I pregiudizi non patrimoniali: dal danno in re ipsa al danno bagatellare
11 Giugno 2024
Un caso esemplare La Suprema Corte affronta – in una recente ordinanza (Cass. civ. 22 gennaio 2024, n. 2203) – un caso assai particolare, utile a testare le regole attualmente perseguite dalla giurisprudenza di legittimità in materia di ristoro del danno non patrimoniale, in accordo con il disegno tracciato nel novembre del 2008 dalle celeberrime pronunce di San Martino. La Cassazione è chiamata a pronunciarsi in relazione al danno non patrimoniale patito da una coppia - titolare di un fondo sul quale si era verificata una frana causata dai lavori intrapresi, in violazione delle indicazioni progettuali della D.I.A, nella proprietà confinante – incarnato dal “timore dovuto alla consapevolezza di abitare a minima distanza da una frana già verificatasi, e col rischio di patirne altre nella propria sfera personale e familiare più immediata”: pregiudizio risarcito dal giudice di secondo grado, nella misura di 5000 euro ciascuno, a fronte della lesione della vita familiare nella propria abitazione. Con riguardo al ristoro di un simile pregiudizio, i giudici di legittimità rammentano che:
Ad opinione della Cassazione, la Corte di Appello non avrebbe applicato tali principi in quanto – oltre a non aver accertato la riconducibilità all'alveo delle immissioni intollerabili il disagio e la paura correlati al pericolo di una futura frana – sarebbe mancata la verifica circa la ricorrenza della gravità della lesione del diritto alla serenità familiare e della serietà del pregiudizio dalla stessa derivante. In buona sostanza, secondo la S.C. “è stata pretermessa una delibazione in ordine alla concreta ed effettiva non riconducibilità di quanto allegato dagli originari attori a quei meri disagi, fastidi, disappunti, ansie o ogni altro tipo di insoddisfazione concernente gli aspetti più disparati della vita che (…) precludono, in forza del principio di solidarietà sociale di cui all'art. 2 Cost., la tutela risarcitoria del danno non patrimoniale ai sensi dell'art. 2059 c.c., nella misura in cui esprimono i termini di un'incidenza non adeguatamente apprezzabile della sfera personale individuale, inevitabilmente scaturente dal fatto della convivenza sociale”. Il timore per un pericolo attuale cagionato da un illecito Un primo profilo da vagliare riguarda la specifica configurazione che assume – nell'ipotesi in questione – il pregiudizio non patrimoniale oggetto di ristoro: il quale si sostanzia in un peculiare sentimento negativo rappresentato dal timore circa il concretizzarsi, in futuro, di quello che rappresenta un pericolo attuale, la cui fonte va individuata nell'illecito comportamento altrui. La possibilità di ricondurre entro l'area del danno non patrimoniale – sotto la veste di danno morale – un fenomeno configurato nei termini sopra illustrati non rappresenta, invero, una novità. Basterà rammentare, scavando nel passato, il caso dei quegli abitanti della zona coinvolta dal disastro ambientale di Seveso del 1976, che – in quanto esposti all'inalazione di una sostanza potenzialmente nociva quale la diossina – si sono visti riconoscere il ristoro del danno morale correlato al timore di contrarre future patologie: pregiudizio del tutto autonomo rispetto al danno biologico, in quanto corrispondente al patema d'animo indotto dalla preoccupazione per il proprio stato di salute (Cass. 13 maggio 2009, n. 11059). Passando a tempi assai più recenti, si tratta di ricordare il caso analizzato dalla Corte di Giustizia europea (CGUE 14 dicembre 2023, C-340/21), riguardante la perdita di controllo dei dati subita dall'Agenzia delle entrate bulgara a seguito di un attacco hacker, integrante una violazione del Regolamento 2016/679: a fronte del quale i giudici europei riconoscono che il relativo art. 82 dev'essere interpretato, per quanto riguarda il pregiudizio patito dal singolo interessato, nel senso che “il timore di un potenziale utilizzo abusivo dei suoi dati personali da parte di terzi che un interessato nutre a seguito di una violazione di tale regolamento può, di per sé, costituire un ‘danno immateriale' ai sensi di tale disposizione”. Una volta ammessa la riconducibilità del timore – legato a un pericolo attuale di danno futuro – entro la nozione di danno morale, si