Dipendente in malattia: limiti e requisiti per la fruizione delle ferie maturate e non godute per evitare il superamento del periodo di comporto

16 Novembre 2023

La Corte di Cassazione approfondisce il rapporto tra ferie e stato di malattia, precisando che il lavoratore ha facoltà di chiedere al datore di lavoro la conversione del titolo della propria assenza. La Suprema Corte esamina anche le opzioni a disposizione della parte datoriale del rapporto: la richiesta del dipendente non deve necessariamente essere accolta, ma è necessario che il rifiuto sia giustificato.

LA MASSIMA

Il lavoratore assente per malattia ha facoltà di domandare la fruizione delle ferie maturate e non godute, allo scopo di sospendere il decorso del periodo di comporto, non sussistendo una incompatibilità assoluta tra malattia e ferie, senza che a tale facoltà corrisponda comunque un obbligo del datore di lavoro di accedere alla richiesta, ove ricorrano ragioni organizzative di natura ostativa; in un'ottica di bilanciamento degli interessi contrapposti, nonché in ossequio alle clausole generali di correttezza e buona fede, è necessario, tuttavia, che le dedotte ragioni datoriali siano concrete ed effettive.

IL CASO

La richiesta di ferie avanzata dal lavoratore in malattia

L'ordinanza in esame decide sul caso di un lavoratore licenziato per superamento del periodo di comporto.

Nel corso della malattia il lavoratore aveva chiesto di fruire delle ferie da lui già maturate e, successivamente, di godere di un periodo di aspettativa non retribuita, allo scopo di evitare che il prolungarsi dello stato di inabilità al lavoro potesse sfociare nel licenziamento.

Il datore di lavoro aveva negato le ferie, concedendo esclusivamente un periodo di aspettativa non retribuita della durata di circa quattro mesi; al termine dell'aspettativa, constatato il mancato ritorno al lavoro del dipendente e l'avvenuto superamento del periodo di comporto, aveva troncato il rapporto.  

LA QUESTIONE

La legittimità del licenziamento da superamento del periodo di comporto

Il lavoratore impugnava il licenziamento e ricorreva al Giudice del lavoro per ottenerne l'annullamento, oltre che per ottenere il risarcimento del danno biologico subìto in conseguenza del mobbing perpetrato dall'azienda e per richiedere il pagamento di differenze retributive. In primo grado tutte le domande del prestatore venivano accolte.

All'esito del giudizio d'appello veniva elisa la condanna della parte datoriale al risarcimento del danno e venivano diversamente quantificate le differenze retributive dovute; era invece confermata in toto la parte della decisione del giudice di prime cure in punto illegittimità del recesso (cui conseguiva l'annullamento dello stesso e la reintegrazione nel posto di lavoro).

Il datore di lavoro proponeva ricorso per Cassazione, affidato a tre motivi, destinati ad essere esaminati congiuntamente dalla Suprema Corte. Le doglianze si appuntavano sulla violazione e falsa applicazione dell'art. 2110 c.c. e delle norme della contrattualistica collettiva in materia di malattia, nonché sulla contraddittorietà ed illogicità della motivazione della sentenza impugnata a proposito della fruizione del periodo di aspettativa da parte del lavoratore e della decisione aziendale di non mutare il titolo dell'assenza.

LE SOLUZIONI GIURIDICHE

L'organizzazione dell'impresa e la concessione ai dipendenti delle ferie

La Corte di Cassazione decideva nel senso dell'inammissibilità del ricorso.

La motivazione dell'ordinanza in commento si fonda sull'ormai consolidato indirizzo interpretativo secondo cui il lavoratore assente per malattia ha facoltà di richiedere di fruire delle ferie già maturate e non fruite allo scopo di sospendere il decorso del periodo di comporto. Tale soluzione esegetica postula che non esista una assoluta incompatibilità tra lo stato di malattia e le ferie. Alla facoltà del lavoratore non corrisponde tuttavia un obbligo del datore di lavoro di acconsentire alla richiesta: la parte datoriale conserva la possibilità di opporre un rifiuto, se giustificato da ragioni organizzative concrete ed effettive.

