Gli atti di trasferimento a titolo oneroso da parte del locatore che non danno luogo alla prelazione in capo al conduttore
Alberto Celeste
18 Giugno 2024
Di regola, il diritto di prelazione in favore del conduttore, nell'ipotesi di locazione di immobili ad uso non abitativo, presuppone l'individuazione di un'operazione economica tra il locatore ed il terzo rientrante nello schema causale tipico del trasferimento a titolo oneroso. Tuttavia, il concetto di alienazione è stato, in realtà, variamente illustrato negli studi sulla circolazione dei beni. Talvolta, è stato lo stesso legislatore a delineare gli atti che non danno luogo a prelazione, talaltra, identico risultato si è raggiunto in via interpretativa: in quest'ottica, il presente commento passa in rassegna le varie ipotesi poste all'esame dei giudici di legittimità.
Introduzione. Il quadro normativo
Il diritto di prelazione, in capo al conduttore, dovrebbe comprendere ogni atto giuridico che comporta una diminuzione volontaria del patrimonio del disponente, con relativo vantaggio, in via diretta, dell'altra parte, destinataria dell'attribuzione del diritto trasmesso, anche se esiste una diffusa accezione restrittiva del termine “alienazione”, tendente ad indicare unicamente il trasferimento della proprietà.
Inoltre, il principio della parità di condizioni, che permea il sistema delle prelazioni legali, postula che la prelazione possa concepirsi solo riguardo a negozi di attribuzione a titolo oneroso, nei quali la prestazione dedotta nel contratto sia dovuta in funzione di un corrispettivo, ed esclusivamente laddove il medesimo corrispettivo dovuto dal terzo acquirente sia fungibile, nel senso che possa essere prestato anche dal preferito.
In buona sostanza, il meccanismo della prelazione legale è congegnato in maniera tale che alcuna lesione sia portata all'interesse economico dell'alienante, atteso che l'utilità promessa dal terzo viene, comunque, garantita dal beneficiario.
Orbene, l'art. 38 l. n. 392/1978 - dopo aver stabilito che, al conduttore di immobile adibito ad uso diverso da quello di abitazione, spetta il diritto di prelazione nei confronti del locatore che intenda trasferire a titolo oneroso l'immobile locato, e dopo aver precisato le modalità della denuntiatio a carico del locatore e dell'esercizio del diritto da parte del conduttore - dispone testualmente all'ultimo comma: “le norme del presente articolo non si applicano …”, elencando, quindi, le ipotesi in cui la prelazione non opera a vantaggio del conduttore; nello specifico, si contemplano soltanto le ipotesi previste dall'art. 732 c.c. per le quali la prelazione opera a favore dei coeredi e le ipotesi di trasferimento effettuato a favore del coniuge o dei parenti entro il secondo grado, tuttavia, oltre ai casi in cui trova applicazione il retratto successorio ed ai trasferimenti effettuati in favore nell'ambito strettamente familiare, la giurisprudenza ha individuato un'ampia serie di trasferimenti con cui il diritto di prelazione in questione è incompatibile o è di dubbia compatibilità.
Il retratto successorio
La prima delle suddette ipotesi espresse concerne quelle “previste dall'art. 732 c.c. per le quali la prelazione opera a favore dei coeredi”.
In forza di tale disposizione, il diritto di prelazione spettante al conduttore non trova applicazione, quindi, anche nel caso in cui il coerede alieni a persona estranea alla comunione ereditaria la sua quota o parte di essa, prevalendo il diritto di prelazione attribuito, dalla citata disposizione del codice civile, ai coeredi (Cass. civ., sez. III, 2 giugno 1999, n. 5387; Cass. civ., sez. III, 3 maggio 1990, n. 3629).
Il diritto di prelazione di questi ultimi si giustifica, infatti, con lo scopo di evitare che terzi estranei partecipino alla comunione dell'asse ereditario, considerato questo nel suo complesso.
Poiché il suddetto art. 732 c.c. contempla il caso del coerede che intenda alienare ad un estraneo la sua quota o parte di essa, attribuendo il diritto di prelazione agli altri coeredi, risulta chiaro che l'esclusione della prelazione prevista dall'ultimo comma dell'art. 38, in relazione all'art. 732 c.c., non riguarda l'ipotesi di cessione tra coeredi, ma proprio l'alienazione della quota ereditaria ad un terzo; e che il legislatore del 1978 ha risolto il conflitto fra due categorie di soggetti preferiti (coeredi e conduttori), “facendo prevalere i coeredi al fine di assicurare ancora una volta la finalità perseguita dall'art. 732 c.c., che è quella di impedire l'ingresso di persone estranee nella comunione ereditaria” (così Cass. civ., sez. III, 3 maggio 1990, n. 3629; v. anche Cass. civ., sez. III, 9 giugno 2010, n. 13838).
