Diritto alla “pausa” e danno da “usura psico-fisica”: la ripartizione dell’onere probatorio

10 Luglio 2024

Con l'ordinanza in commento, la Corte di Cassazione è chiamata a occuparsi dell'azione risarcitoria per violazione del diritto alla “pausa”, così come disciplinato dallo specifico C.C.N.L. applicato al rapporto di lavoro. In particolare, accogliendo il ricorso del lavoratore per errata ripartizione degli oneri probatori, il Supremo Collegio ha modo di precisare che se, da un lato, spetta al medesimo la dimostrazione di aver svolto una prestazione, giornaliera, eccedente le 6 ore consecutive, dall'altro, graverà, invece, sul datore di lavoro, l'onere di provare il godimento dei riposi compensativi, nei termini prescritti dal C.C.N.L., integrando detta fruizione un fatto estintivo, con allegazione e prova che incombe su chi l'eccepisca.

La massima

L'onere di allegazione e prova del lavoratore del fatto costitutivo del proprio diritto alla pausa o, in mancanza, al riposo compensativo, investe la prestazione di un'attività eccedente nell'orario giornaliero il limite di 6 ore consecutive, senza aver mai goduto della pausa di dieci minuti retribuita. Di contro, grava sul datore di lavoro la dimostrazione del godimento dei riposi compensativi, di pari durata e da godere nei trenta giorni successivi, disciplinati dal C.C.N.L., integrando detta fruizione un fatto estintivo, il cui onere di allegazione e prova incombe su chi l'eccepisca.

Il caso

La vicenda nel merito

Con l'ordinanza del 2 aprile 2024, n. 8626, la Corte di Cassazione è chiamata a occuparsi di una controversia inerente il diritto alla “pausa” ossia una di quelle «prescrizioni minime destinate a migliorare le condizioni di vita e di lavoro dei lavoratori» (C. Giust. 9 marzo 2021, causa C-344/19, p. 25) previste dall'Unione Europea, attraverso l'art. 4 Direttiva 2003/88/CE, oggi recepito e disciplinato dall'ordinamento interno all'art. 8 d.lgs. 8 aprile 2003, n. 66.

In brevis, per quanto emergente in pronuncia, due lavoratori ricorrevano in giudizio al fine di ottenere un ristoro, di natura retributiva, per il mancato godimento dei dieci minuti ex lege prescritti in caso di prestazione lavorativa eccedente le 6 ore.

Nel confermare il rigetto della domanda, oltre a riqualificare in “compensativa” (recte risarcitoria “non patrimoniale”; v. meglio infra) la natura delle somme pretese, la Corte d'Appello di Napoli riteneva assorbente il fatto che i ricorrenti non avessero anche «allegato la mancata fruizione del riposo compensativo contrattualmente previsto, come sarebbe spettato loro provare», essendo che, sul presupposto delle deroghe ammesse dall'art. 17 d.lgs. n. 66/2003, l'art. 74 del C.C.N.L Vigilanza privata del 2 maggio 2006 - applicato ai rapporti sub iudice - così espressamente disponeva: qualora «non sia possibile il godimento della pausa durante il turno di lavoro, […] al lavoratore dovranno essere concessi riposi compensativi di pari durata, da godersi entro i trenta giorni successivi».

La Cassazione sull'onere della prova

Per quel che rileva, uno dei soccombenti ricorreva in Cassazione dolendosi di un'errata ripartizione dell'oneri probatori da parte del Collegio territoriale, avendo il medesimo addossato sul lavoratore, anziché sul datore di lavoro, l'onere di provare anche il mancato godimento, nei termini contrattualmente indicati, del riposo compensativo.

In accoglimento del motivo di reclamo, la Suprema Corte, una volta evidenziato il pieno assolvimento, da parte del ricorrente, mediante accertamento in giudizio, «di non aver mai usufruito di tali pause e che la [Società] non ha mai individuato le modalità, in relazione alla tipologia del servizio, per consentire ai lavoratori il godimento di tali pause», riteneva invece a carico della società la dimostrazione dell'avvenuta “compensazione”.

