Il contratto di lavoro a tempo determinato: quale evoluzione per le causali?

31 Luglio 2024

Il contratto di lavoro a tempo determinato in Italia ha conosciuto all'interno del nostro ordinamento giuridico numerosi interventi legislativi volti a bilanciare la flessibilità per le imprese con la tutela dei lavoratori. Originariamente regolato dall'art. 2097 del codice civile del 1942, prevedeva che, salvo accordo scritto sulla specialità del rapporto a termine, i contratti si considerassero a tempo indeterminato. La legge n. 230/1962 limitava l'uso dei contratti a termine a casi specifici. Il d.lgs. n. 368/2001, in attuazione della Direttiva 1999/70/CE, introdusse motivazioni tecniche, produttive, organizzative o sostitutive. La legge n. 92/2012 e successivamente il d.l.. n. 34/2014, conv. in l. n. 78/2014) hanno contribuito a semplificare la normativa, eliminando il vincolo delle causali giustificative. Il Jobs Act (d.lgs. n. 81/2015), infine, ha introdotto limiti numerici e di durata mentre con il Decreto Dignità (2018) si è voluto reintrodurre il vincolo causale per i contratti di durata oltre i 12 mesi, mentre l'ultimo Decreto Lavoro (2023) ha allentato queste restrizioni ma ha reintrodotto nell'ordinamento giuridico una delega a favore della contrattazione collettiva.

Causali del termine: capire il passato per interpretare meglio il presente

Capire l'evoluzione normativa che si è registrata all'interno del nostro ordinamento giuridico in materia di contratto a tempo determinato aiuta a valutare meglio le novità degli ultimi anni e, soprattutto, la volontà del legislatore di riaprire al meccanismo della delega a favore della contrattazione collettiva in una materia che vive proprio delle necessità e delle peculiarità dei diversi settori. Delega che è oggi contenuta nell'art. 19, c. 1 lett. b) del d.lgs. n. 81/2015 (ma anche ricompresa nelle previsioni della lettera a) e che, si configura come la concreta possibilità di definire (o ri-definire in sede di rinnovo) e per le durate superiori ai 12 mesi, quelle causali che più si avvicinano alle reali esigenze di flessibilità dei diversi settori. Considerato peraltro che la possibilità del ricorso alle esigenze individuate tra le parti – sempre prevista dalla citata lett. b) - ha vita breve, vista la scadenza del 31 dicembre 2024. La contrattazione collettiva, tuttavia, stando alle previsioni che si sono susseguite fino ad oggi in sede di rinnovo (l'ultimo il CCNL del settore Terziario con l'intesa del 5 luglio 2024) a parte alcuni esempi positivi quali il CCNL Studi professionali e Alimentari Industria, non pare aver pienamente colto in alcuni settori l'importanza di questo obiettivo, oppure ha preferito non coglierlo lasciando alla contrattazione di livello aziendale – ma evidentemente a favore delle aziende di più grande dimensione largamente sindacalizzate - la valutazione di questa opportunità. Ma vediamo con quale evoluzione siamo arrivati all'attuale disciplina delle causali del contratto a tempo determinato.

L'evoluzione normativa a partire dal codice civile

Il contratto di lavoro a tempo determinato è stato ab origine disciplinato dall'art. 2097 c.c., il quale stabiliva che “Il contratto di lavoro si reputa a tempo indeterminato, se il termine non risulta dalla specialità del rapporto o da atto scritto.

In quest'ultimo caso l'apposizione del termine è priva di effetto, se è fatta per eludere le disposizioni che riguardano il contratto a tempo indeterminato.

Se la prestazione di lavoro continua dopo la scadenza del termine e non risulta una contraria volontà delle parti, il contratto si considera a tempo indeterminato.

Salvo diversa disposizione delle norme corporative se il contratto di lavoro è stato stipulato per una durata superiore a cinque anni, o a dieci se si tratta di dirigenti, il prestatore di lavoro può recedere da esso trascorso il quinquennio o il decennio, osservata la disposizione dell'articolo 2118".

