Requisiti dei contratti di licenza d’uso di marchio e limiti all’utilizzo del diritto al nome e all’immagine

04 Gennaio 2024

L'Avvocato Lino approfondisce le due questioni affrontate dalla Cassazione nella pronuncia in commento: quali sono gli elementi essenziali di un contratto di licenza d’uso di marchio e quali sono i limiti del principio della revocabilità dell’uso di diritti personalissimi laddove siano oggetto di contratti a prestazioni corrispettive.

Massima

Quanto alla possibilità di qualificare la fattispecie come assenso all'uso del nome come segno distintivo, non appare pertinente il richiamo della Corte d'appello al principio, più volte ribadito dalla giurisprudenza di legittimità in riferimento al diritto all'immagine, ma ritenuto applicabile anche agli altri diritti della personalità, secondo cui il consenso all'utilizzazione di tali diritti costituisce un negozio unilaterale, avente ad oggetto non già il diritto, personalissimo ed inalienabile, ma soltanto il suo esercizio, e pertanto, pur potendo essere occasionalmente inserito in un contratto, da esso resta tuttavia distinto ed autonomo, con la conseguenza che è revocabile in ogni tempo, indipendentemente dalla pattuizione del compenso, che non costituisce un elemento del negozio autorizzativo in questione. In quanto volto essenzialmente ad evidenziare la revocabilità del consenso prestato dal titolare, il quale non può rinunciare al proprio diritto né spogliarsene definitivamente a favore di altri soggetti, tale principio non è applicabile, nella sua assolutezza, ai contratti aventi ad oggetto lo sfruttamento a fini commerciali dei predetti diritti, la cui rilevanza economica, emergente ictu oculi dall'osservazione della realtà sociale, ne comporta, secondo la dottrina, l'assoggettabilità ad atti di disposizione, normalmente configurabili come contratti di scambio, in quanto caratterizzati dalla previsione di un corrispettivo a favore del titolare del diritto.

Il caso

Gli attori convenivano in giudizio, di fronte al Tribunale di Bologna, la società D.Vini S.p.a. per sentir dichiarare la nullità della domanda di marchio depositata il 27 maggio 2011 da quest'ultima e per sentir accertare che l'uso di tale segno da parte della convenuta per contraddistinguere bottiglie di vino configurava contraffazione dei marchi nonché della denominazione sociale delle titolari attrici. A giustificazione delle proprie domande, le attrici allegavano di essere titolare di tali suddetti diritti, utilizzati precedentemente al deposito della domanda di registrazione del marchio in discussione.

A fronte di tale ricostruzione, le attrici chiedevano l'emissione di un provvedimento di inibitoria alla continuazione dell'illecito, oltre alla rimozione delle immagini del marchio contestato dal sito web della convenuta e da ogni altra forma di pubblicità o attività legata a tale società, oltre alla pubblicazione del provvedimento e la condanna della convenuta al risarcimento del danno provocato. In via di mero subordine le attrici chiedevano che fosse accertata la revoca – a partire dal 7 maggio 2012 – del consenso eventualmente acquisito con scrittura privata del 1° luglio 2007.

Si costituiva la convenuta in tale procedimento eccependo il difetto di titolarità dei diritti azionati dalle attrici e la legittimità all'uso del segno in virtù della scrittura sottoscritta da uno di tali attori con D.Vini S.p.a. nonché chiedendo, in via riconvenzionale, la dichiarazione di nullità parziale dei marchi fatti valere in giudizio dagli attori, limitatamente alle classi 21 e 33, in quanto registrati in malafede.

