La pronuncia in oggetto offre l'occasione per analizzare i requisiti formali richiesti per la valida costituzione di un contratto di leasing finanziario nonché le ricadute dei principi elaborati dalla giurisprudenza di legittimità sulla portata del divieto sancito dall’art. 2 L. 287/1990. Oggetto di attenzione sono, in particolare, le possibili ripercussioni sui contratti a valle delle condotte illecite di alcuni degli Istituti di credito che abbiano contribuito alla determinazione dell’Euribor.
1. Il fatto, la pronuncia della Corte d'appello e il ricorso
1.1 IL FATTO
Nell'ottobre dell'anno 2006 la s.r.l. Pacinotti ebbe a stipulare con la banca Italease Network s.c.p.a. – specializzata in questo tipo di operazioni – un contratto di leasing immobiliare, avente a oggetto un bene sito in Cagliari. L'adempimento delle obbligazioni assunte dall'utilizzatrice, ammontanti a quasi un milione e mezzo di euro, oltre IVA, fu garantito da fideiussione.
Nel 2014, rimasti insoluti vari canoni di locazione, Realease s.p.a. – subentrata nella posizione di concedente – chiese e ottenne decreto ingiuntivo nei confronti della società e del suo garante.
Proposero opposizione gli ingiunti deducendo, in primis, la nullità del contratto per vizi formali, declinati sia sotto il profilo dell'incompletezza della documentazione consegnata dalla controparte – dalla quale mancavano, a loro dire, le pagine contenenti le condizioni particolari del leasing – sia sotto quello dell'omessa indicazione nell'atto dell'Indicatore Sintetico di Costo, c.d. ISC, richiesto, a pena di invalidità, dalle disposizioni sulla trasparenza bancaria.
Sostennero poi, sul piano sostanziale, che il riferimento al tasso Euribor viziava la determinazione del compenso dell'intera operazione. Quel tasso era invero frutto di un cartello manipolativo, come tale vietato, tra otto delle principali banche europee. Lo aveva accertato la Commissione UE nella decisione del 4 dicembre 2013.
1.2 LA PRONUNCIA DELLA CORTE D'APPELLO
Il giudice di prime cure rigettò l'opposizione. La Corte d'appello confermò la decisione.
Così ragionando.
Insussistente e comunque ininfluente era la pretesa incompletezza della documentazione consegnata all'utilizzatrice. Il contratto risultava dalla stessa firmato in ogni sua pagina e aveva avuto regolare esecuzione per sei anni. Il che, da un lato, dimostrava che Pacinotti ne aveva avuto piena conoscenza e, dall'altro, rendeva inverosimile l'assunto dell'avvenuta consegna di una documentazione incompleta, priva, segnatamente, delle pagine in cui erano contenute le condizioni particolari.
Quanto poi alla mancata indicazione in contratto dell'ISC, l'omissione non aveva alcuna rilevanza, essendo essa richiesta a pena di nullità unicamente nell'ipotesi, qui non ricorrente, di contratto concluso con soggetto avente la qualifica di consumatore. Necessaria e sufficiente era, nella fattispecie, la sola informazione inerente al tasso di leasing applicato. E questa indicazione c'era. Neppure aveva fondamento la pretesa nullità del contratto per essere stato il compenso determinato con riferimento al tasso Euribor, e quindi in quanto accordo a valle di un cartello tra varie banche, finalizzato alla manipolazione dei tassi.
Il motivo – ritenne la Corte d'appello – era “genericamente enunciato”. Stava comunque di fatto che:
la Commissione europea nella decisione del 4 dicembre 2013 non aveva dichiarato la nullità di alcun contratto ma aveva solo accertato e sanzionato delle condotte illecite in capo ad alcuni degli istituti di credito che avevano contribuito alla determinazione dell'Euribor;
non era dunque dimostrata l'esistenza di un accordo tra le banche interessate, diretto a influenzarne in maniera impropria la fissazione;
per aversi violazione dell'art. 101 Trattato UE in materia di concorrenza, sarebbe stata in ogni caso necessaria la partecipazione all'intesa manipolativa dell'istituto bancario parte del contratto di cui si assumeva la nullità;
nella fattispecie pacificamente la concedente era rimasta estranea al panel in discorso.
Le censure dell'impugnante non avevano dunque fondamento.
1.3 IL RICORSO
Il fideiussore volle insistere e propose ricorso per cassazione.