Come possiamo vedere, nel Codice del 1942 l'articolo 2097 c.c. prevedeva – con formulazione analoga a quella che è comunque rimasta anche oggi nella disciplina di riferimento - che il contratto di lavoro fosse considerato (prioritariamente) a tempo indeterminato. Ciò salvo diversa indicazione specificata in forma scritta per i contratti a tempo determinato. La normativa stabiliva chiaramente che il termine temporale applicato al contratto di lavoro, se concordato con l'intento di eludere le disposizioni relative ai contratti a tempo indeterminato, sarebbe stato considerato inefficace. Inoltre, se il rapporto di lavoro fosse proseguito oltre la scadenza del termine stabilito, il contratto si sarebbe trasformato automaticamente in un contratto a tempo indeterminato, a meno che le parti non avessero espresso una volontà contraria.

Questa impostazione, che confinava il contratto a termine a una forma eccezionale di contratto di lavoro subordinato, ha poi trovato la sua piena espressione nella legge n. 230/1962. Tale legge permetteva l'apposizione di un termine alla durata del contratto di lavoro solo nei casi specificamente indicati all'art. 1. Questo contesto normativo intendeva limitare l'uso dei contratti a tempo determinato, riservandoli a situazioni particolari, delineate con precisione per evitare abusi e garantire una maggiore stabilità lavorativa.

L'articolo 1 della Legge n. 230/1962 elencava infatti le ipotesi in cui era possibile stipulare un contratto a tempo determinato, come la sostituzione temporanea di lavoratori assenti, l'incremento temporaneo dell'attività produttiva e altre circostanze specifiche. Questo quadro legislativo rifletteva un approccio rigoroso alla regolamentazione del lavoro subordinato a tempo determinato, promuovendo la sicurezza e la continuità del rapporto di lavoro a tempo indeterminato come norma generale. (G. Di Corrado, il contratto a tempo determinato tra causalità e acausalità, in Arg. dir. lav., n. 1, 1° gennaio 2014, p. 119).

Nell'evoluzione normativa di tale disciplina un posto determinante compete sicuramente

alla legge n. 56/1987, il cui art. 23, comma 1, ha delegificato la materia, attribuendo ai contratti collettivi stipulati con i sindacati nazionali o locali aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative la possibilità di individuare ulteriori ipotesi di ammissibilità del termine, con il solo limite dell'indicazione della percentuale ammessa di lavoratori a termine rispetto a quelli impegnati a tempo indeterminato. Tale previsione si configurava come una sorta di delega in bianco a favore della contrattazione collettiva (Cass., sez. VI – lav., ord., 22 giugno 2012, n. 10468). Le Organizzazioni Sindacali, infatti, non risultavano essere vincolate alla individuazione di ipotesi comunque omologhe a quelle previste dalla legge, finendo per operare sullo stesso piano della disciplina generale prevista dalla legge in questa materia inserendosi pertanto con le previsioni (a volte più specifica) della contrattazione collettiva dei diversi settori nel sistema da questa delineato.

In tale quadro normativo si inserisce poi la Dir. n. 1999/70/CE, di cui il d.lgs. n. 368/2001 ha costituito – seppure a grande distanza - attuazione.

Il recepimento della Direttiva 1999/70/CE

Il d.lgs. n. 368/2001 ha rappresentato il nuovo impianto regolativo del contratto a termine sino all'entrata in vigore del d.lgs. n. 81/2015 (c.d. Jobs Act). Il Decreto aveva infatti innovato significativamente la regolamentazione rigida riguardante l'apposizione di un termine nei contratti di lavoro subordinato, sostituendo l'elenco tassativo delle “ragioni oggettive” con una formulazione più aperta. Sulla base di tale disciplina risultava consentito apporre un termine alla durata del contratto per ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo, da dover specificare per iscritto (articolo 1, commi 1 e 2). Questa modifica ha segnato il passaggio dalle “causali” specifiche a quello che da taluno è stato definito il “causalone” (spesso usato impropriamente nella sua formulazione generica e perciò spesso contestato in sede giudiziaria proprio in ragione di tale sua ampiezza). Contestualmente, sono state introdotte delle esclusioni per determinati tipi di contratto (ad esempio per i contratti di formazione e lavoro o di apprendistato), nonché preclusioni e divieti in presenza di specifiche situazioni (come gli scioperi o le riduzioni del personale effettuate nei 6 mesi precedenti l'assunzione)

Sebbene non fosse esplicitamente indicato che, in assenza di tali “ragioni oggettive”, il contratto dovesse considerarsi a tempo indeterminato, ciò era deducibile dall'intero impianto normativo (anche tenendo conto dei principi contenuti nella Direttiva 1999/70/CE, come espresso a più riprese sia dalla dottrina sia dalla giurisprudenza (in dottrina V.A. Vallebona, I contratti di lavoro, 2009, 985; in giurisprudenza ex plurimisCass., sez. lav. 21 maggio 2008, n. 12985; ma anche in tempi più recenti sull'applicazione delle disposizioni dell'art. 1 del d.lgs. n. 368/2001 v. Cass., sez. lav., 7 novembre 2023, n. 30939; Cass., sez. lav., 20 novembre 2023, n. 32087).