Il diritto di prelazione non riprende vigore neppure nel caso di mancato esercizio o di estinzione del diritto di prelazione del coerede, in quanto l'alienazione di una quota ereditaria, o di una sua frazione, comunque ne sia indicato l'oggetto, importa il trasferimento della situazione giuridica dell'alienante della comunione, ma non determina il trasferimento all'acquirente dell'immobile locato caduto in successione.
In quest'ottica, non si è accolta la tesi secondo cui il legislatore abbia inteso coordinare, in un rapporto di gerarchia, i pari diritti di prelazione dalle diverse disposizioni attribuiti a coeredi ed a conduttori in locazione, garantendo ai primi il prioritaria soddisfacimento del loro diritto e subordinando al mancato relativo esercizio o alla relativa estinzione quello del conduttore.
Invero, per un verso, la relativa indiscriminata unitaria previsione sembra presupporre l'assoggettamento dei diversi casi considerati a comune disciplina, tal che il carattere definitivo ed incondizionato, di evidente certezza, del sacrificio della posizione del conduttore, rispetto ai trasferimenti disposti dal locatore nell'ambito familiare, deve ritenersi ricorrere anche nell'ulteriore ipotesi della prelazione dei coeredi, e tanto più a ragione della patente incompatibilità del consentito esercizio del riscatto da parte del conduttore o dei coeredi, legittimato dalla violazione del rispettivo diritto di prelazione.
Per altro verso, al conduttore è attribuito il diritto di prelazione per il caso di trasferimento a titolo oneroso dell'immobile locato, mentre ai coeredi quel diritto compete in caso di alienazione da altro coerede, disposta a favore di estranei alla comunione ereditaria, della sua quota, o di parte della sua quota, di partecipazione a tale comunione.
Ora, l'alienazione di una quota di eredità, o di una sua frazione, quand'anche disposta con formale riferimento ad una specificata pluralità di beni oppure ad un singolo bene che la comunione ereditaria ha ad oggetto, assunti ad entità rappresentativa della quota o di una sua parte per cui è data prelazione ai coeredi, non integra, e non comporta, il trasferimento all'acquirente dei beni o del bene considerati negozialmente, che è presupposto della prelazione del conduttore, in modo che, al riguardo, possa configurarsi un conflitto tra diversi soggetti aventi pari diritto al medesimo acquisto preferenziale, trattandosi, invece, di un trasferimento il cui oggetto può, icasticamente, identificarsi nella (totale o parziale) situazione giuridica spettante all'alienante nella comunione, nei confronti dei coeredi e dei terzi, per cui l'acquirente viene a partecipare alla comunione ereditaria in proporzione all'entità della quota o frazione di quota acquistata, con ogni connesso diritto ed obbligo, in particolare con pari diritto su tutti e ciascuno dei beni che costituiscono l'asse, specificabile in via definitiva soltanto per effetto di divisione.
Dunque, il trasferimento oneroso di quota, o parte di quota, di un'eredità, o comunione ereditaria, “comunque ne sia tra i contraenti enunciato l'oggetto, non è trasferimento dell'immobile locato ricadente nella successione e nella comunione, sì che la sua attuazione non vale ad integrare il presupposto che per legge condiziona l'insorgenza del diritto di prelazione del conduttore” (così Cass. civ., sez. III, 19 maggio 1988, n. 3466).
Il trasferimento in favore del coniuge o dei parenti
La disposizione dell'ultimo comma dell'art. 38 l. n. 392/1978 prevede, come seconda espressa ipotesi di esclusione, che la prelazione non si applica “nell'ipotesi di trasferimento effettuato a favore del coniuge o dei parenti entro il secondo grado”.
La suddetta esclusione trova la sua giustificazione nell'intento del legislatore di privilegiare l'interesse del locatore-proprietario di trasferire l'immobile locato a parenti molto stretti o al coniuge, rispetto all'interesse del conduttore di rendersi proprietario dell'immobile, ove è ubicata l'azienda di cui è titolare.
Al riguardo, gli ermellini (Cass. civ., sez. III, 19 aprile 1991, n. 4259) hanno opinato che la norma de qua non operi ove lo stesso conduttore sia anch'egli parente entro il secondo grado, ripristinandosi in tal caso il favor del conduttore che ispira l'istituto della prelazione urbana.
Invero, la ratio di tale istituto va ravvisata nella tutela dell'interesse dei conduttori di immobili non abitativi a consolidare, nello stesso soggetto, la proprietà dell'immobile e la titolarità dell'impresa, anche al fine della conservazione delle aziende; e tale interesse va escluso - non solo in presenza di altra causa di prelazione legale, come il retratto successorio ex art. 732 c.c., ma anche - riguardo al principio di solidarietà familiare fra congiunti stretti (coniuge e parenti entro il secondo grado); con particolare riferimento a quest'ultima ipotesi, ove il bene venga trasferito ad un prossimo congiunto, l'interesse dell'acquirente viene privilegiato rispetto a quello del conduttore estraneo al nucleo familiare, ma, se questo è il senso della disposizione, allora l'esclusione della prelazione di cui al citato ultimo comma dell'art. 38 viene meno ove anche il conduttore sia parente entro il secondo grado, appunto perché, nei suoi confronti, non c'è più motivo per privilegiare la solidarietà, affettiva ed economica, del nucleo familiare.
