Scarso rendimento: rientra nel c.d. “minimo etico” se costituisce un grave inadempimento della prestazione lavorativa?
06 Settembre 2023
Massima
Rientra nel c.d. minimo etico, con conseguente non doverosa pubblicità del codice disciplinare, la condotta che si sostanzi in un grave inadempimento della prestazione lavorativa, rimproverabile al dipendente a titolo di colpa per la negligenza e l'imperizia con cui ha eseguito le mansioni di sua pertinenza (scarso rendimento). Fatto
La Corte d'appello di Roma respingeva il reclamo del lavoratore, confermando la sentenza di primo grado che, al pari della ordinanza emessa all'esito della fase sommaria, aveva dichiarato legittimo il licenziamento per giustificato motivo soggettivo intimatogli dalla società datrice. Nel caso di specie l'attività lavorativa era caratterizzata dal fine del raggiungimento di un risultato indicato periodicamente dalla parte datoriale (target di produzione) e il licenziamento era stato motivato proprio dallo scarso rendimento del lavoratore, conseguente al costante mancato rispetto dei programmi di lavoro in precedenza stabiliti. La Corte territoriale evidenziava anche l'irrilevanza della mancata affissione del codice disciplinare, essendo stato contestato al ricorrente l'inadempimento per negligenza e imperizia degli obblighi derivanti dal contratto di lavoro, venendo anche in rilievo, nella valutazione di gravità della condotta, i precedenti disciplinari specifici, espressivi della recidiva nella medesima mancanza.
La decisione veniva impugnata innanzi alla Corte di Cassazione con un ricorso fondato su dodici motivi.
In sintesi, sotto il profilo sostanziale, il ricorrente censurava la ritenuta non necessità dell'affissione del codice disciplinare, con violazione dell'art. 7 Stat. lav. Si doleva, altresì, del mancato accertamento della violazione dell'obbligo di motivazione del licenziamento di cui all'art. 2, comma 2, l. n. 604/1966, nonché della mancata contestazione della recidiva. Il lavoratore contestava, infine, la rilevanza, ai fini del licenziamento per scarso rendimento, dei precedenti disciplinari, in violazione del principio del ne bis in idem in materia di sanzioni disciplinari e dell' art. 1455 c.c. nella valutazione dell'elemento soggettivo della condotta. La questione
Lo scarso rendimento del lavoratore può determinarne il licenziamento anche se il datore non ha provveduto all'affissione del codice disciplinare? La soluzione della Corte
Il ricorso è stato integralmente respinto.
La Corte di Cassazione non ha accolto i motivi di doglianza del ricorrente, precisando innanzitutto che il potere di risolvere il contratto di lavoro subordinato in caso di notevole inadempimento degli obblighi contrattuali deriva al datore direttamente dalla legge (art. 3 l. n. 604/1966) e non necessita, per il suo legittimo esercizio, di una dettagliata previsione, nel contratto collettivo o nel regolamento disciplinare, di ogni possibile ipotesi di comportamento integrante il suddetto requisito, spettando al giudice di verificare, ove si contesti la legittimità del recesso, se gli episodi addebitati integrino o meno l'indicata fattispecie legale.
Pertanto, anche se non specificamente previste dalla normativa negoziale, secondo il giudice di legittimità costituiscono ragione di valida intimazione del recesso le gravi violazioni dei doveri fondamentali connessi al rapporto di lavoro, ossia di quei doveri che sorreggono la stessa esistenza del rapporto, quali sono quelli imposti dagli artt. 2104 e 2105 c.c. e quelli derivanti dalle direttive aziendali.
È stato precisato, inoltre, che in tema di sanzioni disciplinari di cui all'art. 7 Stat. lav. deve distinguersi tra illeciti relativi alla violazione di specifiche prescrizioni attinenti all'organizzazione aziendale e ai modi di produzione, conoscibili solamente in quanto espressamente previste, e illeciti concernenti comportamenti manifestamente contrari ai doveri dei lavoratori e agli interessi dell'impresa, per i quali non è invece richiesta la specifica inclusione nel codice disciplinare.
