Pubblichiamo il focus conclusivo relativo ai temi trattati al convegno "Aspettando le Sezioni Unite su interessi moratori ex art. 1284 c.c. e interessi nei debiti della PA". Nello specifico, la questione affrontata è se siano applicabili o meno le regole civilistiche degli interessi nel caso in cui il debitore sia una PA. Si veda anche quanto detto nel focus "Esigibilità degli interessi nelle obbligazioni pecuniarie a carico della PA" pubblicato qui.
Classificazione degli interessi
Tradizionalmente, gli interessi, a seconda che abbiano funzione remunerativa, risarcitoria o equitativa, si distinguono rispettivamente in:
corrispettivi (art. 1282 c.c.);
moratori (art. 1224 c.c.)
e compensativi (art. 1499 c.c.).
Soffermandosi sugli interessi corrispettivi e moratori non può non notarsi che, approfondendo lo studio della loro funzione, la differenza sfuma.
Ma qual è l'origine e l'utilità delle classificazioni?
Per capire veramente l'attuale categorizzazione degli interessi è, perciò, necessario esplorarne, pur sinteticamente, le origini:
punto di partenza (circa 14 secoli fa): gli interessi non costituivano una conseguenza automatica del debito ma, affinché maturassero, bisognava stipulare un contratto aggiuntivo ad hoc.
le cose cambiarono allorquando qualcuno osservò che, come avveniva in caso di affitto del gregge che il debitore dovesse rendere indietro anche gli agnelli nati in costanza di ritardo nella restituzione delle pecore, così anche il denaro fruttificava. Di fatti, più passa il tempo per la restituzione del denaro, più si perdono occasioni per investire. Fu così che il debito di interessi divenne, per lunghissimo tempo, una conseguenza naturale del debito di una somma di denaro. Così, prima Alessandro Severo mise la regola per iscritto in una costituzione, poi la stessa refluì nel Codice giustinianeo.
E arrivò il Cristianesimo e con esso il principio «Mutuum date, nihil inde sperantes» (Vangelo di San Luca), che divenne l'insegnamento fondamentale di questa religione, ovvero l'amore disinteressato nei confronti anche dei nemici e, perciò, la condanna dell'usura, del prestito di denaro ad interesse o, comunque, per attività lucrative. Tale principio fu poi ripreso da Papa Leone Magno che ribadì in un'epistola che, secondo lo ius canonico, nessun interesse poteva esser preteso senza incorrere nella violazione delle sacre scritture. Questa epistola, successivamente, finì, prima nel Decretum di Graziano, poi nel Corpus iuris canonici. A questo punto, la regola funzionò fino a quando egli irsuti conquistatori della pars occidentalis dell'impero spensero l'economia, la filosofia e il diritto.
E si giunse a dopo l'anno 1000 d.c., quando l'economia iniziò a risorgere e questa regola cominciò ad apparire non più compatibile col rifiorire delle attività economiche. Perciò i glossatori e i commentatori trovarono una soluzione. Il Vangelo e i sacri canoni vietavano di prestare ad interesse ma ricevere del denaro per non aver ricevuto la restituzione di una somma nel termine stabilito non integrava la condotta di prestare denaro ad interesse. Questo era un risarcimento a séguito della violazione della buona fede. E fu così che nacque la distinzione fra funzione risarcitoria e funzione remunerativa degli interessi. Si trattò di utilizzare una escamotage, una fictio iuris per aggirare il divieto canonistico del prestito di interesse.
Affermatasi l'idea che per sfuggire al divieto canonistico del prestito a interesse bisognava etichettare il debito di interessi come risarcimento, il problema mutò. Se, dunque, questo era un risarcimento, ai fini della liquidazione, sarebbe stato necessario accertare e valutare cosa avrebbe fatto il creditore con quel denaro in caso di tempestivo adempimento. Tuttavia, detti calcoli risultavano aleatori ed imponderabili.
Conseguentemente, la stratificazione del diritto comune alla fine del XVII secolo portò ad un ulteriore passo: sarebbe stato il Legislatore, ex ante, a quantificare il danno forfetariamente. In particolare, gli interessi dovuti dal debitore in mora hanno una funzione risarcitoria, ma che ci sia il danno si presume sempre e il creditore non deve giustificarlo (citazione di uno dei relatori del progetto del Codice Napoleonico): tale regola (corrispondente all'art. 1153 del Codice Napoleonico) refluì tal quale nell'art. 1231 del primo codice post-unitario. S'era fatta l'Italia, ma c'erano tanti problemi e non c'era tempo per mettere mano al codice civile. Pertanto, per ragioni di celerità, si riprese quello francese e si modificò qualcosa. Venne, quindi, approvato il primo codice post unitario con la regola per cui nelle obbligazioni pecuniarie il debitore in mora deve pagare sempre gli interessi.
