devono quindi non solo indicare il quantum appellatum, ma anche il quia: il motivo d'appello deve allora individuare le parti di cui l'appellante chiede la riforma e gli errori, in iudicando o in procedendo, da cui esse sono affette.
Insomma, è motivo specifico quello idoneo, almeno in astratto, a far cadere l'impalcatura che sorregge la sentenza impugnata. La riforma del 2012
In questo quadro, la novella dell'art.342 c.p.c. di cui alla l. n. 134/2012, mirava probabilmente a meglio definire il contenuto della nozione di specificità dei motivi di appello, indicando con maggior precisione cosa l'appello dovesse contenere. Ma, è da credere per la farraginosità della formulazione della norma, in particolare laddove faceva riferimento a fantomatiche «circostanze da cui deriva la violazione della legge», il progetto non ha avuto alcun successo. Sicché la giurisprudenza della S.C., a sezioni unite, ha dato della disposizione coniata nel 2012 una lettura minimale, sostanzialmente confermativa dell'indirizzo preesistente. La pronuncia di riferimento, in proposito, è quella che segue.
Si tratta di una pronuncia in certo qual modo sorprendente, non tanto per quello che dice, giacché non fa che riprendere principi sedimentati, quanto perché non si misura affatto con il nuovo testo della disposizione, che, a leggere la sentenza, non sembra neppure fosse medio tempore stato modificato. Il testo vigente
La prima considerazione suggerita dalla riforma dell'art. 342 c.p.c. attuata con il d.lgs. n. 149/2022 è questa: se il legislatore è intervenuto sulla norma che aveva già modificato nel 2012, ciò vuol dire che non era soddisfatto della modifica in tal modo già effettuata, così come interpretata dalla giurisprudenza di legittimità. Nella prospettiva della realizzazione degli obiettivi del PNRR, si è dunque ritenuto che la nozione di specificità dei motivi di appello dovesse essere riconsiderata. Dopodiché, l'attenzione si appunta sulla reintroduzione della specificità, collegata ai requisiti poi enumerati dalla norma, quale necessario connotato dei motivi di appello: e si tratta di una specificità per così dire rafforzata, giacché coniugata con l'osservanza dei parametri della chiarezza e sinteticità. La specificità va allora a maggior ragione intesa nell'ottica di cui si è detto: è specifico il motivo che, se vero, priva la decisione impugnata della sua base logico-giuridica; al contrario, se il motivo è vero, ma, considerato in astratto, non è idoneo a travolgere la decisione impugnata, allora non è specifico. Per esplicitare il concetto basterà un semplice esempio: se il giudice di primo grado ha affermato che il diritto di credito fatto valere dall'attore è sottoposto al termine di prescrizione breve quinquennale, e che detto termine è spirato, essendo trascorsi undici anni tra il momento in cui il diritto avrebbe potuto essere fatto valere e quello in cui è stato effettivamente azionato, il motivo volto a dimostrare che, al contrario, il termine di prescrizione applicabile non fosse quinquennale, ma decennale, non sarebbe specifico, giacché non scalfirebbe la ratio decidendi posta a sostegno della decisione impugnata, tenuto conto che, pur applicando il termine ordinario decennale, il diritto di credito azionato rimarrebbe comunque prescritto. Insomma, in ossequio al principio di specificità, per dirla in altre parole, è l'appellante a dover dire al giudice perché la sentenza impugnata è sbagliata, non è il giudice ― salvo non vi siano questioni rilevabili d'ufficio ― a dover andare a caccia di errori neppure ipotizzati, rifacendo ex novo il giudizio di primo grado. La specificità, come accennato, è inoltre evidentemente rafforzata dal richiamo ai concetti di chiarezza e sinteticità: il motivo deve essere idonea a privare la decisione impugnata della ratio decidendi che la sostiene, e deve essere svolta con caratteri di adeguata chiarezza e sintesi. A differenza della specificità, che è concetto sedimentato nel senso indicato, la chiarezza e sinteticità sono state per la prima volta ampiamente valorizzate nella riforma del 2022. Qui è difficile dire come si attesterà la giurisprudenza. Il suggerimento agli avvocati è di prestare particolare attenzione alla formulazione di motivi rispondenti al carattere della specificità come si è detto rafforzata, giacché la nuova formulazione dell'art. 342 c.p.c., pur prestandosi ad essere inteso in una prospettiva di continuità con il passato, potrebbe essere fatta oggetto di letture al contrario restrittive e severe, soprattutto una volta inquadrato il precetto nell'ottica del raggiungimento degli obiettivi del PNRR. Ricostruzione del fatto e violazione di legge