Rammenta la Corte che l'esigenza di predisposizione di una normativa secondaria, con connesso onere di pubblicità, è stata affermata, ad esempio, per il caso in cui gli addebiti contestati consistano «nella violazione di norme di azione derivanti da direttive aziendali, suscettibili di mutare nel tempo, in relazione a contingenze economiche e di mercato ed al grado di elasticità nell'applicazione», richiedendosi che «l'ambito ed i limiti della loro rilevanza e gravità, ai fini disciplinari, (siano) previamente posti a conoscenza dei lavoratori, secondo le prescrizioni dell'art. 7 Stat. lav.» (Cass., sez. lav., 3 gennaio 2017, n. 54).
Il giudice di legittimità ha, quindi, affermato che nel caso di specie la Corte di appello si era attenuta ai principi sopra richiamati e aveva considerato non necessaria la pubblicità del codice disciplinare in relazione alla condotta contestata al dipendente ed esigibile «in ragione della stessa stipulazione… del contratto di lavoro”, essendo la condotta consistita in un «grave inadempimento della prestazione lavorativa, rimproverabile al lavoratore a titolo di colpa per la negligenza e l'imperizia con cui aveva eseguito le mansioni di sua pertinenza», dato «l'oggettivo divario tra il suo rendimento e le soglie produttive previste dal programma aziendale di produzione».
Con riferimento alla motivazione del recesso datoriale, la Corte ha rilevato che la lettera di licenziamento rinviava alla contestazione contenente specifici riferimenti al rendimento del lavoratore, comparato con quello medio della zona in cui egli operava e con quello nazionale, e richiamava i precedenti disciplinari, ciò dovendosi ritenere sufficiente a soddisfare l'obbligo di motivazione. Il datore, infatti, non è tenuto a descrivere nuovamente i fatti posti a base della contestazione per rendere puntualmente esplicitate le motivazioni del recesso.
È stata esclusa anche la violazione dell'art. 7 Stat. lav., avendo la Corte di merito confermato la statuizione di primo grado dopo aver interpretato la stessa nel senso dell'avvenuta valutazione non della recidiva in senso tecnico, pacificamente non contestata, bensì della “recidività”, cioè della reiterazione delle medesime condotte quale dato rilevante al fine della valutazione di gravità dell'elemento soggettivo. Ciò si poneva in linea con la giurisprudenza di legittimità secondo cui «la preventiva contestazione dell'addebito al lavoratore incolpato deve necessariamente riguardare, a pena di nullità della sanzione o del licenziamento disciplinare, anche la recidiva, e i precedenti disciplinari che la integrano, solo quando la recidiva medesima, secondo quanto previsto dalla contrattazione collettiva applicabile, rappresenti un elemento costitutivo della mancanza addebitata e non già un mero criterio, quale precedente negativo della condotta, di determinazione della sanzione proporzionata da irrogare per l'infrazione disciplinare commessa» (Cass., sez. lav., 25 gennaio 2018, n. 1909).
Infine, in relazione all'asserita violazione del principio di ne bis in idem, la Corte ha osservato che i precedenti disciplinari erano stati considerati nell'ambito del giudizio di gravità della condotta, come consentito dall'art. 7, ultimo comma, Stat. lav. È stato ribadito che una volta esercitato validamente il potere disciplinare nei confronti del prestatore di lavoro in relazione a determinati fatti costituenti infrazioni disciplinari, il datore non può esercitare una seconda volta, per quegli stessi fatti, il detto potere, ormai consumato, essendogli consentito soltanto di tener conto delle sanzioni eventualmente applicate, entro il biennio, ai fini della recidiva, nonché dei fatti non tempestivamente contestati o contestati ma non sanzionati - ove siano stati unificati con quelli ritualmente contestati - ai fini della globale valutazione, anche sotto il profilo psicologico, del comportamento del lavoratore e della gravità degli specifici episodi addebitati (Cass., sez. lav., 27 marzo 2009, n. 7523).