Il Tribunale di Bologna, con successiva sentenza del 9 maggio 2016, dopo aver separato e rimandato all'UIBM (Ufficio Italiano Brevetti e Marchi) la causa avente ad oggetto la nullità della domanda di registrazione del marchio contestato, rigettava le domande degli attori, pur ritenendoli legittimati ad agire, in forza dell'assenso alla registrazione del marchio rilasciato tramite accordo sottoscritto, qualificato dal Tribunale quale licenza d'uso. Inoltre, il Tribunale rilevava che non sussisteva alcun rischio di confusione o associazione tra i marchi considerata la mancata dimostrazione della notorietà del marchio. Infine, il Tribunale rigettava altresì anche la domanda riconvenzionale della convenuta, ritenendo non dimostrata la mala fede degli attori al momento della registrazione del proprio marchio.

Entrambe le parti impugnavano la sentenza avanti alla Corte d'Appello di Bologna, la quale, con provvedimento del 3 marzo 2020, rigettava sia l'appello principale degli attori che quello incidentale proposto dalla convenuta.

In particolare, la Corte riconosceva alla convenuta la titolarità esclusiva sui diritti sul marchio in discussione, concessa proprio da uno degli attori tramite la scrittura privata sopra richiamata. Sul punto la Corte giudicava irrilevante la mancata indicazione del corrispettivo all'interno dell'accordo, ritenendo che esso potesse essere rimesso anche alla determinazione periodica delle parti per mezzo di successivi accordi. In aggiunta, la Corte riteneva inefficace la revoca del consenso intervenuta con lettera del 7 maggio 2012, in quanto successiva all'utilizzazione del nome e proveniente dagli appellanti.

A margine, con la propria decisione la Corte negava altresì che gli attori fossero cessionari esclusivi del diritto al nome e all'immagine del nonno (cedente), essendo stato prodotto in giudizio solo l'assenso alla registrazione del marchio; oltre a ciò, la Corte chiariva che l'opponibilità a terzi di tale scrittura non era esclusa dagli artt. 138 e 139 D.Lgs. 30/2005 (c.d. Codice della Proprietà Industriale), in quanto la trascrizione è prevista solo per i diritti titolati. La Corte confermava altresì che i marchi oggetto di giudizio non erano identici e confermato la non notorietà del marchio.

La sentenza veniva impugnata dagli attori con ricorso per cassazione e la convenuta resisteva con relativo controricorso.

Le questioni

Le questioni giuridiche analizzate dalla Corte riguardano:

  1. gli elementi essenziali che costituiscono un contratto di licenza d’uso di marchio e la loro rilevanza ai fini della possibile nullità di tale tipologia di accordo;
  2. limiti e l’applicabilità del principio della revocabilità dell’uso di diritti personalissimi – nel caso di specie, il diritto all’uso del nome e dell’immagine – laddove siano oggetto di contratti a prestazioni corrispettive.

Le soluzioni giuridiche

Le attrici ricorrevano di fronte alla Suprema Corte articolando le proprie ragioni in sette differenti motivi di ricorso. Ciò nonostante, deve anticiparsi che la Cassazione analizza soltanto il primo di tali motivi, cassando la sentenza e rinviando alla Corte d’Appello di Bologna per l’applicazione del principio di diritto enunciato.

In particolare, con il proprio primo motivo di ricorso le ricorrenti denunciavano la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1325, 1346 e 1418 c.c. nella parte in cui la Corte d’Appello aveva giudicato la scrittura intercorsa tra le parti in data 1° luglio 2007 come valida – e non nulla – sebbene non fosse indicato il corrispettivo nonché i criteri per l’eventuale determinazione. Sul punto la Corte d’Appello si era limitata a chiarire che il corrispettivo poteva essere determinato tramite successivi accordi, collegati al precedente.

Sul punto la Cassazione, ancor prima di analizzare le tematiche giuridiche, esclude che sulla questione della nullità dell’accordo – sollevata relativamente all’indeterminatezza dell’oggetto del contratto che in relazione alla mancata fissazione della durata, ritenuta infondata in entrambi i profili dal giudice di prime cure – potesse essersi formato il giudicato implicito.

