Dopo la formazione dell'embrione il consenso alla PMA non può essere revocato: lo ribadisce la Corte costituzionale
08 Agosto 2023
Massima
Sono inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 6, comma 3, ultimo periodo, della legge 19 febbraio 2004, n. 40 (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita), sollevate, in riferimento agli artt. 13, primo comma, e 32, secondo comma, della Costituzione. Non sono fondate le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 6, comma 3, ultimo periodo, della legge n. 40/2004, sollevate, in riferimento agli artt. 2,3 e117, primo comma, Cost., quest'ultimo in relazione all'art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo. La questione
È ammissibile la revoca (da parte dell'uomo) del consenso all'impianto in utero dell'embrione, formato a seguito di tecniche di procreazione medicalmente assistita, quando, a seguito di crioconservazione, intercorra un lasso di tempo tra la formazione dell'embrione e il preventivato impianto? Può configurarsi un termine per la revoca del consenso? Le soluzioni giuridiche
Come noto, la l. 40/2004, oggetto di plurime dichiarazioni di illegittimità costituzionale, configura il ricorso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita (originariamente solo di tipo omologo) quale strumento per ovviare a casi di sterilità o infertilità clinicamente accertati (art. 4). L'accesso alle tecniche è consentito a coppie di maggiorenni, di sesso diverso, coniugate o conviventi, in età potenzialmente fertile ed entrambi viventi (art. 5), previo consenso informato, espresso congiuntamente in forma scritta al medico responsabile della struttura (art. 6). Dispone in particolare il terzo comma del cit. art. 6 che la volontà di procedere alle tecniche procreative può essere revocata da ciascun componente della coppia “fino al momento della fecondazione dell'ovulo”. La norma or ora richiamata ben si armonizzava con l'impianto complessivo della l. 40/2004, ed in particolare con l'art. 14, il cui comma secondo prevedeva che, per ogni ciclo fecondativo, dovesse essere creato un numero di embrioni non superiore a quello strettamente necessario ad un unico e contemporaneo impianto, comunque non superiore a tre. A fronte del generale divieto di crioconservazione degli embrioni, sancito nel primo comma del cit. art. 14, tutti gli embrioni creati dovevano essere impiantati in utero, per essere la crioconservazione rimedio del tutto eccezionale, ammissibile solo in caso di grave e documentata causa di forza maggiore relativa allo stato di salute della donna, non prevedibile al momento della fecondazione; l'impianto doveva comunque essere realizzato appena possibile. Con sentenza n. 151/2009, la Consulta ha dichiarato l'illegittimità costituzionale della norma da ultimo citata nella parte in cui limitava e tre il numero degli embrioni realizzabili per ogni ciclo di trattamento e ne imponeva il contestuale impianto, con la necessità per la donna, che non desiderasse (o non potesse) avere gravidanze plurime, di dover accedere a parziali tecniche abortive, con grave compromissione della sua salute. A sua volta, la Corte costituzionale, con pronuncia n. 96/2015, ha dichiarato illegittime le previsioni di cui all'art. 1, comma primo e secondo, e 4, comma 2 della l. 40/2004, nella parte in cui non consentono il ricorso alle tecniche di PMA alle coppie fertili, portatrici di malattie genetiche trasmissibili, medicalmente accertate; a quelle coppie è stata quindi consentita la diagnosi preimpianto degli embrioni creati in vitro, perché possano decidere consapevolmente se accedere o meno ad una gravidanza, avuto riguardo allo stato di salute dell'embrione. La crioconservazione, in precedenza considerata fenomeno del tutto marginale, è divenuta la soluzione ordinaria per gli embrioni, anche in sovrannumero, che non sono stati impiantati nell'utero della donna, vieppiù a seguito di indagini genetiche. Osserva all'uopo la pronuncia in commento che: «A seguito dei suddetti interventi di questa Corte rivolti a dare corretto rilievo al diritto alla salute psicofisica della donna, il rapporto regola-eccezione relativo al divieto di crioconservazione originariamente impostato dalla l. n. 40/2004 si è rovesciato: la prassi è divenuta quindi la crioconservazione – e con essa anche la possibilità di creare embrioni non portati a nascita - e l'eccezione l'uso di tecniche di impianto a “fresco”».Malgrado l'art. 14 comma terzo della l. 40/2004 sia rimasto inalterato nella parte in cui dispone, come si è visto, che l'impianto dell'embrione sia da realizzare “non appena possibile”, si è determinata di fatto la possibilità di una dissociazione temporale, anche rilevante, tra il consenso prestato alla PMA, la creazione dell'embrione ed il trasferimento in utero. Ciò è tanto vero che si è posto il problema della destinazione