Inoltre, anche se non era previsto un termine massimo di durata generale, per la proroga si stabiliva che potesse essere effettuata, con il consenso del lavoratore, solo per una volta e a condizione che si riferisse alla stessa attività lavorativa, nonché solo se la durata iniziale del contratto fosse stata limitata entro i tre anni, prevedendo un limite complessivo di durata – comprensivo della proroga – pari appunto ad un massimo di 36 mesi. L'innovazione più significativa riguardava la condizione per la proroga, che doveva basarsi non più su esigenze contingenti e imprevedibili, ma su “ragioni oggettive”, coerentemente con l'introduzione di quella più ampia causale che caratterizzava l'impianto del d.lgs. n. 368/2001.

La dottrina si è interrogata se il decreto legislativo n. 368/2001 avesse eliminato la natura eccezionale del contratto a termine rispetto a quello a tempo indeterminato, entrando di fatto in contrasto con la direttiva 1999/70/CE che ne ribadiva la centralità. La giurisprudenza ha adottato in questo ambito un orientamento restrittivo, richiedendo che il riferimento alle ragioni “tecniche, organizzative e produttive” richiedesse comunque la temporaneità o addirittura l'eccezionalità e imprevedibilità della ragione che aveva dato luogo all'assunzione a termine, con il rischio peraltro di entrare nel merito di insindacabili valutazioni aziendali relative alla gestione della forza lavoro (sul punto: F. Carinci, Jobs Act, atto I: la legge n. 78/2014 fra passato e futuro, in Dir. lav. e relaz. ind.).

Le modifiche successive: un più marcato richiamo alla centralità del contratto a tempo indeterminato

Nel corso degli anni il d.lgs. n. 368/2001 è stato oggetto di numerosi interventi legislativi di modifica. Tra i più rilevanti vi è sicuramente la l. n. 247/2007 che, per limitare l'utilizzo di tale tipologia contrattuale, ha stabilito che “il contratto di lavoro subordinato è stipulato di regola a tempo indeterminato” (comma 01 dell'art. 1 d.lgs. n. 368/2001), riportando nell'ordinamento la centralità del contratto a tempo indeterminato e limitando peraltro – con la modifica all'art. 5 d.lgs. n. 368/2001, c. 4-bis e 4-ter – la possibilità della successione di più contratti a tempo determinato tra le stesse parti e per lo svolgimento delle stesse mansioni (entro l'indicato limite massimo dei 36 mesi cui si aggiungeva l'ipotesi della stipula di un ulteriore contratto a termine mediante contratto stipulato innanzi alla Direzione Provinciale del Lavoro e sulla base della durata stabilita dagli avvisi comuni stipulati dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale).

In direzione diversa si è mosso il legislatore del 2008, il quale ha cercato di ampliare l'utilizzo del contratto a termine per favorire le esigenze imprenditoriali di flessibilità, ammettendo la stipula di tale contratto anche per ragioni “riferibili alla ordinaria attività del datore di lavoro” (l. n. 133/2008).

L'apertura alla a-causalità

Successivamente il co. 1 dell'art. 1, d.lgs. n. 368, è stato novellato dalla l. n. 92/2012, la quale ha sostituito l'espressione “il contratto di lavoro subordinato è stipulato di regola a tempo indeterminato” con “Il contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato costituisce la forma comune di rapporto di lavoro” – formulazione che oggi ricorre come regola generale nell'art. 1 del d.lgs. n. 81/2015 – confermando l'eccezionalità del ricorso all'assunzione a tempo determinato ma consentendo alle parti di stipulare un primo contratto a tempo determinato per un massimo di dodici mesi anche senza dover necessariamente specificare le ragioni tecniche, organizzative, produttive o sostitutive – criterio della a-causalità -.

Su questa linea, è intervenuto il d.l. n. 76/2013, convertito in l. n. 99/2013, che ha conferito all'autonomia collettiva il potere di individuare, senza limiti, ipotesi di assunzioni a termine legittime anche in assenza di ragioni oggettive, ripristinando peraltro le regole originarie sulla necessità del rispetto di specifici intervalli temporali minimi tra un contratto a termine e i successivi (così detto stop and go).

