Attribuzione dell’edificio in sede di esecuzione forzata ed esame dell’atto di trasferimento all’aggiudicatario relativo al lotto del bene espropriato

08 Aprile 2024

Applicando gli insegnamenti giurisprudenziali in tema di costituzione del condominio, presunzione di comunione e titolo contrario, sia pure “calati” nella peculiare fattispecie in cui il frazionamento della proprietà di un edificio comune in distinte unità immobiliari era avvenuto a seguito dell'attribuzione in sede di esecuzione forzata, il Supremo Collegio ha considerato insindacabile in cassazione la valutazione effettuata dalla Corte d'Appello, la quale era pervenuta, con motivazione adeguata e scevra di errori di logica e di diritto,  all'identificazione dei beni trasferiti agli aggiudicatari; segnatamente, avendo i giudici del merito accertato il nesso di condominialità corrente tra il cortile e le porzioni di proprietà esclusiva, in assenza di esplicita riserva di titolarità individuale di tale bene nel primo atto traslativo, l'uso di esso doveva trovare regolamentazione nella disciplina del condominio di edifici, la quale è costruita sulla base di un insieme di diritti e obblighi, armonicamente coordinati, contrassegnati dal carattere della reciprocità.

Massima

In caso di frazionamento della proprietà di un edificio comune in distinte unità immobiliari, a seguito dell'attribuzione in sede di esecuzione forzata, si determina una situazione di condominio per la quale vige la presunzione legale pro indiviso di quelle parti del fabbricato che, per ubicazione e struttura, siano, in tale momento costitutivo del condominio, funzionali all'uso comune (art. 1117 c.c.); tale presunzione può essere superata soltanto ove risulti, nel primo decreto con cui il giudice trasferisce all'aggiudicatario un lotto del bene espropriato, ripetendo la descrizione dell'immobile contenuta nell'ordinanza che dispone la vendita, una chiara ed univoca volontà di riservare esclusivamente ad uno degli aggiudicatari dei distinti lotti la proprietà delle suindicate parti.

Il caso

Il giudizio - concluso con l'ordinanza in commento - originava da un procedimento ex art. 702-bis c.p.c., all'esito del quale il Tribunale, accogliendo parzialmente la domanda dell'attore Tizio, aveva condannato il convenuto Caio alla rimozione di una catena posta a chiusura del cortile comune, ma aveva rigettato la richiesta attorea volta ad accertare la comproprietà vantata dall'attore su tale area.

La Corte d'Appello - per quel che rileva queste brevi note - accogliendo il gravame interposto da Tizio, aveva dichiarato che l'area de qua fosse comune pro indiviso ai beni di proprietà dell'attore e del convenuto, consistenti in appartamenti ed autorimesse.

Il soccombente Caio proponeva, quindi, ricorso per cassazione.

La questione

Si trattava, in buona sostanza, di verificare se fosse corretto il convincimento della Corte d'Appello in ordine all'accertato diritto di comproprietà in capo all'attore - contrariamente a quanto ritenuto dal Tribunale - avendo il ricorrente denunciato, invece, la violazione delle “norme afferenti l'interpretazione del contratto” e prospettato un “chiaro travisamento della prova in contraddizione con le prove legali”.

Le soluzioni giuridiche

I giudici di Piazza Cavour hanno ritenuto infondate le doglianze del ricorrente.

Innanzitutto, si perimetra la ratio decidendi della sentenza impugnata, la quale ha qualificato il contesto proprietario, all'esito del frazionamento operato nel procedimento esecutivo, come condominio edilizio, per il quale opera, quindi, la presunzione di comproprietà stabilita dall'art. 1117 c.c. in ordine alle parti del complesso immobiliare la cui destinazione all'uso collettivo risulti da elementi oggettivi, e cioè dall'attitudine funzionale della res al godimento comune, laddove, per contro, le pertinenze di cui all'art. 817 c.c. - il cui regime giuridico era stato impropriamente richiamato dal ricorrente - presuppongono due “cose” che mantengono la loro identità, e che sono non congiunte fisicamente, quanto piuttosto combinate in forza di una “destinazione durevole” (ossia di una destinazione non episodica, ma comunque temporanea) al servizio o all'ornamento l'una dell'altra.