Invero, per i giudici di legittimità, se la prova della prestazione eccedente le 6 ore era da inquadrarsi quale fatto costitutivo del diritto preteso dal ricorrente, di contro, in ragione del potere organizzativo e direttivo (artt. 2086 e 2104 c.c.) ascritto al datore di lavoro, anche in ottica di “garanzia” dell'integrità psico-fisica del dipendente (art. 2087 c.c.), il mancato godimento dei riposi compensativi integrava invece un fatto estintivo, il cui onere di allegazione e prova, di conseguenza, non poteva che incombere su di chi intendesse eccepirlo.

La questione

Il danno da “usura psico-fisica”: le origini

Può, dunque, dirsi che, con l'ordinanza in commento, pur senza nominarlo espressamente, la Corte di Cassazione vada ad arricchire l'ormai risalente formante giurisprudenziale in tema di c.d. danno da “usura psico-fisica” (per un'ulteriore ricostruzione v. D. Tambasco, Il danno da superlavoro e da usura psico-fisica nella giurisprudenza, in IUS Lavoro , 9 giugno 2022, fattispecie nata ed evoluta per “diritto vivente”, tanto in termini di “nozione”, quanto in termini di oneri della prova.

Per vero, in un primo momento, muovendo dal dettato costituzionale e, segnatamente, dal necessario riposo settimanale di cui al comma 3 art. 36 Cost., le Sezioni Unite si erano occupate di smarcare dall'esigenza retributiva «per l'ulteriore penosità del lavoro svolto di domenica per l'esclusione che esso comporta dalla partecipazione alle iniziative di utilizzazione del tempo libero organizzate nella collettività nonché alle tipiche forme di vita familiare», coperta attraverso le maggiorazioni individuate dall'autonomia collettiva, dalla differente questione inerente il «sacrificio del mancato riposo settimanale e l'usura psico-fisica che esso comporta, che costituisce titolo autonomo di specifico risarcimento» (Cass., sez. un. 3 aprile 1989, n. 1607).

Dunque, quest'ultima, un'azione risarcitoria indipendente, di natura “non retributiva” (Ex plurimis, Cass. 1° dicembre 2016, n. 24563) e volta a compensare la perdita definitiva del riposo settimanale (Cfr. Cass. 29 dicembre 2021, n. 41889), anche se, dal punto di vista probatorio, almeno inizialmente, tutt'altro che agevole da dimostrate.

Infatti, assumendo una tendenziale “non risarcibilità” per «attività lavorative comportanti per il lavoratore meri disagi fisici o psichici, perché espletate in giorni festivi o oltre il monte-ore settimanale massimo previsto contrattualmente a per legge» (Cass. 5 febbraio 2000, n. 1307), il Supremo Collegio non mancava di ribadire, con orientamento del tutto maggioritario, l'occorrenza per il prestatore subordinato di «allegare e provare il pregiudizio del suo diritto fondamentale, nei suoi caratteri naturalistici e nella sua dipendenza causale dalla violazione dei diritti patrimoniali di cui all'articolo 36 Cost., potendo assumere adeguata rilevanza, nell'ambito specifico di detta prova [anche] il consenso del lavoratore a rendere la prestazione nel giorno di riposo ed anzi la sua richiesta di prestare attività lavorativa proprio in tale giorno» (Cass. 23 maggio 2014, n. 11581).

Questo perché, ad avviso della Corte di legittimità, opinare diversamente sarebbe equivalso a «a sanzionare la “condotta a prescindere dall'effettività di una lesione in nesso causale con la medesima”» (Cass. 28 marzo 2017, n. 7921), mentre, come detto, «il lavoratore è tenuto ad allegare e provare il tipo di danno specificamente sofferto ed il nesso eziologico con l'inadempimento datoriale, non discendendo automaticamente tale danno dalla violazione del dovere datoriale e richiedendo il danno non patrimoniale una specificazione degli elementi necessari per la sua configurazione (Cass. 10 febbraio 2014, n. 2886).

Le soluzioni giuridiche

Il danno “presunto”

Più di recente invece, a consolidarsi sembra essere un opposto orientamento, il quale, facendo leva sull'ulteriore distinzione fra “usura psico-fisca” e danno c.d. “biologico” - i.e. il pregiudizio concretizzato, a causa del mancato riposo, in una vera e propria infermità del lavoratore  -, ritiene il primo presunto nell'an (Cass. 4 marzo 2000, n. 2455) o, comunque, dimostrabile per mezzo di un'agevole prova presuntiva, talvolta semplicemente fondata sulla lunghezza dei periodi nei quali si è registrato l'inadempimento datoriale (Cfr. Cass. 9 maggio 2023, n. 12249).