Nei primi due motivi tornò a ribadire la sussistenza di vizi di carattere formale.
Il giudice del gravame – disse – aveva ritenuto l'obbligo di consegna del contratto assorbito dalla sua stipulazione per iscritto, laddove si trattava di due adempimenti distinti, richiesti entrambi a pena di nullità e la cui prova, almeno per quanto riguardava la completezza della documentazione rimessa all'utilizzatrice, cedeva a carico della concedente.
La sentenza impugnata era, pertanto, incorsa in violazione dell'art. 117 TUB, oltre che delle norme civilistiche (art. 2697 c.c.) e processualcivilistiche (artt. 115 e 116 c.p.c.) in tema di riparto dell'onere della prova. Richiamò segnatamente il ricorrente i principi enunciati dal giudice di legittimità nella sentenza Cass. 16 gennaio 2018 n. 898, ove, in tema d'intermediazione finanziaria, le sezioni unite avevano ritenuto rispettato il requisito della forma scritta, posto a pena di nullità, laddove una copia del contratto-quadro, sottoscritto dal solo cliente, fosse stata allo stesso consegnata.
Non era poi vero – dedusse – che nella tipologia di contratto intercorsa tra le parti fosse sufficiente la sola indicazione del tasso leasing. Pacifico che questo era diverso, e più basso, del tasso di attualizzazione effettivamente praticato (come emergeva in maniera inequivocabile dal testo dell'atto sottoscritto che, per la “metodologia completa di calcolo”, rinviava a “quanto riportato sul foglio informativo e sulle condizioni generali di contratto”), la Banca d'Italia aveva definitivamente chiarito, nella documentazione versata in atti, espressamente dedicata alla trasparenza delle operazioni e dei servizi bancari e finanziari, che il contratto di leasing finanziario era annoverabile nella categoria genericamente individuata come “altri finanziamenti” e che in tali contratti l'ISC doveva essere obbligatoriamente indicato.
Con il terzo motivo il garante contestò la tesi, fatta propria dal giudice di merito, della sostanziale indifferenza dell'utilizzazione, ai fini della quantificazione dei costi dell'operazione, a carico dell'utilizzatrice, del tasso Euribor, malgrado la riconosciuta scorrettezza delle condotte di alcuni degli istituti bancari che avevano concorso alla sua determinazione. Se questa è avvenuta in maniera tossica – disse in sostanza l'impugnante – non si salva l'accordo che sulla sua base ha individuato un elemento essenziale del contratto di leasing. La contraria decisione della Corte d'appello era dunque da ritenersi sul punto errata in iure.
2. L'ordinanza Cass. 13 dicembre 2023 n. 34889
2.1 Del primo motivo la Corte si è liberata in poche battute, rilevando che il giudice di merito aveva ritenuto dimostrata documentalmente la conoscenza delle condizioni contrattuali da parte dell'utilizzatrice e che siffatta valutazione, adeguatamente motivata, era insindacabile in sede di legittimità. Ha poi considerato del tutto campato in aria il richiamo ai principi enunciati dalle sezioni unite (Cass. SU 16 gennaio 2018 n. 898), posto che oggetto dell'intervento nomofilattico erano le condizioni di validità del contratto monofirma, laddove nella fattispecie il documento pattizio azionato in via monitoria era stato sottoscritto da entrambe le parti.
2.2 Per cogliere la portata del secondo motivo di ricorso e delle ragioni del suo rigetto occorre muovere dalla considerazione che nel complesso mondo dei finanziamenti bancari esistono molteplici modi per calcolarne il costo. E che esiste altresì un corrispondente ginepraio di acronimi il cui uso – il più delle volte neppure accompagnato dalla esplicitazione dei termini dei quali essi rappresentano l'abbreviazione, come pur richiederebbero le regole della buona creanza – rende particolarmente faticosa la lettura degli atti che di quei costi devono, in un modo o nell'altro, occuparsi.
Così, in via puramente esemplificativa, si considera espressivo del Tasso leasing – e cioè della misura degli interessi che dovranno essere corrisposti sull'importo erogato a credito – il Tasso Annuo Nominale, c.d. TAN, tasso calcolato attraverso un procedimento tecnico-finanziario detto di “attualizzazione”, idoneo a ricondurre a oggi, attraverso una formula matematica, il flusso finanziario futuro, in tal modo realizzando l'uguaglianza tra il valore del bene oggetto di leasing e la somma di tutti i canoni, attualizzati ciascuno in base alla sua scadenza.