tratta di valutare quali siano le condizioni alle quali risulta ammissibile la relativa risarcibilità. Il danno in re ipsa Pacifica, di primo acchito, appare l'affermazione ricorrente presso la giurisprudenza di legittimità – ribadita anche nella pronuncia oggetto di riflessione – secondo cui il danno non patrimoniale di cui si invoca il risarcimento non può essere in re ipsa, posto che lo stesso si identica nelle conseguenze della lesione. Una simile conclusione sembra, tuttavia, apparire meno salda alla luce delle indicazioni emergenti in alcuni campi del torto, dove la tutela risarcitoria finisce, talora, per essere assicurata a fronte dell'accertamento quanto alla pura e semplice violazione del diritto. Un'inclinazione del genere emerge a fronte del mancato rispetto degli obblighi informativi in materia di trattamento sanitario: qui il rimedio risarcitorio appare spesso assicurato una volta constatato che risulta lesa l'autodeterminazione terapeutica del paziente, a prescindere dalla dimostrazione che dalla stessa sia scaturita una qualche ulteriore conseguenza dannosa. E altrettanto può osservarsi, altresì, in altri settori, come quello relativo agli atti discriminatori. Una dannosità intrinseca connessa alla lesione – tale da giustificare di per sé la tutela risarcitoria – sembra, altresì, emergere dalle indicazioni giurisprudenziali formulate dalle Sezioni Unite in materia di occupazione illegittima di un bene immobile, ove il danno risulta identificato (anche) con il mancato godimento del diritto di per sé considerato (Cass. Sez. U. 15 novembre 2022, nn. 33645 e 33649): indicazione, questa, formulata in termini così ampi da prestarsi a un'estensione all'area non patrimoniale del danno. Qualche interrogativo con riguardo alla questione del danno in re ipsa emerge, in effetti, con riferimento alla fattispecie dalla quale hanno preso spunto queste riflessioni, vale a dire il timore patito dai soggetti per il pericolo di frana incombente sulla propria abitazione. Posto che l'interesse colpito, in capo agli stessi, viene individuato dai giudici nei termini di normale svolgimento della vita familiare nella propria abitazione, va rilevato che le vittime di tale lesione non risultano aver addotto alcuna circostanza che dimostri come il pericolo abbia influenzato negativamente la stessa. Ci si limita a evocare la sussistenza di un sentimento negativo quanto alla sussistenza del rischio di danni futuri: sicché il timore lamentato al riguardo finisce per rappresentare l'evento stesso di danno, piuttosto che una conseguenza della lesione. A tale riguardo, sarà utile rammentare le indicazioni formulate in passato dalla Cassazione, con riferimento allo stress e al timore lamentati da un magistrato, per l'installazione di un lampione nelle immediate vicinanze della propria abitazione tale da poter costituire via d'accesso per i malintenzionati: i giudici di legittimità, in quella sede, affermano che “lo stress psicologico da timore è solo una conseguenza della lesione di un possibile interesse protetto, il quale va tuttavia previamente individuato perché possa anche solo venire in considerazione il danno in ipotesi derivato dalla lesione dello stesso; e, per altro verso, che né la serenità né la sicurezza costituiscono, in se stesse considerate, diritti fondamentali di rango costituzionale inerenti alla persona, la cui lesione consente il ricorso alla tutela risarcitoria del danno non patrimoniale”. Il pregiudizio bagatellare Condizione affinché possa essere garantita la risarcibilità del danno non patrimoniale – secondo le indicazioni che i giudici di legittimità traggono, quale vero e proprio dogma, dai principi affermati dalle Sezioni Unite del 2008 – è che lo stesso superi la soglia della tollerabilità. Entra in gioco, in tal modo, un filtro limitativo la cui concreta applicazione finisce per essere rimessa alla pura discrezionalità giudiziale, considerato che non appare affatto chiaro cosa debba intendersi per danno bagatellare. Nell'evocare – sulla falsariga di quanto affermato dalle Sezioni Unite – l'irrisarcibilità di meri disagi e fastidi, i giudici di legittimità si limitano a richiamare una serie di stati d'animo di carattere negativo, rispetto ai quali non appare per alcun verso individuata una linea di confine idonea a separare