Orbene, il ricorrente aveva insistito nel sottolineare che, in nessun atto dell'esecuzione immobiliare, che aveva portato i contendenti all'acquisto dei rispettivi lotti, fosse riportata la “dicitura corte comune”, ma così il ricorrente è incorso in un erroneo presupposto ermeneutico sulla portata dell'art. 1117 c.c.

Invero, il giudice distrettuale ha affermato la condominialità della particella de qua sulla base di una ricostruzione dei fatti di causa operata in via inferenziale dall'apprezzamento delle risultanze istruttorie.

La causa verteva, in particolare, su di un cortile che i giudici del merito hanno qualificato “parte comune”, ai sensi dell'art. 1117 c.c., rispetto alle unità immobiliare di proprietà esclusiva delle parti, contraddistinte come “appartamento” ed “autorimessa”.

Per consolidata interpretazione giurisprudenziale, viene intesa come cortile, ai fini dell'inclusione nelle parti comuni dell'edificio elencate dall'art. 1117 c.c., qualsiasi area scoperta compresa tra i corpi di fabbrica di un edificio o di più edifici, che serva a dare luce e aria agli ambienti circostanti, o che abbia anche la sola funzione di consentirne l'accesso (v., ex multis, Cass. civ., sez. II, 15 febbraio 2018, n. 3739).

Al medesimo regime del cortile, espressamente contemplato dall'art. 1117, n. 1, c.c. tra i beni comuni, salvo specifico titolo contrario, rimane sottoposto altresì il cavedio - altrimenti denominato chiostrina, vanella o pozzo luce - e cioè il cortile di piccole dimensioni, circoscritto dai muri perimetrali e dalle fondamenta dell'edificio comune, destinato prevalentemente a dare aria e luce a locali secondari, quali ad esempio bagni, disimpegni, servizi (Cass. civ., sez. II, 7 aprile 2000, n. 4350).

La presunzione legale di comunione, stabilita dall'art. 1117 c.c., si reputa operante, inoltre, anche nel caso di cortile strutturalmente e funzionalmente destinato al servizio di più edifici limitrofi ed autonomi, tra loro non collegati da unitarietà condominiale (così, ad esempio, Cass. civ., sez. II, 30 luglio 2004, n. 14559).

Non ha alcun rilievo - secondo gli ermellini al fine di dare risposta alle questioni oggetto di lite - verificare se il diritto di condominio sul cortile fosse o meno menzionato nei titoli di acquisto delle parti, atteso che l'individuazione delle parti comuni di un condominio edificio, come appunto i cortili, risultanti dall'art. 1117 c.c., non opera con riguardo a cose che, per le loro caratteristiche strutturali, risultino destinate oggettivamente al servizio esclusivo di una o più unità immobiliari (Cass. civ., sez. un., 7 luglio 1993, n. 7449).

Era, quindi, decisivo accertare, mediante apposito apprezzamento di fatto, se l'obiettiva destinazione primaria del cortile di causa a dare aria, luce ed accesso fosse volta al servizio esclusivo di una delle unità immobiliari comprese nel contesto immobiliare per cui è causa: a tale verifica, hanno provveduto i giudici di appello, per dire poi applicabile la disciplina del condominio degli edifici, di cui agli artt. 1117 ss. c.c., con riguardo al rapporto corrente fra le porzioni di proprietà esclusiva ed il cortile interno.

Tale rapporto implica la relazione di accessorietà necessaria che, al momento della formazione del condominio - qui risultante dal frazionamento dell'unico immobile nel corso della procedura esecutiva e coincidente con la pronuncia del primo decreto di trasferimento relativo ai due lotti aggiudicati - legava la corte de qua (inserita tra le parti comuni, se il contrario non risulta dal titolo, dall'art. 1117 c.c.) all'individuata porzione di proprietà singola.

Trovando, dunque, applicazione l'art. 1117 c.c., bisogna considerare che tale norma non si limita a formulare una mera presunzione di comune appartenenza a tutti i condomini, vincibile con qualsiasi prova contraria, potendo essere superata soltanto dalle opposte risultanze di quel determinato titolo che ha dato luogo alla formazione del condominio per effetto del frazionamento dell'edificio in più proprietà individuali.