Il ragionamento dei giudici di legittimità involge l'art. 2109, comma 2, c.c., che conferisce al datore di lavoro il potere di determinare il periodo annuale nel corso del quale il dipendente può fruire del periodo di ferie, tenendo conto dell'esigenza dell'impresa e degli interessi del prestatore di lavoro. E' dunque la stessa norma di legge ad imporre la necessità di un contemperamento tra le aspettative delle parti del contratto di lavoro, nel corso del quale occorre valorizzare l'esposizione del lavoratore al rischio di perdita del posto di lavoro al momento del superamento del periodo di comporto. Ancora l'elaborazione giurisprudenziale richiamata dalla pronunzia in esame puntualizza però che il datore non può considerarsi tenuto ad alcun obbligo quando nel caso concreto il lavoratore possa scongiurare il suddetto rischio di subire il recesso avvalendosi di istituti legali o contrattuali tali da bloccare l'avanzamento del comporto; al proposito si richiama quale esempio il collocamento in aspettativa, anche se non retribuita.

Compiute tali premesse, la Suprema Corte considera le sentenze impugnate pienamente in linea con l'orientamento esegetico appena riassunto. Infatti, era stato possibile ricostruire che il lavoratore caduto in malattia, nel chiedere di poter fruire delle ferie da lui maturate e non ancora godute, aveva contestualmente anticipato l'intenzione di domandare il collocamento in aspettativa non retribuita. La controparte datoriale aveva acconsentito solo alla seconda richiesta, dunque collocando sin da subito il prestatore in aspettativa, senza però spiegare il motivo alla base del rifiuto di assegnazione delle ferie. In particolare, nel corso dei giudizi di merito emergeva che il diniego in parola veniva assunto indipendentemente dalla ricorrenza o meno di ragioni organizzative o produttive.

La decisione si confronta poi con temi di natura spiccatamente processuale. In primo luogo, i Giudici di legittimità rilevano che i motivi di ricorso svelano una non consentita sovrapposizione tra mezzi di impugnazione eterogenei. Viene dunque ribadito che non è ammissibile la prospettazione di una medesima questione sotto profili incompatibili tra loro: nel caso di specie, si trattava della denunzia della violazione di norme di diritto (che postula l'accertamento degli elementi di fatto in relazione al quale si deve decidere della denunziata violazione) e della contestuale denunzia del vizio di motivazione (che al contrario è tesa a rimettere in discussione proprio gli stessi elementi).

Non solo, la Corte di Cassazione ha modo altresì di ribadire la definizione della cd. doppia conforme, fattispecie che si verifica quando la decisione di secondo grado è interamente corrispondente a quella di primo grado ed anche quando le statuizioni dei due gradi di giudizio appaiono fondate sullo stesso iter logico argomentativo a proposito dei fatti oggetto di causa, a nulla rilevando che il giudice di appello introduca argomenti ulteriori al solo fine di rafforzare o precisare la decisione del giudice di prime cure.

La ricorrenza di una doppia conforme implica l'inammissibilità della censura di omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio di cui all'art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c.  Il ricorrente per Cassazione che intenda comunque denunziare un simile vizio – prosegue ancora l'ordinanza in commento – può evitare di incorrere nella fattispecie di inammissibilità appena richiamata solo dimostrando la sussistenza di una diversità tra le ragioni di fatti poste a base della decisione di primo grado e le ragioni poste a base della sentenza di rigetto dell'impugnazione. Nel caso di specie, però, nonostante le decisioni di primo e secondo grado fossero tra loro conformi quanto alla decisione sulla illegittimità del licenziamento, il ricorrente ometteva del tutto di allegare in quali punti le rispettive motivazioni presentassero (presunte) differenziazioni. Ne discendeva, anche sotto questo aspetto, la declaratoria di inammissibilità del ricorso del datore di lavoro.      

OSSERVAZIONI

Il bilanciamento tra l'interesse alla conservazione del posto e l'interesse alla gestione efficiente dell'impresa; il rilievo del collocamento in aspettativa

Il diritto del lavoratore a godere di ferie annuali retribuite trova il più elevato riconoscimento nell'art. 36, comma 3, Cost., fonte che puntualizza inoltre il carattere irrinunziabile di tale posizione giuridica.