le compromissioni da considerare insignificanti rispetto a quelle meritevoli di tutela. Si tratta, peraltro, di affermazioni che finiscono per rimanere confinate nell'area delle declamazioni di principio, in quanto – sul piano pratico – nella gran parte dei casi le richieste risarcitorie finiscono per essere respinte dai giudici in ragione della mancata dimostrazione circa la ricorrenza di una qualche compromissione non patrimoniale generata dall'illecito, e non già in virtù di una tollerabilità del pregiudizio stesso. L'esigenza alla quale sembra voler rispondere l'introduzione del (discutibile) duplice filtro della gravità della lesione e serietà del danno sembra in realtà puntare - più che all'individuazione di una regola di risarcibilità - alla determinazione dei confini della nozione di danno non patrimoniale. Che questo sia il vero nodo da sciogliere appare evidente alla luce delle considerazioni – formulate dall'Avvocato Generale con riguardo alla causa C-340/21 della CGUE, in precedenza richiamata, relativa alla perdita di controllo dei dati personali – secondo cui “il confine tra la mera irritazione (non risarcibile) e il vero e proprio danno immateriale (risarcibile) è senz'altro sottile, ma i giudici nazionali, cui spetta il compito di delimitare caso per caso tale confine, dovrebbero effettuare un'attenta valutazione di tutti gli elementi forniti dall'interessato che richiede il risarcimento, cui spetterà l‘onere di allegare con precisione, e non in modo generico, elementi concreti che possano condurre alla configurabilità di un ‘danno morale effettivamente subito' a causa della violazione dei dati personali, pur senza che esso raggiunga una soglia di particolare gravità predeterminata: ciò che conta è che non si tratti una mera percezione soggettiva, mutevole e dipendente anche da elementi caratteriali e personali, ma la oggettivizzazione di un disagio, seppur lieve ma comprovabile, alla propria sfera fisica o psichica o alla propria vita di relazione; la natura dei dati personali coinvolti e la rilevanza che essi ricoprono nella vita dell'interessato e forse anche la percezione che, in quel momento, abbia la società di quello specifico disagio connesso alla violazione dei dati”. Da tali indicazioni emerge, allora, come la stessa nozione di danno morale sembra dover essere delineata non già attraverso il riferimento a un fenomeno rimesso alla mera percezione da parte della vittima dell'illecito, ma sulla base dell'apprezzabilità dello stesso in termini di concreto pregiudizio alla luce di una valutazione operata dalla coscienza sociale. In conclusione Le considerazioni fin qui esposte – suscitate dalla lettura di una peculiare fattispecie di danno non patrimoniale – si prestano a essere proiettate su un piano più generale, per essere ricollegate a una questione che, a tutt'oggi, gli interpreti non sembrano ancora aver sciolto: vale a dire l'individuazione di una giustificazione sulla quale fondare l'applicazione di un regime selettivo per quanto concerne il risarcimento dell'area non economica del pregiudizio. Una volta riconosciuto che il danno non patrimoniale viene incarnato da una realtà fenomenica che si manifesta sotto una duplice veste (riguardante, da un lato, la sfera interiore e, dall'altro lato, la dimensione esterna della vittima), si tratta di rilevare che tali modificazioni negative potranno assumere rilevanza, sul piano risarcitorio, in quanto siano percepibili come danni non soltanto sulla base di una valutazione idiosincratica da parte della vittima dell'illecito, bensì alla stregua della coscienza sociale. È quest'ultima, in buona sostanza, a rappresentare il parametro di riferimento attraverso il quale stabilire se un determinato sentimento negativo ovvero una modificazione della sfera esterna si prestino o meno a incidere negativamente sul “valore-uomo” di chi li subisce. Ad essere tratteggiato, in tal modo, è un principio (destinato a trovare concreta applicazione, sul piano normativo, attraverso la regola dell'art. 2059 c.c.) suscettibile di giustificare in maniera unitaria soluzioni giurisprudenziali in apparenza assai distanti tra loro, in quanto propense talora a riconoscere il risarcimento di un danno in re ipsa e talaltra a escludere il ristoro di pregiudizi qualificati come bagatellari. |