Sta però di fatto che il TAN non indica in maniera del tutto fedele gli esborsi che il finanziato dovrà effettivamente sopportare, per usufruire del finanziamento. Esso è infatti stabilito su base annua, laddove nei piani di ammortamento l'interesse non viene generalmente pagato in un'unica soluzione, a fine anno, ma è ripartito in rate periodiche, di solito mensili. Ecco allora spuntare il Tasso Effettivo Applicato, c.d. TAE, che indica l'incidenza della corresponsione anticipata delle rate rispetto alla scadenza annuale, con conseguente ancorché lieve maggiorazione del reale costo del credito, a carico dell'utilizzatore.
Ne deriva che TAN e TAE coincidono nel solo caso in cui il piano di rimborso pattuito fra le parti preveda un pagamento unico in ragione annua, mentre in ogni altro caso il TAN, ignorando la mensilizzazione dei pagamenti, risulta inferiore, sia pur in misura modesta, al tasso leasing di fatto praticato.
Lo dicevano del resto già i giuristi romani che plus dat, qui cito dat.
Ma le meraviglie non finiscono qui.
Sia il TAN che il TAE non sono comprensivi delle spese di istruttoria, di gestione della pratica, né, tanto meno, di quelle assicurative.
A tanto provvede l'Indicatore Sintetico di Costo, c.d. ISC, generalmente considerato un sinonimo del Tasso Annuo Effettivo Globale, c.d. TAEG. Nel computo dell'ISC o TAEG, che dir si voglia, rientrano infatti anche tutte le spese accessorie innanzi richiamate, compresi i compensi spettanti a eventuali mediatori creditizi e le commissioni dovute per l'incasso delle rate. Restano fuori solamente i bolli, le tasse, le polizze non obbligatorie e le commissioni di massimo scoperto.
Ora, ciò di cui la parte si era lamentata nel secondo motivo di ricorso era la ritenuta obbligatorietà dell'indicazione dell'ISC, pacificamente mancante nel contratto dedotto in giudizio, per le sole operazioni di credito al consumo e dunque per le sole tipologie di leasing qualificabili in siffatti termini.
Senza contestare le ragioni per cui i giudici di merito non lo avevano ritenuto un consumatore, il ricorrente aveva affidato le sue doglianze a una lettura dell'art. 117 TUB e delle norme integrative in materia di trasparenza dei contratti finanziari contenute nelle Istruzioni della Banca d'Italia del 25 luglio 2023, difforme da quella operata dal giudice di merito.
Sul punto è, tuttavia, andato in rotta di collisione con una ormai consolidata giurisprudenza di legittimità che, intervenendo in chiave ordinante su contrapposti orientamenti espressi dai giudici di merito, ha ribadito che al di fuori dei casi di contratti stipulati con un consumatore, ai sensi dell'art. 125 bis TUB, la omessa esplicitazione in contratto del TAEG non ne determina la nullità, in quanto l'indice sintetico di costo è solo un indicatore del costo complessivo dell'operazione di finanziamento e, come tale, “non rientra nel novero dei tassi, prezzi e altre condizioni, la cui mancata indicazione nella forma scritta è sanzionata con la nullità, seguita dalla sostituzione automatica ai sensi dell'art. 117 D.Lgs. 385/1993”.
Trattasi in sostanza di un'omissione innocua, in quanto non comporta una maggiore onerosità del finanziamento, “ma solo l'erronea rappresentazione del suo costo globale, pur sempre ricavabile dalla sommatoria degli oneri e delle singole voci di costo elencati in contratto” (Cass. 15 giugno 2023 n. 17187, Cass. 14 febbraio 2022 n. 4597, Cass. 13 maggio 2021 n. 12889).
Di qui l'obbligatorietà della sua indicazione solo nei contratti di cui sia parte un consumatore, e cioè un soggetto che il legislatore ritiene meritevole di particolare protezione.