La funzione delle ferie, stando alla consolidata elaborazione giurisprudenziale e dottrinale, va individuata nella messa a disposizione del prestatore di lavoro di un congruo periodo di tempo durante il quale recuperare le energie psicofisiche spese nell'adempimento della prestazione tipica e soddisfare le esigenze ricreative meritevoli di appagamento, onde garantire una salutare alternanza tra momenti dedicati al lavoro ed altri dedicati allo svago ed ancora una volta assicurare al dipendente un complessivo status di benessere fisico.

Così tratteggiato lo scopo delle ferie, sembrerebbe intuitiva la differenza con l'istituto dell'assenza giustificata per malattia: anche quest'ultimo può dirsi finalizzato al recupero della piena efficienza del lavoratore, minata in tale ipotesi dallo stato morboso, ma sicuramente non al soddisfacimento di piacevoli passatempi.

Non casualmente, l'art. 2109 c.c. è stato oggetto della sentenza della Corte Costituzionale 30 dicembre 1987, n°616, che ha dichiarato l'incostituzionalità della norma nella parte in cui non prevede che la malattia insorta durante le ferie ne sospenda il decorso. La Corte di Cassazione (sentenza 10 gennaio 2017, n. 284) ha precisato che la trasmissione da parte del lavoratore al datore di lavoro della certificazione di malattia durante il periodo di ferie può dirsi sufficiente a realizzare la conversione del titolo dell'assenza. Tanto si verifica a ragione della cennata potenzialità dello stato morboso ad impedire il conseguimento del riposo e della ricreazione del prestatore di lavoro che costituiscono l'obiettivo che l'ordinamento ha inteso assegnare al riposo feriale. D'altro canto, la parte datoriale conserva la facoltà di contestare la modificazione del titolo dell'assenza dando prova dell'inesistenza, nel caso concreto, di un autentico pregiudizio per il lavoratore, ossia dimostrando che la malattia non ha avuto effetti tali da precludere il recupero delle energie psicofisiche del dipendente.

Dalla conversione del titolo dell'assenza da ferie a malattia ne discende il diritto del lavoratore a fruire delle ferie non godute in altro periodo che potrà essere indicato dal datore di lavoro (in tal senso si veda la sentenza della Corte di Giustizia UE 10 settembre 2009, C-277/08). L'evento morboso, invece, non potrà cagionare l'aumento del numero di giorni di ferie spettanti: anche su questo punto è illuminante la giurisprudenza eurounitaria, per cui “l'articolo 7, paragrafo 1, della direttiva 2003/88/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 4 novembre 2003, concernente taluni aspetti dell'organizzazione dell'orario di lavoro, dev'essere interpretato nel senso che esso non osta a normative nazionali e a contratti collettivi che prevedono la concessione di giorni di ferie annuali retribuite eccedenti il periodo minimo di quattro settimane previsto da tale disposizione, escludendo nel contempo il riporto, a causa di malattia, di detti giorni di ferie” (così la sentenza della Corte di Giustizia UE 19 novembre 2019, C-609/17 e C-610/17 riunite).

Nondimeno, ferie e malattia non possono dirsi sempre incompatibili tra loro, né può ritenersi preclusa una conversione del titolo dell'assenza di segno opposto a quella appena considerata: da assenza per malattia ad assenza per ferie.

La Suprema Corte si è più volte soffermata su tale questione, specie a seguito della sentenza della Consulta n°616 del 1987, erroneamente interpretata da alcune corti di merito come espressiva di un divieto ad operare la conversione da malattia a ferie. Già con la sentenza della Sezione Lavoro 19 novembre 1998, n°11691, si esplicitava che l'incompatibilità del godimento delle ferie con la malattia affermata dal Giudice delle leggi non può essere considerata operante in via generale, non potendosi escludere in via assoluta che il lavoratore in malattia possa fruire delle ferie. Tale conclusione, del resto, era stata fatta propria dalla stessa Corte Costituzionale con la decisione n. 297/1990, tornata a confrontarsi con il precedente del 1987 per esplicitare che “il principio dell'effetto sospensivo non ha valore assoluto, ma tollera eccezioni, per l'individuazione delle quali occorre aver riguardo alla specificità degli stati morbosi e delle cure di volta in volta considerate”.