La modifica più significativa è stata apportata però dal d.l. n. 34/2014, convertito in l. n. 74/2014, che ha abolito le causali giustificatrici e introdotto importanti novità sulla durata massima del contratto, sul regime delle proroghe, sui limiti quantitativi e sul numero di contratti stipulabili, nonché sul regime sanzionatorio.

Un anno dopo, il d.lgs. n. 368 è stato abrogato dal d.lgs. n. 81/2015 (emanato in attuazione della delega recante la riforma Jobs ActL. n. 183/2014), successivamente modificato dal cosiddetto Decreto Dignità (d.l. n. 87/2018, convertito in l. n. 96/2018). Questo “passaggio” ha rappresentato una vera rivoluzione del paradigma regolativo del contratto a tempo determinato, dato che la stipulazione non richiedeva più la presenza e la dimostrazione di esigenze oggettive da parte del datore di lavoro, ma solo il rispetto delle quote di contingentamento previste dall'art. 23 e della durata massima stabilita dall'art. 19 (originariamente rimasta entro il limite dei 36 mesi di cui alla disciplina previgente – poi portati a 24 dal Decreto del 2018). Questi limiti numerici compensavano il venir meno dell'obbligo delle ragioni tecniche, organizzative, produttive previste dal vecchio d.lgs. n. 368/2001, determinando la legittimità dell'apposizione del termine al contratto di lavoro in tutti i casi in cui l'esigenza di flessibilità fosse comunque concreta e reale.

Questa scelta legislativa eliminava il controllo sulla flessibilità basato sulla verifica delle esigenze oggettive dell'impresa, e di conseguenza anche il controllo della temporaneità di tali esigenze. Inizialmente, con l'entrata in vigore del d.lgs. n. 368/2001, il dibattito si era infatti concentrato sul significato delle esigenze tecniche, organizzative, produttive e sostitutive e sulla loro differenza rispetto alle esigenze che giustificano l'assunzione con un contratto a tempo indeterminato. La conclusione cui è pervenuta nel tempo la giurisprudenza chiamata a pronunciarsi sull'applicazione di tale disciplina fu che la differenza risiedeva proprio nel requisito della temporaneità delle esigenze legittimanti l'apposizione del termine (sul punto v. anche Corte Cost. n. 214/2009).

Il Jobs Act

Questa interpretazione era considerata l'unica idonea a garantire la conformità della disciplina alla direttiva comunitaria, secondo la quale - propriamente - il contratto a tempo indeterminato è la "forma comune" dei rapporti di lavoro. Il rispetto di limiti numerici e la durata massima rappresentava poi il punto di equilibrio adottato dal d.lgs. n. 81/2015 tra l'abolizione dell'obbligo di specificare le causali e la nuova disciplina contenuta nella riforma Jobs Act.

Il datore di lavoro, infatti, non è più tenuto a dimostrare l'esistenza di esigenze organizzative o produttive di carattere temporaneo. Ragioni che – come noto - hanno prodotto negli anni un copioso contenzioso.

Il risultato è un nuovo modello di flessibilità in cui è il criterio della "a-causalità" a risultare prevalente purché supportato da esigenze che non devono allontanare dalla forma comune di assunzione – a tempo indeterminato – come di fatto era già in base alla originaria disciplina codicistica.

Il limite più rilevante a contenere il ricorso a tale forma di contratto e a limitare di fatto le esigenze di flessibilità del datore di lavoro è costituito dalla percentuale di contingentamento. Una tecnica già prevista dal nostro diritto del lavoro fin dal 1987, ma che con il Jobs Act, combinata con la durata massima e la limitazione delle proroghe, è stata ritenuta sufficiente a garantire la legittimità del contratto a termine.

L'art. 23 del d.lgs. n. 81/2015 stabilisce infatti che salvo diversa disposizione dei contratti collettivi non possono essere assunti lavoratori a tempo determinato in misura superiore al 20% del numero dei lavoratori a tempo indeterminato in forza al 1° gennaio dell'anno di assunzione, con un arrotondamento del decimale all'unità superiore qualora esso sia eguale o superiore a 0,5.