In tema di trasferimento degli immobili locati ad uso non abitativo, la ratio legis va identificata nel favor conductoris che, venuto meno allorché l'acquisto viene effettuato a vantaggio di uno stretto congiunto, riprende pieno vigore allorché il conduttore sia anch'egli congiunto di pari grado: insomma, a parità di parentela, il conduttore in quanto tale mantiene il pieno diritto di prelazione, non sussistendo più la ragione impeditiva di cui all'ultimo comma dell'art. 38.
Le procedure concorsuali
Tra le ipotesi non contemplate espressamente dal legislatore, che parimenti non danno luogo alla prelazione in capo al conduttore, può annoverarsi l'ipotesi di fallimento del locatore dell'immobile e di vendita coattiva del medesimo, atteso che l'art. 38 si riferisce ai soli trasferimenti c.d. volontari (v., per tutte, Cass. civ., sez. III, 13 gennaio 1981, n. 295).
Invero, sono le stesse espressioni letterali della norma regolatrice della prelazione nel caso di locazione di immobili urbani a porre in evidenza che la relativa disciplina, la quale trova la sua ragione d'essere nel trasferimento a titolo oneroso che il locatore “intenda” fare dell'immobile locato, instaura un rapporto tra due soggetti specificamente indicati, il proprietario da una parte ed il conduttore dall'altra, con una legittimazione rilevata dalle posizioni ad essi rispettivamente riconoscibili, in virtù del rapporto contrattuale avente per oggetto la locazione dell'immobile; invece, la dualità dei predetti soggetti, destinatari delle norme sulla prelazione, si riduce e non sussiste più allorquando il fallimento del proprietario-locatore priva questo della possibilità di disporre dell'immobile, essendo intervenuta la sentenza dichiarativa di fallimento, che ha per effetto la separazione del patrimonio dalla persona del fallito.
L'esercizio dell'attività di natura privatistica che, ai fini della prelazione, si sarebbe svolta tra proprietario-locatore e conduttore, nel caso di vendita dell'immobile locato, non può innestarsi in quell'attività di natura pubblicistica cui gli organi fallimentari sono chiamati a presiedere, intesa alla liquidazione dei beni del fallito, ai fini di realizzare la garanzia patrimoniale spettante ai suoi creditori; è un'attività che, nata dallo spossessamento dei beni del fallito, non può soggiacere alle limitazioni di disporre del bene inerenti al rapporto privatistico della locazione, se un'espressa norma ad essa non sottometta l'ufficio fallimentare, rimanendo questo esente da intralci e da remore, non propizie alle finalità che esso deve conseguire.
Le particolarità intrinseche alla procedura fallimentare, nell'espletamento delle funzioni, cui la stessa deve adempiere con pienezza di poteri, ripudiano, dunque, l'applicabilità dell'istituto della prelazione, cui non può giovare il principio dell'analogia, reso inoperante dalle incompatibilità strutturali che dividono i due sistemi, quello della vendita dell'immobile ad opera del proprietario-locatore e quello della realizzazione dei beni del fallito ad opera degli organi preposti dalla legge.
In altri termini, l'art. 38, comma 1, nel prevedere l'obbligo della comunicazione finalizzata all'esercizio della prelazione, qualora il locatore intenda trasferire a titolo oneroso l'immobile, pone in rilievo l'elemento “volontaristico” dell'ipotizzata alienazione e l'esigenza di una scelta preventiva del contraente-compratore e del prezzo da parte dell'alienante, alla quale possa corrispondere la scelta dell'esercizio del diritto da parte del conduttore (v., altresì, Cass. civ., sez. III, 28 gennaio 2013, n. 1808; Cass. civ., sez. III, 30 maggio 1984, n. 3298).
Per di più, l'art. 108 l. fallim., in caso di vendita immobiliare, impone la forma dell'incanto, salvo deroga giustificata dal vantaggio della procedura, mentre la sottoposizione della vendita in quella forma alla sospensione ed alla condizione della notifica del prezzo di aggiudicazione con l'eventuale successiva prelazione, pur se non può essere ritenuta inattuabile in via assoluta, non appare, peraltro, compatibile con le esigenze ed il buon andamento dell'incanto stesso; a prescindere dai ritardi e dalle incertezze, tale subordinazione importerebbe seri pregiudizi per un normale utile procedimento del genere in danno dei creditori, senza una valida ragione di tal favore per il conduttore: invero, la prospettiva che l'aggiudicazione possa rimanere inefficace a causa di un fatto diverso dall'aumento del prezzo, cioè a causa dell'intervento del conduttore, costituisce un condizionamento capace di turbare lo svolgimento degli incanti e, quindi, sarebbe assolutamente incompatibile con il relativo sistema di vendita.