La situazione di condominio, regolata dagli artt. 1117 ss. c.c., si attua, infatti, sin dal momento in cui si opera il frazionamento della proprietà di un edificio, a seguito del trasferimento della prima unità immobiliare suscettibile di separata utilizzazione dall'originario unico proprietario ad altro soggetto.

Ad avviso dei magistrati del Palazzaccio, e censure articolate dal ricorrente avrebbero rivelato consistenza se, individuato l'atto di frazionamento dell'iniziale unica proprietà, da cui si generò la situazione di condominio edilizio - con correlata operatività della presunzione ex art. 1117 c.c. di comunione pro indiviso di tutte quelle parti del complesso che, per ubicazione e struttura, fossero, in tale momento costitutivo del condominio, destinate all'uso comune o a soddisfare esigenze generali e fondamentali del condominio - avessero in detto titolo originario rinvenuto ed allegato l'esistenza di una chiara ed univoca volontà di riservare esclusivamente all'unità immobiliare di proprietà esclusiva la titolarità del cortile medesimo.

Osservazioni

L'ordinanza in commento dà continuità giuridica agli insegnamenti in tema di costituzione del condominio, presunzione di comunione e titolo contrario, ai sensi dell'art. 1117 c.c., ripetutamente affrontati dalla magistratura di vertice, sia pure “calando” gli stessi nella fattispecie particolare oggetto di scrutino, che registrava il frazionamento della proprietà di un edificio comune in distinte unità immobiliari a seguito dell'attribuzione in sede di esecuzione forzata, per cui occorreva, per un verso, identificare i singoli beni trasferiti agli aggiudicatari e, per altro verso, accertare il nesso di condominialità corrente con le porzioni di proprietà esclusiva, in assenza di esplicita riserva di titolarità individuale di tale beni nel primo atto traslativo.

In proposito, si è abbastanza concordi nel rispondere che il condominio nasce automaticamente, ex se, ossia indipendentemente dalla volontà dei proprietari, nel momento del primo frazionamento dell'edificio (prima appartenente ad un solo proprietario) e del primo atto traslativo della proprietà (la prima vendita, permuta, donazione), dal quale emerga che singole unità immobiliari appartengono a più soggetti e vi siano beni comuni pro indiviso.

In buona sostanza, occorre, in primis, la realizzazione “fisica”, da parte di un unico costruttore, di un edificio, nel senso che la costruzione debba ritenersi compiuta nella realtà di fatto; tale edificio, poi, viene diviso orizzontalmente in più piani o porzioni di piano, attribuiti a due o più soggetti in proprietà esclusiva (v., tra le altre, Cass. civ., sez. II, 4 giugno 2008, n. 14813; Cass. civ., sez. II, 5 febbraio 2007, n. 2477).

Sul punto, si è esplicitato che il condominio di edifici sorge ipso iure et facto, senza bisogno di apposite manifestazioni di volontà o altre esternazioni, nel momento in cui l'originario costruttore di un edificio diviso per piani o porzioni di piano aliena a terzi la prima unità immobiliare suscettibile di utilizzazione autonoma e separata, così perdendo, in quello stesso momento, la qualità di proprietario esclusivo delle pertinenze e delle cose e dei servizi comuni dell'edificio (Cass. civ., sez. II, 4 ottobre 2004, n. 19829; principi analoghi valgono, peraltro, anche per il c.d. supercondominio, v., per tutte, Cass. civ., sez. II, 14 novembre 2012, n. 19939).

E ancora, il condominio si costituisce ex se e ope iuris, nello stesso momento in cui più soggetti costituiscano su un suolo comune o in cui l'unico proprietario di un edificio ceda a soggetti diversi la proprietà esclusiva di piani o porzioni di piano dell'immobile, sì da realizzare l'oggettiva condizione di frazionamento di esso che, contemporaneamente, dà origine alla situazione di diritto soggetta al regime di condominio (Cass. civ., sez. II, 10 settembre 2004, n. 18226).