2.3 Sul terzo motivo della proposta impugnazione il ricorrente ha invece avuto soddisfazione.
Il collegio ha infatti ritenuto errati entrambi i rilievi posti dal giudice di merito a base dell'affermata negazione del carattere inquinante del riferimento al tasso Euribor, e cioè sia l'impossibilità di qualificare la partecipazione al panel volto alla determinazione dello stesso in termini di intesa vietata ai sensi dell'art. 2 L. 287/1990, sia, in ogni caso, l'estraneità di Realease s.p.a. all'accordo manipolativo. E tanto sull'abbrivio dei principi enunciati dalla giurisprudenza di legittimità sin dal finire degli anni '90 – segnatamente nelle seguenti pronunce: Cass. 1 febbraio 1999 n. 827 e Cass. SU 4 febbraio 2005 n. 2207 – sulla portata del divieto sancito dalla richiamata norma della legge antitrust.
3. L'evoluzione normativa e giurisprudenziale in punto di tutela della concorrenza
3.1 La L. 287/1990 intitolata Norme per la tutela della concorrenza e del mercato fu emanata, com'è noto, sotto la spinta delle innumerevoli fonti comunitarie, primo fra tutte il Trattato CE del 25 marzo 1957, integranti il pacchetto di strumenti di politica della concorrenza dell'Unione europea. E venne ad innestarsi in un ordinamento che già aveva una sua disciplina in materia di concorrenza sleale.
Ora, quel che gli operatori stentarono a cogliere fu il cambio di passo della normativa europea – e della legislazione nazionale attuativa della stessa – rispetto all'impianto codicistico.
Questo era invero incentrato sulla tutela dell'imprenditore dalle attività scorrette del concorrente, in una logica sostanzialmente intersoggettiva: aveva cioè un'impronta deontologica e corporativa che ha continuato a far sentire i suoi riflessi, pur dopo che la nozione costituzionale di mercato, come luogo in cui si attua in chiave compatibile con l'utilità sociale la libertà economica (art. 41 Cost.), era ormai entrata nel bagaglio culturale generale.
La novità del Trattato CE fu invece l'introduzione della tutela della struttura e della logica competitiva del mercato come bonum in sé, idoneo non solo a dare sfogo alle aspirazioni di autoaffermazione economica della persona attraverso l'esercizio della impresa, ma altresì – e forse soprattutto – a tutelare gli interessi dell'utente, e cioè del soggetto che chiude la filiera iniziata con la produzione del bene, sia o meno esso qualificabile come consumatore in senso tecnico (confr. A. Palmieri e R. Pardolesi, L'antitrust per il benessere e il risarcimento del danno dei consumatori, in F.I. 2005, I, pag. 1015 e segg.).
In tale prospettiva è corretto dire che la legislazione antitrust non regola un rapporto giuridico intersoggettivo, ma “il rapporto tra il diritto soggettivo di intrapresa e la conservazione della struttura concorrenziale del mercato” (E. Scoditti, L'antitrust da parte del consumatore, in F.I. 2005, I, pag. 1018 e segg.).
3.2 La necessità che l'interpretazione delle norme antitrust si affrancasse dalle categorie civilistiche quanto a individuazione dell'ambito, oggettivo e soggettivo, della loro operatività, fu colto dalla Suprema Corte nei due arresti menzionati a chiusura del precedente paragrafo.
Nel primo (Cass. 1 febbraio 1999 n. 827) gli ermellini ebbero anzitutto cura di evidenziare che l'art. 2 L. 287/1990 – a tenor del quale sono vietate le intese tra imprese che abbiano “per oggetto o per effetto di impedire, restringere o falsare in maniera consistente il gioco della concorrenza” – non dice a ben vedere che “gli accordi e/o le pratiche concordate … nonché le deliberazioni …. statutarie o regolamentari…” sono intese, ma che sono “considerati tali”.
Da siffatta elementare osservazione, di carattere letterale, e dal concorrente, smaliziato uso del criterio esegetico teleologico, il giudice di legittimità dedusse che la disposizione, quando parla di intese, non si riferisce evidentemente “solo ai contratti in senso tecnico ovvero a negozi consistenti in manifestazioni di volontà tendenti a realizzare una funzione specifica” attraverso un effetto particolare voluto, quanto piuttosto a una serie aperta di comportamenti idonei a incidere sul mercato e a distorcere il gioco della concorrenza. Di qui l'inaccettabilità di qualsivoglia interpretazione che restringa l'operatività della norma alle sole categorie negoziali, laddove essa, “con la sua premessa descrittiva da leggersi insieme alla comminazione successiva di divieti”, pur dopo l'adozione del termine intesa, pone in realtà al suo centro il fatto, oggettivamente riscontrabile come inerente alla manipolazione della concorrenza (salvo soltanto il limite, espressamente ribadito dalla Corte, che “la condotta di mercato anche realizzata in forme che escludano una caratterizzazione negoziale … veda la consapevole partecipazione di almeno due imprese, altrimenti ricadendosi, quando vi sia l'abuso di posizione dominante, nella figura di cui all'art. 3 della normativa in esame”).