Analoghe considerazioni il Supremo Collegio (Cass. civ., sez. III, 18 maggio 2012, n. 7931; Cass. civ., sez. III, 2 marzo 2010, n. 4935; Cass. civ., sez. un., 27 luglio 2004, n. 14083; Cass. civ., sez. III, 14 gennaio 1994, n. 339; Cass. civ., sez. III, 6 aprile 1990, n. 2900) ha prospettato con riferimento al concordato preventivo con cessione dei beni creditori: traendo argomento dalle riflessioni svolte riguardo al fallimento, si è posto in evidenza, sotto il profilo sostanziale, che l'istituto del concordato preventivo è stato predisposto dal legislatore per tentare di raggiungere, con conseguenze meno disastrose per il debitore in stato di insolvenza, la sistemazione del dissesto mediante l'incontro delle volontà del debitore e dei creditori (concordato) che si estrinseca in un negozio che deve essere approvato dall'autorità giudiziaria.
Da un punto di vista formale, si è sottolineato che la procedura, data al negozio con l'omologazione, mira alla soddisfazione delle ragioni dei creditori in misura ridotta, rispettando la par condicio mediante pagamenti normalmente dilazionati ma garantiti, senza sacrificio totale dell'impresa del debitore, per cui la procedura, fallimentare e quella di ammissione al concordato preventivo, hanno in comune il presupposto dello stato di insolvenza mentre la tutela delle ragioni dei creditori si attua in maniera differente: mediante l'acquisizione dell'attivo da parte degli organi pubblici nel fallimento per la soddisfazione del passivo, e mediante il negozio del concordato, nella seconda, e la sua attuazione.
Le vendite forzate
Sulla base di argomenti analoghi a quelli utilizzati riguardo al fallimento e alla cessione dei beni ai creditori, i giudici di legittimità (Cass. civ., sez. III, 16 dicembre 1996, n. 11225) hanno ritenuto che, in caso di vendita all'asta, in sede di esecuzione forzata, dell'immobile locato ad uso diverso dall'abitazione, al conduttore di esso non spetti il diritto di prelazione.
Invero, il diritto di prelazione, che l'art. 38 l. n. 392/1978 riconosce al conduttore di immobili adibiti ad uso diverso dall'abitazione, presuppone la volontarietà e l'onerosità dell'alienazione: ciò si evince chiaramente dalla formulazione letterale della norma, che impone l'obbligo di comunicazione esclusivamente al locatore che intenda trasferire a titolo oneroso l'immobile locato.
La medesima ratio esclude che la prelazione competa nell'ipotesi di esecuzione forzata: la norma in esame non impone, del resto, alcun obbligo di dare comunicazione del trasferimento a carico del creditore procedente o del giudice dell'esecuzione; e nulla rileva, in proposito, l'inesistenza di una norma analoga a quella dettata, in materia di prelazione agraria, dall'art. 8, comma 2, l. n. 590/1965, che esclude espressamente la prelazione in caso di esecuzione forzata, una volta che la medesima conseguenza discende dalla formulazione dell'art. 38 l. n. 392/1978.
Parimenti, in materia di divisione giudiziale di immobile non comodamente divisibile, ai sensi dell'art. 720 c.c., contro l'attribuzione del bene al comproprietario avente diritto alla quota maggiore, il comproprietario per la quota minore, che gestisca nello stesso un esercizio commerciale, non può opporre la prelazione di cui all'art. 38 l. n. 392/1978, stante che tale disposizione, non suscettibile di interpretazione analogica o estensiva, presuppone la libera determinazione del proprietario-locatore di trasferire a titolo oneroso l'immobile e la piena libertà del proprietario nell'adottare le sue determinazioni (Cass. civ., sez. III, 16 dicembre 1996, n. 11225; Cass. civ., sez. III, 14 gennaio 1994, n. 339; Cass. civ., sez. III, 18 settembre 1991, n. 9748; Cass. civ., sez. III, 6 aprile 1990, n. 2900; contra, appare Cass. civ., sez. III, 1° febbraio 1988, n. 913).
Invero, il citato art. 38 disciplina il diritto di prelazione, che la legge accorda al conduttore nel caso in cui il locatore trasferisca a titolo oneroso l'immobile locato, volendo così proteggere il conduttore e, a parità di condizioni, preferirlo agli altri potenziali acquirenti; risulta, quindi, che il vincolo imposto alla proprietà sorge unicamente quando il locatore intende trasferire a titolo oneroso l'immobile, sicché quello che caratterizza un tale trasferimento è la sua volontarietà, mentre qui, lungi dal volere trasferire la sua proprietà (condizione per l'applicazione della disposizione citata), si intende porre fine alla comunione.
