Emotrasfusione e risarcimento del danno patrimoniale da limitazione della capacità lavorativa specifica

La Redazione
31 Maggio 2024

La Corte di cassazione, nella sentenza del 21 maggio 2024, n. 14069, si è pronunciata in tema di risarcimento dei danni derivanti dalla somministrazione di sangue o emoderivati infetti ed, in particolare, di danno patrimoniale derivante da limitazione della capacità lavorativa specifica.

Nel caso esaminato, il danneggiato aveva convenuto in giudizio il Ministero della Salute chiedendo il risarcimento di tutti i danni subiti, derivanti dalla somministrazione di sangue o emoderivati infetti. Il tribunale accoglieva la domanda, condannando il Ministero al pagamento di euro 108.264. 

La Corte d’appello elevava il risarcimento dovuto dal Ministero a 147.000 euro in considerazione del danno non patrimoniale subito, rigettando la domanda dell'appellante relativa al risarcimento del danno patrimoniale da limitazione della propria capacità lavorativa specifica, mancando la prova della incidenza della patologia derivante dalla emotrasfusione sulla capacità lavorativa specifica.

Il ricorrente censurava così in cassazione la sentenza della Corte d’appello nella parte in cui non aveva ammesso le prove testimoniali da lui richieste, che assumeva sarebbero state idonee a dimostrare la sussistenza di un pregiudizio, di natura anche patrimoniale, causato dal danno permanente riportato.

Sosteneva che il danno patrimoniale risarcibile era qualificabile come danno da occasione perduta o come danno patrimoniale futuro. Precisava che la sua situazione era di chi aveva iniziato la carriera del dottore commercialista ma non l'aveva ancora portata avanti al punto tale da aver già conseguito e poter dimostrare un effettivo livello reddituale di cui lamentare la perdita. Assumeva che le condizioni fisiche derivanti dal contagio lo esponevano a maggiore difficoltà nell'assumere impegni fisici particolarmente faticosi, e che lo avevano pregiudicato portandolo ad optare per un lavoro diverso, meno retribuito rispetto alla posizione che avrebbe potuto conseguire come dottore commercialista. Aggiungeva che, sulla base della ricostruzione della sua posizione complessiva, si doveva ritenere che esistesse una seria ed apprezzabile possibilità, sulla base della regola probatoria del più probabile che non, che egli potesse affermarsi nella libera professione, con conseguenti vantaggi economici, di interesse personale e di prestigio, e che tale progressione gli era stata impedita dalla malattia.

La Corte di cassazione ha dichiarato il ricorso per cassazione inammissibile atteso che «la valutazione sulla ammissione o meno delle prove testimoniali è valutazione discrezionale rimessa al giudice di merito, come pure è valutazione tipicamente di merito ritenere se, sulla base della considerazione di tutti gli elementi probatori raccolti, si potesse ritenere più probabile che non che la scelta di fatto attuata dal ricorrente, per una carriera più tranquilla ma meno prestigiosa e retribuita, fosse stata necessitata o quanto meno fortemente condizionata dalla patologia contratta».

Secondo i giudici, la valutazione sul punto era presente nella sentenza impugnata e non era meramente apparente in quanto «la Corte d'appello aveva reputato che il ricorrente fosse fisicamente in grado di affrontare la carriera di commercialista, pur dando atto del maggior impegno fisico che essa avrebbe comportato per lui rispetto alla media delle persone di pari età ed in normali condizioni di salute e, quindi, ha ritenuto che mancasse la prova che la patologia fosse stata determinante nella scelta di intraprendere una diversa carriera che il ricorrente prospettava come di minor soddisfazione».

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.