Dunque, in un edificio diviso orizzontalmente per piani o per unità immobiliari - che possono essere appartamenti adibiti a civile abitazione, o destinati ad usi diversi, quali negozi, uffici, magazzini, laboratori, ecc. - vi sono parti di esso necessarie oppure destinate all'uso o al godimento di tutti i condomini e parti destinate all'uso o al godimento di uno o di un gruppo di condomini, donde la necessità di stabilire quali sono queste parti comuni e quali possono o devono essere dichiarate di proprietà esclusiva o in uso esclusivo.

Il legislatore si è preoccupato di elencare espressamente all'art. 1117 c.c. le parti che possono essere oggetto di proprietà comune dei proprietari delle diverse unità immobiliari, sempre che diversamente non risulti dal titolo.

Pertanto, l'art. 1117 c.c. non è inderogabile, per cui se dal titolo risulta che una delle parti, qualificata comune, è di proprietà esclusiva, ha valore quanto precisato nel titolo e cade la presunzione di proprietà prevista dalla suddetta norma: la legge non impone che dette cose debbano appartenere a tutti i condomini sotto il profilo del diritto di proprietà, ma lascia libere le parti di demandare a chi deve esserne assegnata la proprietà medesima.

In altri termini, la comproprietà non è una necessità, atteso che la norma in oggetto riconosce in modo esplicito la possibilità che, su tali cose esista, in virtù dell'autonomia privata, un diritto diverso dal condominio, conseguendone che un determinato locale (per esempio, l'alloggio per il portiere) può appartenere in proprietà privata ad un condomino, anche se destinato al comune vantaggio; esistono, però, delle parti comuni che, per ovvie ragioni pratiche, non possono essere assegnate in proprietà esclusiva (si pensi all'androne o al portone di ingresso).

Il “titolo”, che serve a vincere la presunzione di comunione di cui all'art. 1117 c.c. e, quindi, contenere l'attribuzione della proprietà esclusiva a cose che, altrimenti, sarebbero comuni, deve consistere, tuttavia, in un atto scritto di inequivoca interpretazione (trattasi, del resto, di atto per cui è richiesta la forma scritta ad substantiam, in quanto incidente sulla costituzione o modificazione di un diritto reale immobiliare).

Non è necessario che tale atto contenga un'espressa dichiarazione di volontà avente ad oggetto l'esclusione delle cose indicate nell'art. 1117 c.c. dal novero delle cose comuni, essendo sufficiente che dall'atto - costitutivo o successivo, perché di natura convenzionale - emergano, in modo chiaro ed inequivoco, elementi tali da dimostrare che la cosa, diversamente da quanto desumibile dalla sua destinazione di fatto, sia di proprietà esclusiva del singolo condomino; si tratterà, in buona sostanza, di verificare, caso per caso, qual è stata la volontà dei contraenti, ossia di restringere o meno l'àmbito delle parti comuni elencate nella suddetta norma.

Al fine di stabilire, dunque, se sussista un titolo contrario alla presunzione di comunione di cui all'art. 1117 c.c., occorre fare riferimento principalmente all'atto costitutivo del condominio (v., ex multis, Cass. civ., sez. II, 27 maggio 2011, n. 11812), e, quindi, al primo atto di trasferimento di un'unità immobiliare dall'originario proprietario ad altro soggetto, atto dal quale, peraltro, devono risultare in modo chiaro ed inequivocabile elementi rivelatori dell'esclusione della condominialità del bene (qui, del cortile).

Pertanto, al fine di vincere in base al titolo contrario la presunzione legale di proprietà comune delle parti dell'edificio condominiale indicate dall'art. 1117 c.c., occorre fare riferimento all'atto costitutivo del condominio e, quindi, al primo atto di trasferimento di un'unità immobiliare dall'originario unico proprietario ad altro soggetto, indagando se la previa delimitazione unilaterale dell'oggetto del trasferimento sia stata recepita nel contenuto negoziale per concorde volontà dei contraenti e se, dunque, da esso emerga o meno l'inequivocabile volontà delle parti di riservare al costruttore-venditore la proprietà di quei beni che, per ubicazione e struttura, siano potenzialmente destinati all'uso comune; pertanto - proprio perché la questione relativa alla superabilità o meno della presunzione di proprietà comune su un'area, implica l'interpretazione della volontà contrattuale - essa si colloca in relazione agli artt. 1362 ss. c.c. (Cass. civ., sez. II, 14 novembre 2002, n. 16022).