I contenuti enumerati dall'art. 342 c.p.c. appaiono in effetti eterogenei. Il n. 1 della norma, che onera l'appellante dell'individuazione del capo della decisione di primo grado che viene impugnato, si pone su un piano diverso dai successivi nn. 2 e 3. Esso, infatti, concerne il quantum appellatum, l'individuazione, cioè, della parte o delle parti di sentenza assoggettati ad impugnazione. Viceversa, ricostruzione del fatto e violazione di legge hanno a che fare col quia: qui l'appellante deve spiegare perché la sentenza di primo grado è sbagliata, o in fatto, o in diritto. Quanto al primo aspetto l'appellante deve, con riguardo alle quaestiones facti, specificamente individuare la singola o le singole questioni in tesi errati, precisando come (e, ovviamente, perché, dal momento che l'appello deve essere motivato) il fatto avrebbe dovuto essere ricostruito diversamente da quanto ritenuto dal primo giudice. La norma non dice espressamente che l'appellante debba dar conto della rilevanza della diversa ricostruzione del fatto ai fini della retta decisone della controversia, ma è del tutto ovvio che detta rilevanza debba emergere dal motivo, come la stessa disposizione espressamente chiarisce, subito dopo, con riguardo alle violazioni di legge. Così, se il giudice di primo grado, nel decidere una controversia nata da un sinistro stradale, abbia esattamente ricostruito la dinamica dell'incidente, non rileverà nulla che abbia indicato erroneamente il colore dei veicoli coinvolti. Quanto alla denuncia di violazione della legge, essa è riferibile sia alle violazioni di legge processuale, sia a quelle della legge sostanziale, sicché il precetto dettato dall'art. 342 c.p.c. riassume i vizi considerati dai nn. 3 e 4 dell'art. 360 c.p.c., con riguardo al ricorso per cassazione. Dopodiché occorre che l'appellante illustri la rilevanza dell'errore commesso in iure dal giudice ai fini della decisione impugnata. La precisazione dettata dalla norma è agevole da intendere, giacché è ben possibile che la sentenza erroneamente motivata in iure sia nondimeno conforme a diritto, come dimostra, con riguardo al giudizio di cassazione, l'art. 384, u.c., c.p.c. Anche con riguardo al giudizio di appello è del resto ben fermo l'orientamento giurisprudenziale (Cass. civ., sez. I, 5 febbraio 1987, n. 1115; Cass. civ., sez. I, 6 giugno 1987, n. 4945; Cass. civ., sez. III, 22 gennaio 2002, n. 696; Cass. civ., sez. III, 10 ottobre 2003, n. 15185) secondo cui il giudice di appello, fermi i fatti, può modificare la motivazione della sentenza impugnata, quando essa sia errata. È appena il caso di evidenziare, infine, che, ai fini dell'ammissibilità dell'appello, possono disgiuntamente essere denunciati errori concernenti la ricostruzione del fatto ovvero l'applicazione della legge. Continua a non occorrere il progetto alternativo di sentenza
L'esigenza di un «progetto alternativo di sentenza» si trova utilizzato in un parere del CSM del 5 luglio 2012 sullo schema del cd. «decreto sviluppo», ossia del testo normativo che contiene anche i provvedimenti di riforma del giudizio di appello: si dice, in sostanza, che l'atto d'appello dovrebbe essere consegnato come un progetto di sentenza, di modo che — si può aggiungere tra il serio e il faceto — il giudice possa aggiungere l'intestazione della sentenza all'inizio e la firma alla fine e collezionare così un punto di statistica. Ora, è evidente, secondo quanto si è finora detto, che è l'appellante a dover indicare al giudice d'appello gli errores commessi dal giudice di primo grado, ma ciò non significa affatto che esso debba essere formulato così come la sentenza che si pretende di ottenere dal giudice dell'impugnazione. Al riguardo è tuttora esaustivo il responso di Cass. civ., sez. un., 16 novembre 2017, n. 27199, già citata. Onere della prova in appello
La conformazione dell'atto d'appello quale revisio ed il principio di specificità dei motivi producono importanti ricadute anche sul riparto degli oneri probatori in appello. Ha chiarito la S.C. che essi non ricalcano il riparto derivante dall'applicazione, in primo grado, delle regole stabilite dal primo e dal secondo comma dell'art. 2697 c.c.: viceversa l'appellante, una volta denunciato esattamente l'errore commesso dal primo giudice, deve dare la prova della fondatezza del motivo, sicché, per questa via, egli rimane assoggettato al relativo onere probatorio indipendentemente dalla posizione ricoperta in primo grado (Cass. civ., sez. un., 23 dicembre 2005, n. 28498).