Le quote societarie
La cessione di quote della società locatrice non è stata considerata assimilabile (secondo Cass. civ., sez. III, 21 marzo 2001, n. 4020) al trasferimento a titolo oneroso dell'immobile oggetto di prelazione ai sensi dell'art. 38 l. n. 392/1978, né alla diversa ipotesi dell'alienazione della quota in comproprietà dell'immobile che i comproprietari hanno concesso in locazione ad un terzo.
Invero, da un lato, la cessione della quota sociale non attribuisce al socio subentrato la proprietà di una porzione dei beni della società, ma gli attribuisce una quota del relativo patrimonio, comprensivo delle passività, dei crediti, dei rischi, dell'esposizione per le obbligazioni già contratte, nonché dei poteri di indirizzo e gestione dei programmi societari con le relative aspettative.
Dall'altro, continuando l'immobile locato ad appartenere alla società, non sono neppure ipotizzabili, in difetto di alienazione del bene, l'esercizio della prelazione e l'eventuale retratto, che non potrebbe rivolgersi né nei confronti della società, che non ha mai alienato il bene, né nei confronti del socio subentrante, il quale non ne è mai diventato proprietario.
Del resto, la questione se sussista il diritto di prelazione nel caso di cessione delle quote di una società di persone, nel cui patrimonio sia compreso l'immobile locato, era stata già esaminata (Cass. civ., sez. III, 7 novembre 1983, n. 6566) in materia di contratti agrari, ed era stata risolta in senso negativo, con considerazioni esportabili anche in tema di prelazione urbana, stante l'indubbia identità di ratio.
Al riguardo, si era, innanzitutto, osservato che il contenuto del contratto, con cui uno dei soci attribuisce ad altro socio la sua quota sociale, non è la trasformazione di quota di comunione in porzione di titolarità singola, ma è l'attribuzione al subentrante della titolarità della quota del socio uscente, nella quale la controprestazione della cessione di quota non è un corrispettivo pari al valore di una porzione dei beni comuni, bensì costituisce il versamento di una somma corrispondente al valore della quota di patrimonio sociale, nella cui valutazione necessariamente vengono ad incidere i numerosi fattori sopra evidenziati.
Era stato, poi, rilevato che la prelazione ed il riscatto presuppongono un sinallagma contrattuale, in cui almeno una delle prestazioni sia di genere e fungibile, mentre, nelle vicende modificatrici dell'assetto personale di una società - nelle quali, peraltro, il carattere non meramente patrimoniale degli accordi è improntato all'intuitus personae nella scelta dei contraenti - l'acquisto e la perdita dello status di socio, in connessione con il trasferimento delle quote, non possono essere considerati come oggetto di prestazioni di natura disindividualizzata e, quindi, fungibili.
A ciò si aggiunga che, nel caso di cessione di quote di società, manca comunque un trasferimento, sia pure parziale, dell'immobile locato, che continua ad appartenere alla società, per cui non è neppure ipotizzabile l'esercizio della prelazione in difetto dell'alienazione del bene e diventa del tutto impossibile l'eventuale retratto, che non può rivolgersi nei confronti del socio cessionario delle quote, cui non si è trasferita la proprietà dell'immobile, né può essere diretto nei confronti della società, che non ha mai alienato la proprietà del bene.
La prelazione, invece, sussiste qualora il patrimonio sociale, venutosi a concentrare nelle mani di un unico soggetto attraverso la cessione della totalità delle quote, sia costituito unicamente dall'immobile locato.
La questione circa la sussistenza della prelazione nel caso di cessione ed acquisto della totalità delle quote di una società proprietaria dell'immobile locato può riguardare la sola ipotesi in cui il patrimonio sociale è costituito dall'unico immobile locato e nella quale sono possibili fenomeni di simulazione negoziale diretti ad escludere il diritto del conduttore; nel caso di specie, l'immobile locato non esauriva il patrimonio sociale della società, per cui, costituendo esso solo un'entità non autonoma di un più vasto complesso di beni, anche non omogenei, strutturalmente e funzionalmente coordinati all'esercizio della più complessa attività turistica, e ricreativa nell'universalità dell'azienda commerciale, il diritto di prelazione restava stante che non sussisteva identità tra l'immobile locato ed il bene oggetto dell'acquisto, consistente in un più vasto complesso unitario.
Già in precedenza, i giudici di legittimità (Cass. n. 6256/1983, cit.) avevano sostenuto che non sussiste il diritto di prelazione e di riscatto di cui agli artt. 38 e 39 qualora vengano trasferite quote ideali dell'edificio in cui è ubicato l'immobile locato, attraverso la cessione del pacchetto azionario o di frazione del capitale della società cui appartiene lo stabile, oppure attraverso l'assegnazione ai soci di quote del patrimonio della società in liquidazione, o attraverso la liquidazione della quota in favore del socio recedente.