Orbene, l'atto scritto di cui sopra è rappresentato, soprattutto, dall'atto in base al quale il condominio è venuto, a suo tempo, ad esistenza, e cioè il primo atto di trasferimento di un'unità immobiliare dall'originario unico proprietario ad altro soggetto (in ordine al rogito di acquisto, v., tra le altre, Cass. civ., sez. II, 22 agosto 2002, n. 12340; Cass. civ., sez. II, 4 novembre 1994, n. 9062); può ritenersi valido titolo per superare la presunzione di comproprietà anche il negozio giuridico con cui tutti i partecipanti (nessuno escluso), in un momento “successivo” alla nascita del condominio, modifichino il regime stabilito dal titolo costitutivo del condominio stesso (Cass. civ., sez. II,24 febbraio 1999, n. 1568).

Quindi, se, in occasione del primo atto di frazionamento della proprietà di un edificio, la destinazione oggettiva di un bene potenzialmente comune non è contrastata dal titolo, tale bene nasce di proprietà comune e la comunione non può venire meno per effetto del negozio successivo con cui uno dei condomini intenda attribuire la proprietà del bene stesso ad un terzo, in quanto il predetto negozio può trasferire, unitamente all'unità immobiliare di cui l'alienante è proprietario esclusivo, solo la corrispondente quota di comproprietà delle parti comuni.

Di contro, atteso che, al fine di stabilire se sussista un titolo contrario alla presunzione di comunione di cui all'art. 1117 c.c., occorre fare riferimento all'atto costitutivo del condominio e, quindi, al primo atto di trasferimento di un'unità immobiliare dall'originario proprietario ad altro soggetto, qualora, in occasione della prima vendita, la proprietà di un bene, potenzialmente rientrante nell'àmbito dei beni comuni, risulti espressamente riservata, invece, ad un solo dei contraenti, va escluso che tale bene possa farsi rientrare nel novero di quelli comuni.

Peraltro, quanto sopra esposto si rileva in linea con quanto affermato, dallo stesso Supremo Collegio, in recenti decisioni (non richiamate nella pronuncia in commento, anche se redatte dallo stesso estensore).

Invero, con Cass. civ., sez. II, 27 novembre 2023, n. 32857, si è chiarito che, nel caso di frazionamento della proprietà di un immobile che dia luogo alla formazione di un condominio, la parte acquirente di una parte di esso, salvo che il titolo non disponga diversamente, entra a far parte del condominio ipso iure et facto relativamente alle parti comuni ex art. 1117 c.c. esistenti al momento dell'alienazione e per addizione, man mano che si realizzano, di quelle ulteriori parti necessarie o destinate, per caratteristiche strutturali e funzionali, all'uso comune, nonché di quelle che i contraenti, nell'esercizio dell'autonomia privata, dispongano comunque espressamente di assoggettare al regime di condominialità.

Con la quasi coeva Cass. civ., sez. II, 9 maggio 2023, n. 12381, si è ribadito che, in caso di frazionamento della proprietà di un edificio comune, a seguito dell'attribuzione in sede di divisione della proprietà esclusiva di distinte unità immobiliari, si determina una situazione di condominio per la quale vige la presunzione legale pro indiviso di quelle parti del fabbricato che, per ubicazione e struttura, siano - in tale momento costitutivo del condominio - funzionali all'uso comune ex art. 1117 c.c.; siffatta presunzione può essere superata soltanto ove risulti una chiara ed univoca volontà delle parti di riservare esclusivamente ad uno dei condomini la proprietà di una determinata porzione immobiliare.

Riferimenti

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Scarpa, La “relazione di accessorietà” quale fondamento tecnico dell'attribuzione del diritto di condominio, in Rass. loc. e cond., 2001, 402;

Rizzo, Spazi destinati a parcheggio e presunzione di comunione ex art.1117 c.c., in Notariato, 1998, 507;

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Maglia, La presunzione di comunione ex art.1117 c.c. non esiste?, in Arch. loc. e cond., 1993, 711;

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Terzago, In tema di presunzione legale ex art.1117 c.c., in Vita notar., 1985, 161.