Apertura di vedute su un cortile di proprietà esclusiva di un edificio
27 Febbraio 2024
Il caso Tizia citava i proprietari di immobile confinante con quello attoreo attraverso un cortiletto, assumendo che l'affaccio sulla parete ovest della propria abitazione presentava tre ampie finestre che davano luce e aria, consentendo l'affaccio sul detto cortiletto/distacco gravato da servitù di vista. Prima del presente giudizio, i convenuti avevano installato una grossa scala metallica, con paratia di protezione verticale verso la sua proprietà, in violazione dell'art. 907 c.c. Per queste ragioni, parte attrice chiedeva, l'accertamento della violazione delle distanze con condanna alla demolizione. Il primo giudice rigettava la domanda; la Corte territoriale, invece, in parziale accoglimento, dichiarava che la scala metallica violava le distanze di cui all'art. 907 c.c. e condannava gli appellati a demolirla. Avverso quest'ultimo provvedimento, gli originari convenuti proponevano ricorso in Cassazione contestando la sentenza per non aver tenuto in debito conto che la veduta della finestra di Tizia sul loro fondo per essere tale avrebbe dovuto essere acquistata in un momento anteriore al diritto di questi ultimi. Analisi della questione Il fulcro della questione in esame riguarda la legittimità o meno dell'apertura di vedute su un cortile di proprietà esclusiva di un edificio che perciò ne risulti gravato, con la peculiarità che tra l'edificio nel quale è realizzata la veduta ed il cortile non esiste nessun rapporto di accessorietà. La giurisprudenza che si è formata ha avuto riguardo a fattispecie in cui il cortile è comune ai due edifici e in ordine al quale si sono registrate due posizioni. Alcune pronunce hanno affermato che, quando un cortile è comune a distinti corpi di fabbrica e manca una disciplina contrattuale vincolante per i comproprietari al riguardo, il relativo uso è assoggettato alle norme sulla comunione in generale, e in particolare alla disciplina di cui all'art. 1102, comma 1, c.c.. In tal senso, l'apertura di vedute su area di proprietà comune e indivisa tra le parti costituirebbe opera sempre inidonea all'esercizio di un diritto di servitù di veduta, sia per il principio "nemini res sua servit”, che per la considerazione che i cortili comuni, assolvendo alla precipua finalità di dare aria e luce agli immobili circostanti, sono ben fruibili a tale scopo dai condomini, cui spetta, pertanto, anche la facoltà di praticare aperture che consentano di ricevere aria e luce dal cortile comune o di affacciarsi sullo stesso, senza incontrare le limitazioni prescritte, in tema di luci e vedute, a tutela dei proprietari dei fondi confinanti di proprietà esclusiva, con il solo limite, posto dall'art. 1102 c.c., di non alterare la destinazione del bene comune o di non impedirne l'uso da parte degli altri comproprietari. Accanto a tale impostazione se ne pone un'altra, secondo cui, ove sia accertata la comunione di un cortile sito fra edifici appartenenti a proprietari diversi e allorché fra il cortile e le singole unità immobiliari di proprietà esclusiva non sussista quel collegamento strutturale, materiale o funzionale, ovvero quella relazione di accessorio a principale, che costituisce il fondamento della condominialità dell'area scoperta, l'apertura di una veduta da una parete di proprietà individuale verso lo spazio comune rimane soggetta alle prescrizioni contenute nell'art. 905 c.c. Il partecipante alla comunione del cortile non può, in sostanza, aprire una veduta verso la cosa comune a vantaggio dell'immobile di sua esclusiva proprietà, finendo altrimenti per imporre di fatto una servitù a carico della cosa comune, senza che operi, al riguardo, il principio di cui all'art. 1102 c.c., il quale non è applicabile ai rapporti tra proprietà individuali e beni comuni finitimi, che sono piuttosto disciplinati dalle norme che regolano i rapporti tra proprietà contigue o asservite. La seconda posizione, secondo la S.C., si collega “meglio” alla peculiarità della fattispecie in esame. Dunque, secondo i giudici di legittimità, nel caso in esame, il giudice di merito aveva applicato seccamente la norma di cui all'art. 907 c.c. senza prima accertare in fatto se la situazione obiettiva trovasse fondamento in una previsione pattizia a titolo derivativo (tramite contratto) o a titolo originario (tramite usucapione o destinazione del padre di famiglia), fondando il proprio convincimento sulla mera anteriorità dell'apertura che da sola non può costituire il diritto di veduta, ritenendo peraltro “erroneamente” ricorrere ipotesi di non contestazione (tacita) circa lo stato dei luoghi descritto nei titoli di acquisto, confermata dall'eccezione di prescrizione con effetto liberatorio; trattasi (secondo la Cassazione) di «accertamento necessario per poter eventualmente escludere l'applicazione delle norme che regolano i rapporti tra proprietà contigue od asservite per far posto all'utilizzo del cortile nei termini fatti valere dalla originaria attrice». In conclusione, il ricorso è stato accolto e, per l'effetto, il provvedimento è stato cassato con rinvio. (Fonte: dirittoegiustizia.it) |