La cessione integrale del pacchetto azionario, inoltre, è stata ritenuta - da parte di Cass. civ., sez. III, 23 luglio 1998, n. 7209; in argomento, v., più di recente, Cass. civ., sez. III, 29 maggio 2012, n. 8567; Cass. civ., sez. III, 1° dicembre 2011, n. 25703 - non equiparabile al trasferimento della proprietà dell'immobile neppure nel caso di società inoperante da lungo tempo: il fenomeno della cessazione di fatto dell'impresa collettiva, quando rimanga, però, in vita la struttura societaria (c.d. società di comodo), rimane privo di tutela, nell'attuale sistema normativo, sicché va, in ogni caso, negata ai terzi interessati l'azione diretta all'accertamento dell'effettiva cessazione dell'impresa collettiva come pretesa causa di scioglimento della società, quando nulla esclude che l'attività conforme all'oggetto sociale possa riprendere pur dopo un periodo, benché assai protratto, di quiescenza.
In argomento, diversa si presenta, invece, la fattispecie dell'assegnazione dell'immobile locato da parte della società al socio, in caso di recesso o di liquidazione, che è stata esaminata dalla Suprema Corte (Cass. n. 6256/1983), la quale ha negato la sussistenza del diritto di prelazione.
Diverso ancora il caso in cui il locatore effettui il conferimento in proprietà ad una società dell'immobile urbano locato: qui non sussistono - ad avviso di Cass. civ., sez. III, 21 luglio 2000, n. 9592; cui adde, più di recente, Cass. civ., sez. III, 17 luglio 2012, n. 12230; Cass. civ., sez. III, 18 settembre 2008, n. 23856; Cass. civ., sez. III, 29 settembre 2005, n. 19160 - i diritti di prelazione e di riscatto previsti dagli artt. 38 e 39 l. n. 392/1978 in favore del conduttore dell'immobile medesimo, non essendo in tal caso configurabile un “trasferimento a titolo oneroso” ai sensi dell'art. 38, comma 1, citato, atteso che militano in favore della tesi dell'inapplicabilità dei citati artt. 38 e 39, sia la lettera che la ratio di tali norme.
La permuta dell'immobile locato
In un primo tempo, i magistrati del Palazzaccio (Cass. civ., sez. III, 14 gennaio 1988, n. 205) hanno ritenuto che il diritto di prelazione in favore del conduttore di immobili urbani destinati ad uso non abitativo non sussiste nel caso di permuta.
Invero, l'art. 38 l. n. 392/1978, dopo aver premesso al comma 1 che il diritto di prelazione può essere esercitato nell'ipotesi di trasferimento a titolo oneroso dell'immobile locato, al comma 2, nel prescrivere le formalità necessarie per il valido esercizio del diritto, si riferisce esclusivamente alla “compravendita”, termine che trova riscontro nel comma 4, allorché vengono disciplinate le modalità per il versamento del prezzo di acquisto: trattasi di termini di chiaro significato, i quali indicano l'intento di restringere l'àmbito della prelazione, e quindi del correlativo riscatto, alle ipotesi di vendita dell'immobile locato.
Va aggiunto che gli istituti della prelazione e del riscatto costituiscono limitazioni delle facoltà del proprietario, normalmente nel pieno diritto di disporre liberamente dei propri beni, per cui non dovrebbero essere ipotizzabili interpretazioni analogiche od estensive del testo di legge.
In ogni caso, nell'ipotesi di permuta, il conduttore non potrebbe mai offrire condizioni “eguali” a quelle offerte dal terzo permutante, non essendo in grado di offrire il bene da costui dato in cambio, per la semplice ragione che di quel bene egli non è proprietario, e l'art. 38 prescrive, invece, che il conduttore deve offrire condizioni eguali a quelle comunicategli.
Successivamente, gli stessi giudici di legittimità hanno, in parte, modificato il proprio indirizzo, precisando che il diritto di prelazione del conduttore di immobile non abitativo, previsto dall'art. 38, per il caso di trasferimento a titolo oneroso dell'immobile locato, non è estensibile, in difetto di un'espressa previsione normativa, al caso della permuta, ove la controprestazione abbia ad oggetto beni non fungibili (Cass. civ., sez. III, 17 luglio 2012, n. 12230; Cass. civ., sez. III, 30 luglio 2007, n. 16853; Cass. civ., sez. III, 22 giugno 2006, n. 14455; Cass. civ., sez. III, 6 maggio 2003, n. 6867; Cass. civ., sez. III, 16 maggio 1991, n. 5519).
Se si ha riguardo alla formulazione letterale delle disposizioni contenute nell'art. 38, il trasferimento dipendente da permuta non potrebbe essere escluso dall'ambito di applicazione della legge, e ciò sia perché, nel comma 1, si parla di trasferimento a titolo oneroso e tale è anche quello attuato attraverso il contratto di permuta, sia perché, nel comma 2, da un lato, è disposto che nella comunicazione va indicato un corrispettivo da quantificare in ogni caso in danaro, e, dall'altro, perché il corrispettivo, che dovrà prima essere offerto (comma 3) e poi pagato come prezzo dal conduttore (comma 4), dovrà essere espresso anch'esso in danaro, facendo menzione delle condizioni alle quali la compravendita dovrebbe essere conclusa, e tali condizioni sono da riferire non al trasferimento progettato dal locatore, ma alla compravendita che il conduttore dovrà concludere con il locatore ove scelga di avvalersi del diritto di prelazione.