A questo punto, si scatenò un altro contrasto, dottrinario e giurisprudenziale, senza precedenti, sull'art. 270 del Regio decreto del 1923. Ci si chiedeva se la regola per cui il debitore doveva pagare sempre gli interessi si applicasse anche ai crediti illiquidi o solo ai crediti liquidi. Gli orientamenti divergevano.
Ecco perché il legislatore del 1942 introdusse nel «nuovo» codice civile – accanto all'art. 1224 c.c., che prevedeva il pagamento degli interessi di mora sempre e che altro non era che il polo terminale di una lunghissima catena che risaliva all'art. 1231 del codice del 1865, al codice napoleonico, al diritto comune – l'art.1282 c.c. , il quale affermava che gli interessi, senza bisogno della mora, fossero dovuti solo sui crediti pecuniari liquidi.
Il punto di caduta di tutto il discorso è che il debitore, che sia o meno in mora, deve comunque pagare gli interessi quando il è scaduto il termine o si è avverata la condizione. L'unica differenza è che, se ricorre la mora, il creditore, oltre agli interessi, può pretendere il maggior danno.
Se il debitore è una PA, si applicano le regole civilistiche sugli interessi?
Una volta ripercorse le origini della differenziazione degli interessi e compresa la loro operatività, una delle questioni più calde ha riguardato l'applicabilità delle regole summenzionate anche quando il debitore è una PA. Invero, ci si chiedeva (e chiede) se alla PA debba applicarsi solo la norma sugli interessi corrispettivi (art. 1282 c.c.) o anche quella sugli interessi moratori (art. 1224 c.c.).
Coloro che sostenevano (e sostengono) un trattamento differenziatoa favore della PA adducevano le seguenti argomentazioni:
la deroga alle regole sugli interessi moratori si giustificherebbe in virtù del principio di buon andamento ed efficienza della PA;
la PA gestisce le risorse pubbliche le quali non possono essere pagate avventatamente;
la PA deve seguire una sua procedura perché deve prevenire le condotte fraudolente;
la PA deve rispettare le regole di contabilità.
Tuttavia, si è consolidato l'orientamento contrario che ritiene infondato un trattamento differenziato, fondando la propria tesi sulle seguenti osservazioni:
affermare che la PA possa fronteggiare un ritardo di pagamento senza conseguenze perché ciò è imposto dal buon andamento sembra irrazionale;
giustificare la non decorrenza degli interessi nonostante il ritardo nel pagamento in virtù di una non meglio specificata oculatezza pare un argomento specioso. Proprio perché la PA deve pagare i propri debiti col denaro pubblico ha il dovere giuridico e morale di spendere bene le proprie risorse pagando tempestivamente. Se si paga in ritardo ci si espone al debito di interessi e, conseguentemente, si sperperano le risorse pubbliche che, evidentemente, non stanno venendo gestite in modo oculato;
il diritto civile non ha lo scopo di prevenire le condotte fraudolente dei pubblici amministratori. Le norme preordinate alla prevenzione di questo tipo di inconveniente sono altre;
dire che la PA, siccome ha delle regole di contabilità da rispettare, può permettersi il lusso di far tardi, significa dire che l'illegalità diviene premio a se stessa. La aporia è questa: se si è in mora vuol dire che le regole di contabilità non sono state rispettate in quanto ci si sarebbe dovuti organizzare diversamente per adempiere l'obbligazione nei termini;
non vale dire che siccome già esistono norme di favore verso la PA allora occorre un trattamento differenziato anche laddove la legge non specifichi. È vero l'esatto opposto. Proprio perché la PA, già sotto più di un aspetto, è un debitore particolare (che non si può aggredire esecutivamente se non a certe condizioni. Ad esempio si pensi alla messa in esecuzione dei titoli giudiziali rappresentati dalle condanne per equa riparazione ex legge Pinto), non parrebbe una scelta saggia quella di addossare la conseguenza sfavorevole della mora proprio al creditore, cioè a quel soggetto del rapporto obbligatorio che già si vede limitato nella procedura esecutiva.
Si ritiene che la PA, proprio perché pubblica, abbia dei doveri giuridici ed etici superiori a quelli del privato e non inferiori. Pertanto, i ritardi talora insopportabili della PA non devono ritenersi l'ultima delle cose di cui il giudice debba preoccuparsi. Invero, i ritardi della PA anche nei pagamenti delle obbligazioni civili sono il fertile terreno nel quale germina e prolifica il germe della sfiducia dei cittadini nei confronti delle istituzioni.
Vuoi leggere tutti i contenuti?
Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter continuare a
leggere questo e tanti altri articoli.
Sommario
Ma qual è l'origine e l'utilità delle classificazioni?
Se il debitore è una PA, si applicano le regole civilistiche sugli interessi?