Invero, fatta salva la determinazione del quantum in via sostanzialmente equitativa (art. 1226 c.c.), mediante ricorso a maggiorazioni o compensi previsti dalla contrattazione collettiva ovvero individuale (Cfr. Cass. 13 settembre 2016, n. 17966), secondo i giudici di legittimità una siffatta “soluzione” troverebbe fondamento «in considerazione della circostanza che nella fattispecie l'interesse del lavoratore leso dall'inadempimento datoriale ha una diretta copertura costituzionale nell'articolo 36 Cost., sicche' la lesione dell'interesse espone direttamente il datore al risarcimento del danno non patrimoniale (a differenza di quanto avviene in altre diverse fattispecie -per le quali siffatta copertura non sussiste […]» (Cass. 10 agosto 2015, n. 16665).

Dall'art. 36 Cost. al d.lgs. n. 66/2003.

Ma il fremito giurisprudenziale sul danno da “usura psico-fisica”, sin qui, in sintesi, ripercorso, ha pure fatto sì che, da ultimo, le già accennate deduzioni inizialmente sviluppate sul presupposto della copertura costituzionale del comma 3 art. 36 Cost., trascendessero le fattispecie, ivi espresse, del riposo settimanale e delle ferie, risultando chiaro, secondo il Supremo Collegio, che analogo ragionamento «non può non valere per gli ulteriori limiti massimi desumibili dal Decreto Legislativo n. 66/2003 o dalla relativa direttiva eurounitaria, in sé o per quanto previsto dalla contrattazione collettiva cui essi facciano rinvio» (Cass. 5 agosto 2020, n. 16711).

In sostanza, facendo perno sull'ennesima partizione giuridica, i convincimenti della Corte di Cassazione sembrano infine essersi attestati in questo senso: «mentre il danno derivante dal carattere gravoso o usurante della prestazione, quando sia allegata e provata la violazione sistematica di norme specifiche sui limiti massimi dell'orario o la violazione di norme sui riposi, è da ritenere “in re ipsa”, nel caso in cui viceversa tali norme non siano applicabili o manchino, chi agisce per ottenere il risarcimento è tenuto ad allegare e provare che le prestazioni, per le irragionevoli condizioni temporali, in una eventualmente al contesto in cui si sono svolte, sono state in concreto lesive della personalità morale del lavoratore” (Cass. 5 aprile 2024, n. 9126); con ciò, implicitamente, richiamando la differente categoria del danno da c.d. “superlavoro” ossia per quelle compromissioni dell'integrità psico-fisica dei lavoratori che prescindono, in luce dell'art. 2087 c.c., dall'esistenza, così come dal superamento, di tipizzate limitazioni temporali (Cfr. Cass., sez., un. 1° settembre 1997, n. 8267).

Osservazioni

Note a chiusura

Cosicché, nel solco di tale orientamento, alla nutrita giurisprudenza sul danno da “usura psico-fisca” dipendente dalla violazione del riposo settimanale (v. giurisprudenza supra cit.), del diritto alle ferie (Trib. Milano 8 agosto 2022) ovvero delle limitazioni per lavoro “straordinario” (Cass. 29 settembre 2021, n. 26450), l'ordinanza in commento aggiunge il mancato rispetto delle prescrizioni in tema di “pausa”, avendo peraltro il merito di porre all'evidenza il profilo, tutt'altro che trascurabile, dell'onere probatorio.

Da una parte, posto che gli elementi costitutivi della fattispecie - i.e. il diritto alla “pausa” - sono rappresentati da una prestazione lavorativa eccedente le 6 ore (v. art. 4 Direttiva 2003/88/CE e art. 8 d.lgs. n. 66/2003), mantenendo sul lavoratore l'incombenza di dimostrare l'effettività della stessa, dall'altra, assumendo le compensazioni disciplinate dalla contrattazione collettiva quali ipotesi derogatorie e, dunque, alla stregua di un fatto “estintivo/impeditivo”, riversando sul datore di lavoro l'onere di provare, così come ex lege previsto, di aver accordato «periodi equivalenti di riposo compensativo» (v. art. 18 Direttiva 2003/88/CE e art. 17 d.lgs. n. 66/2003).

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