Del resto, la conversione di cui si discute è suscettibile di avere ricadute favorevoli al lavoratore nell'eventualità – peraltro alla base dell'ordinanza in commento – in cui la fruizione di ferie in stato di malattia serva ad evitare il superamento del periodo di comporto. Come notato dalla testé citata sentenza di legittimità n. 11691/1998, negare la modificabilità del titolo dell'assenza in casi siffatti, sia pure con il lodevole intento di riservare la fruizione del periodo feriale ai momenti in cui il dipendente è in buona salute e dunque in grado di apprezzare al meglio il momento di riposo, cagionerebbe al prestatore di lavoro un pregiudizio ancora più grave, provocando il superamento del comporto e il conseguente licenziamento. Ovviamente un simile esito non può dirsi desiderato dal lavoratore; esso avrebbe, tra le tante negative implicazioni, anche quella, beffarda, di negare alla radice il diritto all'effettivo godimento delle ferie, con tutta evidenza impossibile dopo il recesso, evento quest'ultimo dopo il quale residua solo il diritto all'indennità sostitutiva.

Si può dunque affermare che l'ordinanza in esame sceglie di fare propria un'esegesi ormai consolidata, secondo cui il lavoratore caduto in malattia ha la facoltà di domandare al datore di lavoro di fruire delle ferie maturate e non ancora godute, al preciso scopo di mutare il titolo della propria assenza e sospendere così il decorso del periodo di comporto. Il prestatore di lavoro, quando voglia esercitare tale diritto, è sempre tenuto ad avanzare una esplicita richiesta di fruizione delle ferie, in un momento necessariamente precedente a quello della scadenza del comporto, dopo il quale il datore di lavoro diviene legittimato a recedere dal rapporto ai sensi dell'art. 2110 c.c. (lo ribadisce anche Cass., sez. lav., 17 aprile 2019, n. 10725).

La necessità, per il dipendente, di indirizzare alla propria controparte datoriale una richiesta ad hoc, che dovrà anche specificare, per le ragioni appena viste, da quale momento si intende perseguire la conversione del titolo dell'assenza, si spiega anche con la finalità di consentire all'impresa di esercitare sulla stessa il proprio vaglio. Il datore di lavoro, infatti, non può considerarsi tenuto ad accogliere in ogni caso la domanda del prestatore di lavoro; anzi, egli conserva il diritto (espressamente riconosciutogli dall'art. 2109 c.c.) di stabilire il momento in cui le ferie possono essere fruite. La decisione sul tema consiste, del resto, in una estrinsecazione del potere organizzativo e direttivo dell'azienda che è proprio della sola figura datoriale e che, su un piano ancora più generale, attiene al libero esercizio dell'iniziativa economica, costituzionalmente garantito dall'art. 41 della Carta.

Come ricorda l'ordinanza in esame, il datore di lavoro, nel vagliare la richiesta del dipendente, deve esercitare il sopra ricordato potere organizzativo dell'impresa secondo correttezza e buona fede, tenendo in debita considerazione la delicatezza della posizione del lavoratore, esposto al rischio di perdere il proprio posto in conseguenza del superamento del comporto. Nella pratica, ciò significa che la parte datoriale potrà legittimamente rifiutare la conversione del titolo dell'assenza solo in presenza di concrete ed effettive ragioni organizzative che siano appunto d'ostacolo all'accoglimento dell'istanza del lavoratore. Inoltre, in ossequio al principio di vicinanza della prova, laddove venga impugnato il licenziamento per superamento del periodo di comporto che segua alla mancata concessione delle ferie, ricadrà sulla parte datoriale l'onere di dimostrare l'effettiva ricorrenza di ragioni tali da impedire l'assegnazione del periodo feriale.

La verifica su quest'ultimo punto, com'è facile immaginare, attiene soprattutto all'apprezzamento di circostanze fattuali. Non è allora un caso che l'ordinanza di legittimità allo studio non si soffermi a lungo sul tema, limitando il proprio scrutinio alla correttezza delle motivazioni delle precedenti pronunzie di merito che avevano ritenuto sostanzialmente immotivato il diniego datoriale delle ferie maturate e non fruite che il lavoratore aveva richiesto prima della scadenza del periodo di comporto. Per comprendere meglio quale tipo di onere probatorio deve essere soddisfatto dalla parte datoriale è allora opportuno rivolgersi alla giurisprudenza di merito. Per esempio, sembra interessante la sentenza del Tribunale di Firenze, Sezione Lavoro, 1° febbraio 2022, n. 66. Nel caso alla base della decisione da ultimo richiamata, il datore di lavoro, esercitante l'attività alberghiera, aveva tentato di giustificare il proprio diniego alla concessione di ferie in favore del dipendente malato sostenendo che il concomitante aumento delle presenze in albergo avrebbe reso insostenibile tale misura. La Corte fiorentina non aveva però ritenuto convincente tale ricostruzione, dal momento che la parte datoriale non riusciva ad allegare e provare l'entità del preteso aggravio di lavoro, documentando l'effettivo incremento di presenze, né l'incidenza causale sui turni di lavoro del personale da impiegarsi; al contrario, era emerso che, mentre venivano negate le ferie al dipendente malato, altri lavoratori fruivano regolarmente del riposo feriale, senza che l'impresa adottasse alcuna riprogrammazione del cd. piano ferie.