La strada così intrapresa è stata portata a definitivo compimento con il secondo degli arresti innanzi menzionati, e cioè con la sentenza Cass. SU 4 febbraio 2005 n. 2207. Ivi la Corte Regolatrice, occupandosi della legittimazione ad agire del consumatore, nonché della sorte dei contratti a valle di un accordo distorsivo, in vista della soluzione di un problema di competenza, ha statuito, in motivato dissenso con un precedente arresto (Cass. 9 dicembre 2002 n. 17475), che destinatari della legge "antitrust" sono non soltanto gli imprenditori, ma chiunque abbia interesse, processualmente rilevante, alla conservazione del carattere competitivo del mercato, al punto da poter allegare uno specifico pregiudizio conseguente alla rottura o alla diminuzione di tale carattere per effetto di un'intesa vietata. E tanto sulla base degli ovvi rilievi, da un lato, che il consumatore, in quanto acquirente finale del prodotto offerto al mercato, chiude la filiera che inizia con la produzione del bene e, dall'altro, che il cosiddetto contratto "a valle" costituisce lo sbocco dell'intesa vietata, essenziale a realizzarne e ad attuarne gli effetti. Di modo che quel consumatore, che non può vedere eluso il proprio diritto ad una scelta effettiva tra prodotti in concorrenza e che subisce danno da una contrattazione che non ammette alternative per l'effetto di una collusione "a monte", ha a propria disposizione l'azione di accertamento della nullità dell'intesa e di risarcimento del danno.
3.3 Queste essendo le affermazioni contenute negli interventi nomofilattici aventi a oggetto la normativa antitrust, appare evidente come a ragione il fideiussore dell'utilizzatrice avesse censurato la ritenuta ininfluenza, sulla validità della determinazione dei costi del contratto di leasing stipulato da Pacinotti, della decisione della Commissione europea. E invero, che gli accertamenti dalla stessa compiuti non avessero messo capo alla declaratoria di nullità di alcun contratto tra gli istituti di credito aventi voce in capitolo nella determinazione dell'Euribor; che anzi neppure fosse stata dimostrata l'esistenza di un accordo volto a falsarne la determinazione; che la parte del contratto di leasing di cui si assumeva la nullità non avesse partecipato al relativo panel, nessuna rilevanza poteva avere, una volta assodato che la Commissione aveva accertato delle condotte illecite in capo ad alcuni degli istituti di credito che avevano contribuito alla individuazione della soglia dell'Euribor. Tale decisione costituiva semmai una prova privilegiata ai fini dello scrutinio della validità del tasso leasing in concreto applicato, considerato che questo era stato determinato per relationem con il tasso Euribor.
Correttamente dunque la valutazione della Curia meneghina è stata ritenuta viziata in iure.
4. Conclusioni
4.1 Tenuto conto dell'estrema diffusione dei finanziamenti bancari, della varietà delle relative tipologie e dei contenziosi connessi al loro costo, le tematiche involte dalla decisione in commento meritano qualche riflessione ulteriore.
Con riferimento a quelle attinenti ai vizi di carattere formale del contestato contratto, il collegio non ha all'evidenza preso direttamente posizione sulle implicazioni della previsione dell'art. 117 c. 1 TUB, laddove è sancito che “i contratti sono redatti per iscritto e un esemplare è consegnato ai clienti”. Non si è pronunciato cioè sul se, come sostenuto dall'impugnante, esista nel nostro ordinamento un obbligo di consegna dell'atto, sancito a pena di nullità, indipendente e ulteriore rispetto all'osservanza della forma scritta.
Appare chiaro però che la Corte abbia al postutto condiviso l'opinione della Curia meneghina secondo cui l'assunto dell'appellante in punto di consegna di una copia incompleta, oltre che inverosimile, era in ogni caso ininfluente.