È stato ulteriormente precisato che la reiterazione del comportamento, che si ha per effetto della mera ripetizione della condotta in sé considerata, non è irrilevante, incidendo comunque sulla gravità del comportamento posto in essere dal lavoratore che, essendo ripetuto nel tempo, realizza una più intensa violazione degli obblighi scaturenti dal contratto di lavoro, con possibilità di applicare una sanzione più grave.
Nel caso di specie, i giudici di merito avevano legittimamente tenuto conto, ai fini della gravità della condotta, dei precedenti disciplinari specifici riferiti a diversi segmenti temporali - senza quindi alcuna violazione del principio del ne bis idem - ricavando dal protrarsi del comportamento inadempiente del dipendente, nonostante le sanzioni conservative irrogate, la convinzione della maggiore intensità della colpa al medesimo addebitabile. Osservazioni
La sentenza in esame offre l'occasione per affrontare una questione che, dati i risvolti sul piano sostanziale, non sembra di poco conto, ossia la possibilità di ricondurre entro i confini del c.d. minimo etico anche i casi di scarso rendimento del lavoratore.
Sembra opportuno iniziare da un inquadramento più generale del problema.
Con la stipulazione del contratto di lavoro, il dipendente è tenuto ad adempiere la propria prestazione attenendosi non solo ai generali principi espressi dagli artt. 1175 e 1176 c.c., ma anche a quelli che trovano la loro fonte negli artt. 2104 e 2105 c.c.
Con particolare riferimento all'esecuzione diligente delle mansioni lavorative, non si dubita che quanto svolto dal lavoratore debba essere in concreto utile per il datore. Tale utilità può essere incrinata, o anche venire meno, qualora le mansioni non siano svolte dal dipendente in termini quantitativi o qualitativi sufficienti (c.d. risultato minimo), così realizzandosi uno scarso rendimento potenzialmente incidente sul sinallagma contrattuale, nei termini espressi dall'art. 1455 c.c. (e dall'art. 3 l. n. 604/1966). In sintesi, quindi, deve essere individuato un quantum minimo di "buon" lavoro a cui il dipendente si obbliga e che deve essere assicurato al fine di garantire le legittime aspettative del datore.
Con riferimento alla possibilità di un recesso datoriale, non sono state concordi le opinioni espresse, venendo lo scarso rendimento a costituire la ragione legittimante ora un licenziamento disciplinare, ora un licenziamento per giustificato motivo oggettivo. La riconduzione all'una o all'altra ipotesi è foriera di rilevanti conseguenze, in particolare sotto il profilo della colpevolezza. L'elemento soggettivo, infatti, acquista importanza solo laddove debba essere valutata nel complesso la gravità della condotta addebitata al dipendente, al fine di evitare che condizionamenti esterni e allo stesso non imputabili (ad esempio scarsa o assente formazione) possano costituire elementi causalmente incidenti sulla sua produttività. Qualora sia dimostrato il nesso di causalità tra il dato oggettivo della riduzione di rendimento e il comportamento soggettivamente colpevole (i.e. imputabile a incapacità, imperizia o negligenza), la condotta del dipendente ben potrebbe essere sanzionata. Nella diversa ipotesi in cui lo scarso rendimento non sia rimproverabile, l'incapacità del lavoratore a svolgere proficuamente quanto richiestogli potrebbe, comunque, determinare la perdita dell'interesse in capo al datore alla prosecuzione di un rapporto economicamente “inutile”.
Nel caso di specie lo scarso rendimento del dipendente ne ha determinato il licenziamento disciplinare e ciò consente di cogliere quelli che sembrano essere dei punti critici della decisione.
