Licenziamento per giustificato motivo oggettivo: soppressione parziale del posto di lavoro e onere probatorio dell’obbligo di repechage

11 Aprile 2024

Con la sentenza in commento la Suprema Corte, riaffermata la legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo sorretto da motivazioni di natura organizzativa (quale, ad esempio, quella scaturita da un'innovazione tecnologica), torna ad affrontare le questioni ad esso collegate, e in particolare: i) la disciplina applicabile in caso di soppressione solo parziale del posto di lavoro; ii) la disciplina riguardante la portata e l'onere di allegazione dell'impossibilità di soddisfare  l'obbligo di repechage.

MASSIME

In caso di soppressione parziale del posto di lavoro l'utilizzo del lavoratore nella medesima posizione lavorativa, con eventuale adozione del part time, è possibile soltanto nel caso in cui le mansioni diverse da quelle soppresse rivestano, nel complesso dell'attività svolta, una loro oggettiva autonomia e non risultino quindi intimamente connesse con quelle prevalenti oggetto di soppressione.

Il datore di lavoro, prima di intimare il licenziamento per soppressione del posto di lavoro, deve ricercare possibili situazioni alternative e, nel caso in cui le stesse comportino l'assegnazione a mansioni inferiori a quelle precedentemente svolte, deve offrirle al prestatore di lavoro, in attuazione del principio di correttezza e buona fede, che impone di considerare il recesso come l'ultima soluzione possibile.

IL CASO

La Corte di Appello di Roma, con sentenza del 23 marzo 2020, in riforma della decisione di primo grado resa all'esito di un procedimento exl. n. 92/2012, ha respinto l'impugnativa del licenziamento per giustificato motivo oggettivo intimato ad una lavoratrice dipendente di una società con mansioni prevalenti di centralinista.

La decisione di secondo grado sosteneva la legittimità del recesso datoriale, affermando, all'esito del giudizio, l'impossibilità di proseguire il rapporto con la lavoratrice, anche se in modalità part time, per lo svolgimento dei compiti “residuali” ad essa assegnati, ovvero adibendola in altro settore, stante l'impossibilità di assegnarle mansioni “equivalenti” a quelle svolte in precedenza.

La lavoratrice ha proposto ricorso per cassazione avverso la sentenza della Corte di Appello di Roma, la Società datrice di lavoro ha resistito con controricorso.

Il giudizio di legittimità si è concluso con il parziale accoglimento del ricorso principale, in particolare dei motivi che denunciavano la violazione dei principi applicabili in materia di repechage e conseguente rinvio alla Corte di Appello di Roma.

LE QUESTIONI

Con la decisione in commento la Corte di Cassazione esamina le seguenti questioni principali:

i) la legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo in caso di soppressione solo parziale del posto di lavoro;

ii) la disciplina riguardante la portata e l'onere di allegazione dell'obbligo di repechagenei confronti del dipendente licenziato per giustificato motivo oggettivo.

LE SOLUZIONI GIURIDICHE

Sulla prima questione, la Corte di Cassazione ha confermato il principio espresso dalla consolidata giurisprudenza di legittimità secondo cui, ai fini della configurabilità dell'ipotesi della soppressione del posto di lavoro, integrante il giustificato motivo oggettivo di recesso, non è necessario che vengano soppresse tutte le mansioni in precedenza attribuite al lavoratore licenziato, nel senso della loro assoluta e definitiva eliminazione, potendo le stesse essere soltanto diversamente ripartite e attribuite nel quadro del personale già in forza.

A tal fine viene richiamato il carattere dell'insindacabilità delle scelte datoriali relative a una ridistribuzione o a una diversa organizzazione imprenditoriale, senza che detta operazione comporti il venir meno dell'effettività di tale soppressione (in questo senso costante giurisprudenza risalente tra cui Cass. 23 ottobre 2001, n. 13021, Cass. 2 ottobre 2006, n. 21282).

Secondo tale orientamento, in caso di soppressione parziale del posto di lavoro, il datore di lavoro, prima di recedere dal rapporto, deve verificare concretamente l'utilità della prestazione lavorativa residuale assegnata al lavoratore, eventualmente ricorrendo a forme di impiego a tempo parziale per il suo espletamento. In tale ipotesi la ridistribuzione delle mansioni tra gli altri dipendenti rimarrebbe comunque possibile, a condizione che sia stata esclusa, per ragioni tecnico produttive, la possibilità di espletamento, ad opera del dipendente solo “parzialmente eccedentario” della parte di prestazione lavorativa liberatasi per effetto della parziale soppressione del posto ricoperto (Cass. 16 marzo 2007 n. 6229).