di questi embrioni, ove non impiantati. L'art. 13, l. 40/2004 vieta qualsiasi sperimentazione sugli embrioni, anche ai fini di ricerca scientifica; si tratta di scelta discrezionale del legislatore, senza che da essa possano indursi profili di incostituzionalità (Corte cost. n. 84/2016). A fronte del nuovo contesto fattuale, si è posto all'attenzione della giurisprudenza e della dottrina il tema della revoca del consenso in quei casi in cui, come nella fattispecie che ha determinato l'incidente di costituzionalità, sia trascorso un considerevole lasso temporale fra la formazione dell'embrione (crioconservato) ed il preventivato impianto nell'utero. È ben possibile infatti che in questo periodo sia venuta meno quell'affectio, che aveva spinto gli interessati, potenziali genitori, a perseguire un modello di famiglia, allietato dalla nascita di figli, a causa di cessazione della convivenza, separazione personale, ma anche divorzio. Come si è visto l'art. 6 comma terzo della l. 40/2004 esclude la revoca del consenso, una volta formatosi l'embrione, senza peraltro prevedere un termine finale di irrevocabilità, da considerarsi sine die. Ciò può dar luogo alla nascita di figli, matrimoniali (siccome concepiti durante il coniugio) pure quando i termini per l'operare della presunzione di paternità di cui all'art. 232 c.c. siano già venuti meno, per il sopravvenire della crisi della coppia sposata, che aveva a suo tempo fatto ricorso alla PMA. Occorre allora inquadrare correttamente la questione. La revoca unilaterale del consenso all'impianto di un embrione è priva di effetti, se proveniente dall'uomo; la donna (anche se, dal punto di vista strettamente genetico non dovesse qualificarsi come madre, in presenza di una fecondazione eterologa con gameti provenienti da altra persona di sesso femminile) avrebbe infatti in questo caso titolo legittimante per veder realizzato il proprio desiderio di maternità. Se invece, nel dissenso dell'uomo, fosse la donna a rifiutare l'impianto nel proprio corpo dell'embrione, nessuna coercizione sarebbe ammissibile, pena l'imposizione di trattamenti medico-sanitari in spregio con il disposto degli artt. 13 e 32 Cost. Si tratta di una situazione corrispondente, se pur con le dovute e necessarie distinzioni, a quella che si presenta quanto alla scelta di interrompere o meno la gravidanza; la volontà della donna prevale necessariamente su quella dell'uomo, senza che ciò possa configurare disparità di trattamento costituzionalmente rilevante. Il Tribunale di Roma con ordinanza del 5 giugno 2022, diversamente da quanto deciso da altri giudici di merito (Trib. Santa Maria Capua Vetere 27 gennaio 2021, Procreazione assistita e separazione della coppia, in IusFamiglie 2021, con nota di Figone; Trib. Perugia 28 novembre 2020, in Giur. it. 2021, 2610) ritiene di sollevare questione di costituzionalità della disciplina di cui all'art. 6 comma terzo l. 40/2004, permettendo così alla Consulta di pronunciarsi in merito, atteso che un'analoga questione recentemente già sollevata era stata dichiarata inammissibile, per difetto di rilevanza nel caso di specie, dalla già richiamata pronuncia della Corte costituzionale n. 84 del 2016. Osservazioni
La decisione in commento affronta una questione quantomai interessante, che coinvolge profili sensibili di autodeterminazione personale (della donna a diventare madre e dell'uomo a non essere padre) e nel contempo di rispetto della dignità dell'embrione. Ci si chiede in altri termini se la volontà di avere un figlio, tramite il ricorso alla PMA, debba essere sussistente solo al momento della formazione dell'embrione, ovvero abbia anche a permanere fino all'impianto dell'embrione stesso nell'utero. Si tratta di una scelta di politica legislativa, che il legislatore del 2004 ha risolto, aderendo alla prima soluzione prospettata, mentre altri ordinamenti (quali quello inglese, francese ed austriaco, come ricorda la stessa sentenza in esame) si sono diversamente orientati. Occorre ora valutare se detta scelta, nel nuovo contesto ordinamentale rappresentato dai precedenti interventi della Corte costituzionale di cui si è dato atto, risponda o meno ad un ragionevole bilanciamento dei diritti e degli interessi contrapposti. La Consulta esclude in primo luogo che la disciplina censurata di cui all'art. 6 comma terzo l. 40/2004 possa realizzare una violazione del principio di uguaglianza ex art. 3 Cost., sacrificando solo la libertà individuale dell'uomo a non avere figli, senza comprimere la libertà personale della donna. La pronuncia è pienamente condivisibile, trattandosi di situazioni eterogenee, che non possono essere disciplinate in modo uniforme. Dopo la fecondazione e la creazione di un embrione, solo la donna, come osserva la Consulta, resta esposta all “azione medica”, che può sempre rifiutarsi di subire, stante l'incoercibilità