La Corte ha posto l'accento sulla violazione degli obblighi scaturenti dal contratto di lavoro per ricondurre il mancato conseguimento dei risultati fissati dal datore entro i confini del minimo etico. Seguendo la giurisprudenza richiamata dagli stessi giudici di legittimità, la pubblicità del codice disciplinare costituisce un presupposto necessario solo per le condotte che, in relazione alle peculiarità dell'attività o dell'organizzazione datoriale, possono integrare ipotesi disciplinarmente rilevanti, mentre ciò non sarebbe richiesto ogniqualvolta si tratti di violazioni avvertite immediatamente come contrarie al minimo etico. Il principio di tassatività degli illeciti non potrebbe, dunque, intendersi nel senso tipico del diritto penale, dovendosi distinguere tra violazioni di prescrizioni che sono dettate dal datore e suscettibili di mutare nel tempo (per lo più ignote alla collettività e, quindi, conoscibili solo se espressamente previste ed inserite nel codice disciplinare) e i comportamenti contrari alle generali regole del vivere civile e violativi degli obblighi acquisiti dalla coscienza sociale, inclusi anche i doveri fondamentali del dipendente collegati all'esecuzione della proprie mansioni. Per questi ultimi non sarebbe necessaria la specifica inclusione nel codice disciplinare, derivando il potere sanzionatorio del datore direttamente dalla legge (cfr.: Cass, sez. lav., 21 luglio 2015, n. 15218).
In sintesi, pertanto, la tipicità è richiesta per le violazioni di norme di azione derivanti da direttive aziendali collegate a contingenze economiche e di mercato, cui ambito e limiti di rilevanza e gravità, ai fini disciplinari, devono essere previamente posti a conoscenza dei lavoratori, secondo quanto previsto dall'art. 7 Stat. lav.
Seguendo tale giurisprudenza, non sarebbe corretto affermare che la legge (i.e. l'art. 7 prefato) subordina la validità del licenziamento per colpa del lavoratore alla previa indicazione degli specifici comportamenti vietati, ciò traducendosi nell'escludere l'applicazione degli artt. 1 e 3 l. n. 604/1966 e dell'art. 2119 c.c., i quali verrebbero a costituire soltanto la fonte di legittimità di una normazione secondaria. Su tale posizione ermeneutica si innesta la locuzione del c.d. minimo etico, utilizzata per designare quei fatti (oltre agli illeciti penali) il cui divieto risiede non già nelle fonti collettive o nelle determinazioni del datore, bensì nella coscienza sociale, sostanziandosi in comportamenti così deprecabili e gravi da apparire ictu oculi incompatibili con le regole del vivere civile e delle quali il lavoratore può rappresentarsi le conseguenze (prevedibilità della sanzione espulsiva). Una tale delimitazione del confine semantico del c.d. minimo etico, tuttavia, si concilia solo entro determinati limiti con il concetto di scarso rendimento sopra esposto, in particolare con le ipotesi in cui il mancato raggiungimento del risultato minimo dovuto si presenti, sotto il profilo oggettivo e soggettivo, connotato da “particolare gravità” (espressione spesso impiegata nei codici disciplinari in relazione a tale fattispecie quanto prevista espressamente). In questi termini, infatti, potrebbe rinvenirsi un più sicuro fondamento legislativo del recesso datoriale nell'art. 1455 c.c. e nell'art. 3 l. n. 604/1966, piuttosto che in un generico richiamo alle regole della convivenza civile o agli obblighi scaturenti dal contratto di lavoro. Le mere mancanze del lavoratore nello svolgimento delle sue mansioni non consentirebbero, pertanto, di rinvenire automaticamente quell'intrinseco disvalore da chiunque percepibile che dovrebbe caratterizzare il minimo etico.
Nel caso di specie – e qui si riscontrano le criticità sopra accennate - si nota un'incongruenza nella parte in fatto e in diritto della decisone: sebbene nel descrivere la vicenda si faccia riferimento ai target di produzione fissati dal datore, la cui violazione ha determinato il licenziamento per scarso rendimento, i giudici di legittimità giungono a ricondurre la fattispecie nel perimetro del minimo etico, andando così a porsi in contrasto non solo con il significato attribuito a tale locuzione, ma anche con la giurisprudenza citata che richiede la pubblicazione del codice disciplinare per i fatti riconducibili a direttive datoriali, mutabili nel tempo in ragione delle condizioni del mercato.