E in verità, ridotta all'osso la questione, sarebbe davvero contrario al più comune buon senso escludere che la piena conoscenza del contratto sia condizione assorbente rispetto all'adempimento dell'obbligo di consegna, considerato che questo, ove omesso per dimenticanza o per altre contingenti circostanze, può essere soddisfatto in ogni momento, anche successivo alla sottoscrizione.
4.2 Le problematiche connesse all'omessa indicazione dell'ISC sono state oggetto di un vivace dibattito dottrinario e giurisprudenziale.
L'arresto che ha affrontato funditus il problema delle informazioni che il contratto di leasing deve contenere, a pena di invalidità – e vedremo di qui a poco con quali, possibili effetti – è la sentenza Cass. 13 maggio 2021 n. 12889.
Nella fattispecie era stato proposto ricorso per cassazione avverso la decisione della Corte d'appello di Torino che, ritenendo le indicazioni contenute in un contratto di leasing non conformi alle prescrizioni normative, aveva applicato la sanzione conformativa di cui all'art. 117 c. 7 TUB, e cioè l'inserzione cogente dei tassi ivi previsti. E tanto benché la differenza tra tasso indicato e tasso effettivamente praticato fosse davvero minima – 3,743% contro 3,808% – in quanto derivante dall'omesso computo nel TAN del costo della mensilizzazione dei pagamenti, costo dei quali è invece espressivo il TAE, secondo quanto innanzi esposto (sub 2.2).
Orbene la Corte, nel ritenere fondate le doglianze della concedente, ha affermato che il giudice di merito avrebbe dovuto verificare se il tasso di leasing effettivo fosse comunque determinabile, anche mediante ricorso a calcoli di tipo matematico, e a prescindere da eventuali difficoltà di conteggio, ben potendo dirsi in tal caso comunque rispettato il canone della trasparenza di cui alla sentenza della C.Giust. UE 21 dicembre 2016, cause riunite C-154/15, C-307/15, C-308/15.
Con la pronuncia in esame il giudice di legittimità completa il quadro delle informazioni necessarie per la conclusione di un contratto di leasing esente da invalidità formali, chiarendo e ribadendo che l'Indicatore Sintetico di Costo, c.d. ISC (confr. quanto detto sub 2.2) va specificato nei soli contratti di cui sia parte un consumatore.
Resta naturalmente il dubbio che il mancato riconoscimento di detta qualifica al garante ricorrente si sia consolidato nel contesto giurisprudenziale che negava la possibilità di scrutinare i requisiti soggettivi per l'applicazione della disciplina consumeristica con riferimento alle parti del contratto di fideiussione (Cass. SU 27 febbraio 2023 n. 5868), ritenendo invece necessario aver riguardo all'obbligazione garantita (Cass. 29 novembre 2011 n. 25212).
Ma la questione, come si è visto, non risulta mai posta né nel giudizio a quo né in quello di legittimità.
4.3 La qualificazione del tasso Euribor in termini di frutto avvelenato di comportamenti manipolativi della concorrenza e la sua capacità inquinante del contratto che ad esso faccia riferimento ai fini della determinazione del costo di un'operazione di leasing, è certamente la parte più intrigante del provvedimento in esame.
Quel che qui preme sottolineare è che il ricorrente è stato pacificamente ritenuto legittimato a far valere la nullità, in parte qua, del contratto a valle, benché, per quanto testé detto, non fosse mai stato contestato che non poteva avvalersi della disciplina consumeristica, non avendone i requisiti soggettivi. Il che costituisce il riscontro inespresso del fatto che il termine consumatore utilizzato nella sentenza Cass. SU 4 febbraio 2005 n. 2207 per individuare i soggetti legittimati a proporre l'azione di accertamento dell'intesa o, meglio, dei fatti violativi della legge antitrust, ha valore descrittivo e non decisivo: serve, cioè, solo a indicare uno dei soggetti del mercato interessato al rispetto delle norme sulla concorrenza.
Di questa nullità l'utente potrà dunque avvalersi per esigere un ricalcolo degli interessi applicati al finanziamento di cui deve rispondere.
La nullità come pharmakon: da veleno a rimedio.
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Sommario
1. Il fatto, la pronuncia della Corte d'appello e il ricorso
2. L'ordinanza Cass. 13 dicembre 2023 n. 34889
3. L'evoluzione normativa e giurisprudenziale in punto di tutela della concorrenza