Va, tuttavia, osservato che, quante volte il locatore progetti un trasferimento a titolo oneroso dell'immobile locato attraverso un negozio di permuta, l'intento pratico che egli intende conseguire è rappresentato dall'acquisto di un altro determinato bene; considerare operante in questo caso il diritto di prelazione non significa soltanto scontare la normale irrilevanza, in rapporto all'interesse dell'alienante, delle qualità soggettive dell'obbligato a corrispondere la prestazione fungibile costituita da un prezzo, ma, da un lato, sostituire all'equilibrio tra le prestazioni affidato alla valutazione delle parti un equilibrio basato su una determinazione giudiziale dell'equivalente economico del bene ceduto, e, dall'altro, sostituire una causa ad un'altra, così costringendo il proprietario del bene a realizzare un intento diverso da quello in funzione del quale egli si è determinato a progettare il trasferimento del proprio bene.
La Suprema Corte è, comunque, dell'avviso che una siffatta più radicale compromissione dell'autonomia privata avrebbe richiesto un'esplicita formulazione da parte della legge; d'altronde, è possibile attribuire alla disposizione contenuta nel comma 2 dell'art. 38 - nella comunicazione devono essere indicati il corrispettivo da quantificare in ogni caso in denaro - la portata di norma intesa a circoscrivere l'estraneità della permuta al meccanismo della prelazione, in modo da ricomprendervi i casi di controprestazione avente ad oggetto beni fungibili.
In conclusione
Per completezza, va accennato alle ipotesi di dubbia compatibilità, in ordine alle quali i giudici di legittimità non hanno offerto una risposta definitiva.
Ad esempio, non risulta essersi mai posto, riguardo alla prelazione urbana, il problema della sua sussistenza in caso di donazione, risolto in senso negativo con riferimento alla diversa ipotesi di prelazione legale prevista dall'art. 732 c.c., e stessa soluzione dovrebbe essere qui data, solo che si consideri che l'art. 38 l. n. 392/1978 si riferisce al trasferimento dell'immobile locato “a titolo oneroso”.
Trattasi di un ulteriore riflesso del principio di parità delle condizioni rappresentato dalla necessaria onerosità del negozio di trasferimento, atteso che, nella donazione, l'essenziale intento liberale viene considerato anche nella libera scelta da parte del donante del destinatario dell'attribuzione: se il conduttore avesse facoltà di incidere anche sull'alienazione a titolo gratuito, ne risulterebbe irrimediabilmente vanificato l'interesse non patrimoniale del disponente.
Suscita dubbi, invece, il caso del negotium mixtum cum donatione, non apparendo sufficiente affermarne la natura prevalentemente onerosa, ma dovendosi aver riguardo al criterio della prevalenza causale.
Secondo alcuni, tale soluzione manca di qualsiasi supporto normativo, mentre l'esclusione della prelazione in caso di negotium mixtum cum donatione deriva, comunque, dalla rilevanza - quale che sia la configurazione che voglia darsi a un negozio - dell'intuitus personae.
Al riguardo, potrebbe sostenersi che, in tale atto, ricorra pur sempre lo schema causale astratto di un contratto di alienazione a titolo oneroso, relegando in secondo piano la finalità ulteriore di arricchimento, ricollegabile alla consapevole pattuizione di un corrispettivo inadeguato alla controprestazione, così legittimando l'esercizio della prelazione urbana, anche se il concorrente animus donandi imporrebbe al conduttore il pagamento di un prezzo proporzionale al valore reale del bene, ma, in tal modo, la diversa finalità delle parti si rivelerebbe inidonea a trasformare la qualificazione giuridica del negozio, ed idonea, invece, a modificare la disciplina tipica di determinazione del prezzo ai sensi dell'art. 38.
Anche la donazione renumeratoria di cui all'art. 770 c.c. appare incompatibile con la prelazione urbana, atteso che, pur se l'attribuzione patrimoniale sia motivata da riconoscenza o apprezzamento di meriti correlati alla precedente condotta del donatario, essa non risulta quale parziale corrispettivo del servizio reso ma, quale atto spontaneo, perseguirebbe un mero scopo di liberalità.