Una volta risolta tale questione, la Cassazione sottolinea come la Corte d’Appello abbia errato, in primo luogo, nel ritenere che la mancata determinazione del corrispettivo nell’accordo del 1° luglio 2007 non inficiasse la validità dell’accordo indipendentemente dalla qualificazione data alla scrittura. Infatti, tale elemento è diversamente rilevante a seconda che il contratto venga qualificato come licenza d’uso oppure quale mero assenso all’uso del nome dell’autore come segno distintivo. Infatti, nel caso in cui l’assenso prestato dal titolare all’uso del proprio nome fosse stato – come nel caso di specie – concesso senza condizioni e definitivamente, ciò ne fa salva la validità in ogni caso. Medesimo principio tuttavia non può applicarsi se l’impegno alla corresponsione di un determinato numero di bottiglie – che configura il corrispettivo dell’accordo – è oggetto di un contratto di licenza d’uso a titolo oneroso: in tal caso, infatti, l’assoluta indeterminatezza del corrispettivo per l’utilizzo del diritto sarebbe risultata rilevante e renderebbe nullo l’accordo ai sensi dell’art. 1346 c.c., secondo il quale l’oggetto del contratto deve essere determinato o comunque determinabile.

Caso ancora differente è rappresentato dal contratto che venisse qualificato quale licenza d’uso a titolo gratuito: in tale prospettiva, il corrispettivo – come detto, indeterminato – configurerebbe un mero onere imposto alla parte beneficiaria della concessione, inteso quale mero elemento accidentale e accessorio, incapace di rendere nullo il contratto se non determinata.

Ciò posto, la Cassazione sottolinea come la Corte d’Appello abbia mancato, nel caso in discussione, di ricostruire la comune intenzione delle parti per valutare quale fosse la corretta qualificazione del contratto e, solo nel caso in cui tale ricostruzione fosse stata sufficientemente giustificata, avrebbe potuto correttamente qualificare il contratto come a titolo oneroso o, all’inverso, a titolo gratuito decidendone quindi la validità. Peraltro, anche nel caso in cui tale contratto fosse stato giudicato a titolo oneroso, la Cassazione nota che la Corte d’Appello ha mancato di valutare con attenzione il requisito della determinabilità del corrispettivo: tale requisito infatti, secondo la Suprema Corte, si sostanzia nella necessaria potenziale individuazione del corrispettivo in base ad elementi prestabiliti dai contraenti, i quali devono essersi accordati riguardo alla futura determinazione dell’oggetto nonché ai criteri e alle modalità da osservare per tale determinazione. In tale prospettiva, non è sufficiente ai fini della determinabilità dell’oggetto che le parti si limitino a un mero richiamo ad elementi attinenti alla fase di esecuzione dell’accordo.

In ultimo, relativamente alla possibilità di qualificare l’accordo sottoscritto tra le parti quale assenso all’uso del nome come segno distintivo, la Cassazione non condivide quanto espresso dalla Corte d’Appello relativamente all’applicabilità della revocabilità ad nutum e senza conseguenze degli atti di utilizzazione dei diritti d’immagine o di nome, che rientrano tra i diritti personalissimi. Sul punto la Suprema Corte chiarisce che tale principio non risulta applicabile tout court ai contratti aventi ad oggetto lo sfruttamento ai fini commerciali di tali diritti: in tali casi, la revoca dell’autorizzazione non comporta la sottrazione dall’obbligo di sottostare alle conseguenze dell’inadempimento contrattuale, quale ad esempio il risarcimento del danno provocato dalla revoca sopravvenuta. Peraltro, a chiusura di tale concetto, la Cassazione spiega come l’applicazione di tale principio – mitigato nei termini precisati – ai contratti di licenza d’uso a titolo gratuito non comporti la necessaria validità dell’accordo anche nel caso in cui l’oggetto del contratto sia indeterminato o non determinabile.