Tenuto fermo quanto sopra, in termini generali si dubita della riconduzione nel minimo etico dello scarso rendimento in sé e per sé considerato. Se come regole del vivere civile si richiama il principio pacta sunt servanda sunt, il lavoratore che si sia obbligato ad eseguire la sua prestazione garantendo (esplicitamente o implicitamente) un risultato minimo, non potrebbe rappresentarsi, quale conseguenza di una sua minore produttività, una sanzione espulsiva se non entro i limiti in cui, in termini generali, il legislatore legittima la risoluzione unilaterale del rapporto per il caso di “rilevante inadempimento”. Pertanto, potrebbe essere opinabile la conformità alla legge di un licenziamento disciplinare basato, ad esempio, su un solo episodio di mancato conseguimento del risultato atteso (che potrebbe, in ipotesi, essere anche di poco inferiore a quanto richiesto dal datore).
Tale ultima osservazione si lega a quanto affermato dalla Corte di Cassazione con riferimento ai precedenti comportamenti contestati al lavoratore. Nel caso specifico è stata esclusa la violazione del divieto di bis in idem in quando la recidiva non si presentava quale elemento costitutivo di una fattispecie tipica giustificante la sanzione espulsiva, bensì un canone per valutare la gravità della condotta da ultimo addebitata.
Tuttavia, sembra opportuno considerare che lo scarso rendimento potrebbe, per certi versi, configurarsi come una fattispecie a formazione progressiva che si perfeziona quando si realizza una significativa serie di comportamenti contrari alle direttive datoriali (target di produzione) in un certo arco di tempo. Singolarmente considerati, gli episodi potrebbero costituire elemento per una prognosi negativa circa l'affidamento sulla futura regolare esecuzione delle obbligazioni contrattuali (in termini di performance) da parte del lavoratore, ma non anche integrare ipso facto il requisito della gravità.
Sul punto si osserva che se i precedenti episodi sono stati sanzionati, affinché possano essere valutati quali circostanze utili ad integrare la fattispecie di “grave inadempimento”, occorrerebbe che se ne dimostri la nuova e diversa incidenza sull'organizzazione di lavoro, con apprezzamento complessivo dei risultati negativi e accertamento dello specifico disvalore. Diversamente, lo stesso fatto già sanzionato diverrebbe oggetto di un nuovo addebito, fondato su una diversa valutazione giuridica della stessa violazione dell'obbligo di diligente esecuzione della prestazione lavorativa (cfr.: Cass., sez. lav., 11 agosto 2022, n. 24722). Per approfondire
A. Loro, Licenziamento per scarso rendimento: dibattito giurisprudenziale aperto. in Dir. Pr. Lav., 11 marzo 2023, n. 10, pp. 643 ss.
A. Ventura, Lo scarso rendimento per cumulo di sanzioni disciplinari, in Lav. giur., 2017, 7, pp. 654 ss.
E. Gramano, Sul licenziamento intimato per scarso rendimento, in Argomenti dir. lav., 2017, 6, pp. 501 ss.
F. Pisani, Licenziamento per scarso rendimento mascherato da licenziamento disciplinare, in Argomenti dir. lav., 2017, 3, pp. 713 ss.
G. Castellani, Violazione del minimo etico - violazione del minimo etico e licenziamento: una proposta di superamento, in Giur. it., 2016, I, pp. 138 ss.
R. Garofalo, Sulla sanzionabilità dello scarso rendimento, in Lav. giur., 2007, 5, pp. 455 ss.
A. Preteroti, Scarso rendimento: indice sintomatico e segno non equivoco della negligenza?, in Argomenti dir. lav., 2004, I, pp. 375 ss.
P. Ichino, Sullo scarso rendimento come fattispecie anfibia, suscettibile di costituire al tempo stesso giustificato motivo oggettivo e soggettivo di licenziamento, in Riv. it. dir. lav., 2003, II, pp. 696 ss. |