Analoghe considerazioni potrebbero farsi per il contratto avente ad oggetto la cessione di un immobile in corrispettivo di prestazioni alimentari ed assistenziali (c.d. contratto di mantenimento o di vitalizio alimentare), che si configura come un contratto innominato e atipico che, pur avendo affinità con la costituzione della rendita vitalizia, se ne differenzia per il contenuto non meramente patrimoniale delle prestazioni dell'obbligato, per l'elemento di fiduciarietà che informa la scelta di tale soggetto e per l'incertezza derivante dalla variabilità e discontinuità delle prestazioni in rapporto allo stato di bisogno del beneficiario; al riguardo, si è, infatti, affermato (Cass. civ., sez. III, 14 giugno 1982, n. 3625) che, riguardo a tale negozio, pur se oneroso ed a prestazioni corrispettive, non è consentito l'esercizio da parte dell'affittuario del fondo agrario, che ne sia oggetto, dei diritti di prelazione e di riscatto previsti dall'art. 8 l. n. 590/1965; e mutuando le considerazioni in tema di prelazione agraria, potrebbe sostenersi che l'acquisizione del bene, da parte del conduttore in sede di prelazione, vanificherebbe l'intuitus personae, essenziale nella scelta fiduciaria dell'obbligato operata del cedente, senza considerare le complicazioni inerenti alla determinazione del corrispettivo in denaro, da indicare nella comunicazione di cui all'art. 38, comma 2, surrogandolo alle prestazioni alimentari ed assistenziali promesse per tutta la durata della vita ed in correlazione ai mutevoli bisogni del cedente.
Nella stessa ottica, dovrebbero rimanere intangibili dal potere di prelazione del conduttore, per un verso, la clausola dell'accordo di separazione che operi il trasferimento a favore di un coniuge, al fine di assicurarne il mantenimento, della proprietà di un bene immobile oggetto di locazione, e, per altro verso, l'atto con cui il coniuge, il quale abbia assunto, in sede di separazione consensuale, l'obbligo di provvedere al mantenimento del figlio, dichiari, poi, di trasferire a quest'ultimo il ben immobile locato a terzi.
Relativamente alla vendita con patto di riscatto, la magistratura di vertice (Cass. civ., sez. III, 21 luglio 1989, n. 3434) ha implicitamente ammesso la sua compatibilità con il sorgere del diritto di prelazione osservando che, nella prelazione urbana di cui all'artt. 38 e 39, ove, in presenza di una comunicazione da parte del locatore di tutte le condizioni di vendita dell'immobile locato, il conduttore non eserciti il diritto di prelazione, lo stesso non può essere ammesso ad esercitare il diritto di riscatto, una volta che, seguita la vendita al terzo alle condizioni comunicate, tra cui quella del patto di riscatto a favore del venditore, questi, in prosieguo, rinunci al suo esercizio, non comportando tale evento, che incide soltanto sul successivo rapporto derivante dal contratto di vendita, ma non su questo, né sul suo effetto reale, il risorgere del diritto di prelazione, definitivamente precluso per effetto del suo mancato esercizio.
Neppure risulta che la Suprema Corte si sia mai pronunciata sulla questione se dia luogo a prelazione la datio in solutum, questione da risolversi in senso negativo sul fondante rilievo che essa ha per scopo il solvere, l'estinzione, cioè, di una precedente obbligazione, risultato che non si otterrebbe qualora, riconoscendo il diritto di prelazione, il trasferimento dovesse avvenire in favore di un soggetto diverso dal creditore.
Sembra, infine, da escludere il sorgere della prelazione in caso che il trasferimento dell'immobile locato avvenga nel quadro di un accordo transattivo (riguardo alla prelazione agraria, v. Cass. civ., sez. III, 29 maggio 1984, n. 3283); peraltro, nel contesto dell'art. 38, la locuzione “prezzo” è adoperata nel significato tipico di corrispettivo per l'alienazione dell'immobile locato, e non secondo quello, più generale, di “valore” della medesima cosa, per cui il trasferimento dell'immobile, effettuato nell'ottica di una regolamentazione transattiva, per quanto naturalmente oneroso, non dovrebbe rientrare nel novero privilegiato delle fattispecie negoziali di cambio di cosa contro prezzo, contemplate nella locazione urbana.
Riferimenti
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Carrato, Scarpa, Le locazioni nella pratica del contratto e del processo, Milano, 2015, 297;
Grasselli, Masoni, Le locazioni, I, Milano, 2013, 864;
Baralis, Concorso e conflitti di prelazione, in Riv. notar., 2011, 1301;
Triola, La prelazione legale, Milano, 2003, 200;
Gabrielli, Padovini, La locazione di immobili urbani, Padova, 2001, 386;
Catelani, Manuale della locazione, Milano, 2001, 571;
Carusi, Avviamento, proprietà e locazione, Milano, 1992, 202;
Terzago, Molinari, Diritto di prelazione e riscatto, Milano, 1990, 95;
Bucci, Malpica, Redivo, Manuale delle locazioni, Padova, 1989, 539;
Benedetti, Moscarini, Prelazione e retratto, Milano, 1988, 305;
Caputo, Il diritto di prelazione nella nuova disciplina delle locazioni urbane, Padova, 1988, 82;
Cosentino, Vitucci, Le locazioni dopo le riforme del 1978-1985, Torino, 1986, 485.
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