Alla luce di tali ragioni la Corte di Cassazione, accoglimento parziale del ricorso, cassava la sentenza impugnata e rinviava alla Corte di Appello di Bologna anche per la determinazione delle spese del giudizio di legittimità.

Osservazioni

La pronuncia in commento si pone in continuità rispetto ai principi giurisprudenziali precedenti e contiene degli spunti interessanti per quanto riguarda l'assenso allo sfruttamento economico dei diritti personalissimi, come il diritto all'immagine o al nome.

In primo luogo la Cassazione rimarca come l'oggetto del contratto – come la licenza d'uso – debba essere determinato oppure determinabile – come previsto dall'art. 1346 c.c., specie se il contratto risulti essere a titolo oneroso. Sul punto la Cassazione chiarisce anche cosa debba intendersi per oggetto determinabile: il testo del contratto deve contenere, anche implicitamente, una serie di elementi utili a determinare, quanto meno in astratto, l'oggetto del contratto.

Allo stesso modo, sempre le parti possono dettare i criteri o le modalità sulla base dei quali si potrà identificare l'oggetto del contratto. In difetto di tali requisiti, il contratto di licenza a titolo oneroso deve intendersi nullo per difetto di uno degli elementi essenziali del contratto, ai sensi dell'art. 1325 c.c. Tale impostazione è sicuramente condivisibile, considerato che, nell'ambito dei rapporti giuridici deve preferirsi la certezza giuridica, considerato che il contratto vale quale legge tra le parti: di conseguenza, è necessario che nel contratto vi siano dei criteri precisi e identificabili, fissati di comune dalle parti, sulla base del quale determinare l'oggetto del contratto (costituito da prestazione e controprestazione). 

La Cassazione tuttavia precisa come il difetto di determinabilità dell'oggetto possa inficiare la validità dell'accordo solo nel caso in cui la controprestazione non sia un elemento accidentale del contratto: ciò avviene nel caso in cui la licenza d'uso sia gratuita. In tale caso, il corrispettivo a fronte della concessione dell'uso del marchio non è elemento essenziale del sinallagma ma soltanto accidentale e, pertanto, la nullità di tale previsione non inficia l'intero contratto nel suo complesso.

Punto sottolineato dalla Cassazione – e che potrebbe risultare controverso, per quanto condivisibile in questa sede – è quello relativo all'applicabilità e ai limiti della revoca alla concessione allo sfruttamento economico dei diritti personalissimi all'interno di contratti a prestazione corrispettiva. Sul punto la Cassazione chiarisce come i diritti personalissimi – tra cui rientra anche il diritto al nome e all'immagine personale – siano inalienabili dal titolare e, pertanto, ciò che viene ceduto tramite atto unilaterale oppure tramite contratto è soltanto l'esercizio di tale diritto e il relativo sfruttamento economico, non già la titolarità. Per tale ragione il titolare è sempre libero di revocare il consenso precedentemente prestato, ma ciò non fa sì che le obbligazioni contrattuali vengano meno: quindi il titolare revocante sarà tenuto a risarcire il danno provocato all'altra parte, che si attendeva di poter utilizzare il diritto – pur personalissimo – concesso dal titolare.

In definitiva, nel momento in cui due parti stipulano un contratto avente ad oggetto un diritto personalissimo – come una licenza d'uso del nome come segno distintivo – il contraente che riceve l'assenso dovrà tenere in conto che il consenso all'utilizzo potrà essere revocato dal titolare in qualsiasi momento e che tale fatto, tuttavia, lo legittimerà a pretendere comunque la prestazione attesa, tramite il risarcimento del danno o un adempimento alternativo, se possibile.

Inoltre, anche nei contratti di licenza d'uso – di marchio o di nome usato come segno distintivo – è fondamentale che le parti si assicurino che l'oggetto del contratto sia quanto meno determinabile tramite dei precisi parametri contenuti all'interno del contratto, altrimenti l'accordo verrà considerato nullo, con tutte le relative conseguenze.

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