Il principio della specificità dei motivi si atteggia in modo particolare, inoltre, ove i medesimi si appuntino sulla mancata considerazione o interpretazione di documenti posti in primo grado a sostegno della linea difensiva svolta. Occorre cioè rammentare che l'art. 342 c.p.c., nella parte in cui prescrive la specificità dei motivi dell'appello, impone all'appellante, laddove tali motivi siano argomentati mediante il richiamo alla documentazione prodotta, «l'indicazione puntuale e non generica dei documenti ai quali è affidato il gravame, con la compiuta illustrazione delle ragioni, illegittimamente trascurate dal primo giudice, per le quali il contenuto di essi giustifica la tesi sostenuta dall'appellante» (Cass. civ., sez. I, 20 ottobre 2005, n. 20287). D'altro canto, la mera produzione di un documento in appello non comporta automaticamente il dovere del giudice di esaminarlo, in ossequio all'onere di allegazione delle ragioni di doglianza sotteso al principio di specificità dei motivi di appello, qualora alla produzione non si accompagni la necessaria attività di allegazione diretta ad evidenziare il contenuto del documento ed il suo significato, ai fini dell'integrazione della ingiustizia della sentenza impugnata (Cass. civ., sez. III, 7 marzo 2009, n. 8377). Appello contro sentenza sorretta da plurime rationes decidendi
Poiché i motivi di appello devono essere idonei a rimuovere la soccombenza dell'appellante, nel caso in cui la sentenza di primo grado pronunci sulla domanda in base ad una pluralità di autonome ragioni, ciascuna di per sé sufficiente a supportare la decisione, la parte soccombente ha l'onere di censurare con l'atto di appello ciascuna delle ragioni della decisione (Cass. civ., sez. lav., 13 luglio 1995, n. 7675; Cass. civ., sez. lav., 8 giugno 2001, n. 7809). La decisione di primo grado, infatti, può essere assistita da una motivazione multipla, fondata, cioè, su una pluralità di rationes decidendi, poste tra loro di volta in volta in rapporto di affiancamento (p. es. rigetto della domanda di pagamento del prezzo perché l'azione è prescritta e, in ogni caso, perché l'obbligazione è estinta per altra causa, quale l'adempimento, la compensazione, la novazione ecc..) ovvero di alternatività (p. es. rigetto della domanda di pagamento del prezzo perché il contratto di compravendita non si è concluso e perché, in ogni caso, dovendosi considerare concluso il contratto, l'obbligazione di pagamento dell'acquirente è venuta meno). Eguale situazione può darsi in ipotesi di domanda fondata su diverse causae petendi, ciascuna delle quali ritenuta fondata (p. es. domanda di rilascio di immobile perché detenuto senza titolo e, in subordine, per essere cessato il comodato). In ciascuna di tali ipotesi l'appello è ammissibile, sotto il profilo della specificità dei motivi, solo a condizione che ciascuna delle distinte rationes decidendi venga autonomamente censurata. Riferimenti
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