del trattamento riproduttivo, in nome del superiore diritto all'integrità psico-fisica della donna e della libertà di autodeterminazione. Nel contempo la libertà di autodeterminazione dell'uomo (a non avere figli) è considerata recessiva rispetto a quella opposta della donna a proseguire nel trattamento, con l'aspettativa di una futura maternità. La sentenza in esame motiva tale conclusione, partendo da un dato formale: l'uomo che ricorre alla tecnica di PMA è doverosamente reso edotto della possibile crioconservazione dell'embrione, nell'ambito degli elementi minimi di conoscenza, necessari alla formazione del consenso informato, in base al decreto assunto dai Ministeri della giustizia e della salute n. 265/2016. Nel contempo la Consulta ha modo di evidenziare come il consenso informato, di cui al già citato art. 6, l. 40/2004 sia ben diverso da quello prodromico ad ogni trattamento medico-sanitario, previsto nell'art. 1 l. 219/2017. Il consenso alle tecniche di PMA esprime infatti l'assunzione di responsabilità in funzione dell'attribuzione di uno status filiationis, per il caso di nascita conseguente al trattamento di PMA. Agevole è al riguardo il richiamo alla disciplina degli artt. 8 e 9 della l. 40/2004 circa lo stato del nato e l'inammissibilità di azioni demolitive dello stesso (disconoscimento di paternità o impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità) per il caso di fecondazione eterologa con gameti di uomo diverso da colui che ebbe a dichiarare il proprio consenso alla PMA. Del resto, proprio l'art. 6 cit. impone che alla coppia che intende accedere alle tecniche di procreazione medicalmente assistita siano esplicitate in modo chiaro anche le conseguenze giuridiche delle sopra richiamate previsioni normative sull'attribuzione dello stato. Dunque, proprio la centralità di un consenso informato, che si estende all'accettazione consapevole dello stato del figlio, che dovesse nascere a seguito delle tecniche di pma, “fa sì che l'uomo sia in ogni caso consapevole della possibilità di diventare padre” e della conseguente irrilevanza di una revoca all'impianto dell'embrione già formato. La sentenza in commento rileva poi come il consenso alla PMA, manifestato dall'uomo, determini il coinvolgimento di interessi rilevanti, attinenti la stessa donna. Costei, per realizzare il comune (quantomeno all'inizio) progetto genitoriale, deve invero sottoporsi ad invasivi interventi sul proprio corpo (cicli di stimolazione ovarica, successivo prelievo dell'ovocita ed eventuali successive terapie). Dunque, “l'accesso alla PMA comporta per la donna il grave onere di mettere a disposizione la propria corporalità, con un importante investimento fisico ed emotivo in funzione della genitorialità che coinvolge rischi, aspettative, sofferenze, e che ha un punto di svolta nel momento in cui si vengono a formare uno o più embrioni”. L'investimento fisico ed emotivo della donna è giustificato dall'affidamento della condivisione del progetto genitoriale da parte dell'uomo, sicchè l'irrevocabilità del consenso è funzionale alla tutela dell'integrità psico-fisica della donna, come pure del legittimo affidamento. Ed è in questa prospettiva che si esclude anche il contrasto della norma censurata per violazione dell'art. 8 Cedu, per il tramite dell'art. 117 comma 1 Cost. Da ultimo, la Corte tiene a rimarcare come l'irrevocabilità del consenso risponda altresì ad esigenze di tutela della dignità dell'embrione, che avrebbe in sé il principio della vita, per quanto rivesta una posizione recessiva rispetto a coloro che, in quanto già persone, sono titolari di diritti di libertà e di autodeterminazione. Del resto, l'art. 1. l. 40/2004, in maniera troppo ecumenica, specifica come sia consentito il ricorso alla procreazione medicalmente assistita, alle condizioni e secondo le modalità previste dalla legge medesima, che assicura i diritti di tutti i soggetti coinvolti, compreso il concepito (il quale, più correttamente, risulta titolare di aspettative e non di diritti). Nulla certo esclude che, in un'auspicata futura riforma della materia, il legislatore possa affrontare anche la questione della revoca del consenso all'impianto dell'embrione, diversamente modulando gli ambiti di autodeterminazione dei soggetti che ricorrono alla PMA. Allo stato, peraltro, non può che concludersi, come puntualmente ha deciso la pronuncia in commento, per la revocabilità (da parte dell'uomo) del consenso alla PMA solo fino alla formazione dell'embrione e non oltre. Il principio era stato già sviluppato del resto anche in quelle decisioni che hanno ammesso l'impianto dell'embrione crioconservato, pur dopo il sopravvenuto decesso dell'uomo (Trib. Lecce 24 giugno 2019, in Fam. dir. 2020,949; ma v. in particolare Cass. 15 maggio 2019, n. 13000, con riferimento allo status di figlio nato nel matrimonio). |