Resta da esaminare l'influenza sul tema degli altri istituti, di fonte legale o contrattuale, che possano servire al lavoratore per evitare il superamento del periodo di comporto; il riferimento è in prima battuta all'aspettativa, sia essa retribuita o no.

L'ordinanza in commento ritiene che, quando il prestatore di lavoro abbia la possibilità di ricorrere a tali istituti, il datore non sia tenuto a concedere le ferie dal momento che lo scopo di evitare di incorrere nel recesso ai sensi dell'art. 2110 c.c. può essere raggiunto senza lo sfruttamento del periodo feriale. Nel caso di specie, peraltro, l'evento morboso era di gravità tale da suggerire al dipendente l'opportunità di chiedere alla propria controparte tanto la concessione delle ferie quanto il collocamento in aspettativa. L'impresa aveva riscontrato tali domande ponendo subito il lavoratore in aspettativa: un comportamento che, sino a questo punto, poteva dirsi in linea con la corrente interpretativa fatta propria dall'ordinanza. Successivamente, però, alla scadenza dell'aspettativa, era stato irrogato il licenziamento, senza previa concessione delle ferie. Proprio in ciò risiedeva l'antigiuridicità del comportamento datoriale, che avrebbe dovuto vagliare più attentamente la richiesta del dipendente (ormai privato della possibilità di utilizzare altri strumenti per evitare il superamento del comporto) e pervenire a negare il periodo feriale solo in presenza di autentiche ragioni organizzative o produttive a ciò ostative: ragioni la cui ricorrenza nel caso concreto non era stata dimostrata.

Occorre però dar conto di una posizione esegetica di segno diverso. Secondo la pronunzia, pure di legittimità, 29 ottobre 2018, n. 27392, non può invocarsi un obbligo del lavoratore di avvalersi di regolamentazioni legali o contrattuali che gli consentano di evitare la risoluzione del rapporto quando in concreto non sussistano ragioni ostative rispetto ad una richiesta di ferie tempestivamente avanzata e che avrebbe consentito al dipendente di proseguire nel rapporto di lavoro senza dover far ricorso all'aspettativa. Ben si vede come quest'ultima decisione postuli che il lavoratore possa ricorrere agli istituti utili ad evitare di superare il comporto secondo un ordine opposto a quello propugnato dall'ordinanza in esame. La decisione allo studio, peraltro, si pone in continuità con precedenti della Suprema Corte tanto risalenti quanto più recenti (possono citarsi le decisioni 9 aprile 2003, n. 5521 e, recentemente, 27 marzo 2020, n°7566): personalmente, sembra di poter affermare che tale soluzione si ponga maggiormente in linea con la richiamata ottica di bilanciamento tra interessi contrapposti e di esercizio dei propri diritti secondo correttezza e buona fede, anche da parte del lavoratore.

GUIDA ALL'APPROFONDIMENTO

Giurisprudenza:

Corte Cost. 30 dicembre 1987, n°616

Cass., sez. lav., 19 novembre 1998, n°11691

Cass., sez. lav., 9 aprile 2003, n°5521

Corte di Giustizia UE 10 settembre 2009, C-277/08

Cass., sez. lav., 10 gennaio 2017, n°284

Cass., sez. lav., 29 ottobre 2018, n°27392

Cass., sez. lav., 17 aprile 2019, n°10725

Corte di Giustizia UE 19 novembre 2019, C-609/17 e C-610/17 riunite

Cass., sez. lav., 27 marzo 2020, n°7566

Tribunale Firenze, sez. lav., 1° febbraio 2022, n°66

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