A tale riguardo si è comunque precisato che la possibilità di un utilizzo parziale del lavoratore nella medesima posizione lavorativa è ravvisabile soltanto nel caso in cui le mansioni diverse da quelle soppresse rivestano, nel complesso dell'attività svolta, una loro oggettiva autonomia e non risultino quindi intimamente connesse con quelle prevalenti oggetto di soppressione, in modo da poter ritenere che il residuo impiego non finisca per configurare la creazione di una diversa ed autonoma posizione lavorativa (Cass. 6 luglio 2012, n. 11402).

Sulla seconda questione, la Suprema Corte, in riforma della sentenza impugnata, ha richiamato i principi generali espressi anche di recente dalla giurisprudenza di legittimità in materia di licenziamento per giustificato motivo oggettivo e obbligo di repechage.

In particolare, la Suprema Corte ha ribadito i seguenti principi:

  • l'onere di allegazione e la prova dell'impossibilità di ricollocare il dipendente licenziato (c.d. obbligo di repechage) spetta al datore di lavoro e non al lavoratore, in quanto requisito di legittimità del recesso datoriale (in questo senso: Cass. 11 novembre 2022 n. 33341; Cass. 24 settembre2017 n. 24882; Cass. 22 marzo 2016 n. 5592; Cass. 13 giugno 2016 n. 12101)
  • l'indagine sull'impossibilità di ricollocare il dipendente non deve essere circoscritta alla ricerca di mansioni equivalenti a quelle svolte dal lavoratore licenziato ma deve ricomprendere anche quelle di natura inferiore (vedi Cass. 13 novembre 31561 del 2023). Tale affermazione si basa sull'assunto dell'oggettiva prevalenza dell'interesse del lavoratore al mantenimento del posto di lavoro rispetto a quello della salvaguardia della professionalità (Cass. 13 agosto 2008, n. 21579; Cass. 8 marzo 2016, n. 4509; Cass. 11 novembre 2018 n. 29099 del 2019; Cass. 3 dicembre 2019, n. 31520).

Dall'applicazione di entrambi i principi esposti emerge che in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo a causa della soppressione del posto cui era addetto il lavoratore, il datore ha l'onere di provare non solo che al momento del licenziamento non sussistesse alcuna posizione di lavoro analoga a quella soppressa per l'espletamento di mansioni equivalenti, ma anche, in attuazione del principio di correttezza e buona fede, di avere prospettato al dipendente, senza ottenerne il consenso, la possibilità di reimpiego in mansioni inferiori rientranti nel suo bagaglio professionale.

OSSERVAZIONI

La sentenza in commento ci porta a riflettere più in generale sulla portata dell'art. 2103 c.c., come riformato dal d.lgs. n. 81/2015, che prevede, al secondo comma, la possibilità di assegnare il lavoratore a mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore “in caso di modifica degli assetti organizzativi aziendali che incidono sulla posizione del lavoratore”.

C'e da sottolineare come la modifica normativa dell'art. 2103 c.c. abbia influenzato in maniera significativa l'interpretazione giurisprudenziale dell'obbligo del repeghace.

 Infatti tale obbligo, anteriormente all'entrata in vigore della legge del 2015, era generalmente circoscritto, tranne casi di connotata gravità (quali la permanente impossibilità a rendere la prestazione lavorativa) entro il perimetro caratterizzato dalle mansioni equivalenti in concreto svolte dal lavoratore interessato.

A tale riguardo si osserva che la nuova disciplina di cui all'art. 2103, comma 2, c.c., secondo l'affermato orientamento giurisprudenziale, ha esteso la portata dell'obbligo di repechage, prevedendo l'onere del datore di lavoro, prima di procedere al licenziamento e nel caso in cui siano disponibili nell'ambito dell'assetto aziendale posti corrispondenti a mansioni inferiori, di proporre al lavoratore interessato la stipula di un patto di demansionamento ai sensi dell'art. 2103 c.c., con la conservazione del trattamento retributivo precedentemente goduto.

In tale prospettiva il recesso per soppressione del posto di lavoro deve considerarsi legittimo nei seguenti casi:

a) la parte datoriale abbia dimostrato di aver ricercato senza successo soluzioni alternative anche se comportanti l'adibizione del lavoratore a mansioni inferiori;

b) nel caso in cui il lavoratore interessato non le abbia accettate, in quanto confliggenti con le esigenze di tutela della propria professionalità.

Ciò parrebbe escludere, come sostenuto da parte della dottrina, che nella nuova disciplina dell'art. 2103 c.c. possa ravvisarsi, nel caso di soppressione del posto di lavoro, un vero e proprio obbligo datoriale di adibire il lavoratore a mansioni inferiori, ai sensi del secondo comma dello stesso articolo, necessitando all'uopo un patto individuale tra azienda e dipendente.

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