L'originaria previsione dell'art. 1, comma 1 del d.lgs. n. 368/2001 faceva pensare che nella suddetta percentuale rientrassero anche i contratti di somministrazione di lavoro, ma la circolare ministeriale n. 18/2014 ha poi chiarito che questi non dovevano essere computati (mentre è oggi prevista una diversa percentuale, pari al 30% tra lavoratori a termine e lavoratori in missione presso l'utilizzatore in materia di somministrazione di lavoro – come previsto dall'art. 31 c. 2 d.lgs. n. 81/2015), salvo poi di fatto ricredersi con il Decreto Dignità del 2018 e con tutti i successivi interventi normativi e giurisprudenziali che hanno cercato di ridimensionare le oggettive  differenze – previste anche a livello comunitario – tra contratto a tempo determinato e contratto di somministrazione di lavoro a tempo determinato (fondato su un'assunzione a tempo determinato).

In generale, tale normativa ha rappresentato un significativo ampliamento della possibilità di utilizzo del contratto a termine, lasciando alla contrattazione collettiva, anche territoriale o aziendale, il compito di stabilire eventuali limiti.

Questa flessibilità ha reso in alcuni casi superfluo il ricorso all'art. 8 del d.l. n. 138/2011 convertito in l. 148/2011 per derogare alle previsioni di legge (o della contrattazione collettiva) e attraverso gli accordi di prossimità alla quota di contingentamento.

Le limitazioni alla stipulazione del contratto a termine sotto il d.lgs. n. 81/2015 erano originariamente, come anticipato, esclusivamente numeriche, confermando il limite di durata nella misura dei 36 mesi complessivi e la disciplina delle proroghe già prevista nel quadro della precedente disciplina (come risultante dopo le modifiche apportate dal d.l. n. 34/2014).

Il Decreto dignità del 2018

Le regole che successivamente sono state introdotte dal d.l. n. 87/2018 hanno riguardato solo il settore privato e hanno previsto la riduzione dell'ambito di applicazione della libera apposizione del termine a-causale, limitata al primo ed unico rapporto di durata massima di dodici mesi prevedendo, per contro, la reintroduzione dell'obbligo di specificazione delle causali (chiamate “condizioni”), caratterizzate dal requisito della temporaneità, in caso di contratti di durata superiore a 12 mesi (anche per effetto di proroga) e comunque nei casi di rinnovo (anche al di sotto dei 12 mesi). In parallelo, la durata massima del rapporto è passata a 24 mesi (rispetto agli originari 36 mesi), e il numero delle proroghe è stato portato ad un massimo di 4 nell'arco di 24 mesi, prevedendo altresì un aggravio del costo del lavoro con maggiorazione del contributo aggiuntivo che era stato introdotto nel 2012 dalla legge Fornero (art. 2, c. 29 e ss. l. n. 92/2012). Si è inoltre previsto di portare il termine per l'impugnazione stragiudiziale a 180 giorni rispetto alla originaria previsione pari a 120 giorni per assicurare maggiore tutela al lavoratore il cui rapporto sia cessato, in vista di una possibile riassunzione nelle more della scadenza dei termini di impugnazione.

Il Decreto lavoro 2023

In questo scenario è infine intervenuto il Decreto Lavoro 2023 (d.l. n. 48/2023, conv., con modif. in l. n. 85/2023) il quale ha ulteriormente e significativamente modificato il sistema delle “causali” – confermando il coinvolgimento anche dei contratti a termine stipulati a scopo di somministrazione. Con a l. n. 85/2023, che ha convertito il Decreto Lavoro, il contratto di lavoro a tempo determinato resta libero e privo di causale al di sotto dei 12 mesi. In caso di superamento sono invece previste le seguenti causali:

a) quelle previste secondo l'indicazione della casistica individuata dai contratti collettivi (di ogni livello, così come disciplinati dall'art. 51 d.lgs. n. 81/2015 pertanto i contratti collettivi nazionali, territoriali o aziendali stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale e i contratti collettivi aziendali stipulati dalle loro rappresentanze sindacali aziendali ovvero dalla rappresentanza sindacale unitaria);

b) in assenza delle previsioni da parte della contrattazione collettiva per i casi previsti dai contratti collettivi applicati in azienda, e comunque entro il 31 dicembre 2024, per esigenze di natura tecnica, organizzativa o produttiva individuate dalle parti;

b-bis) in sostituzione di altri lavoratori (art. 19, c. 1 d.lgs. n. 81/2015; v. anche la circ. Min. Lav. n. 9/2023).

Queste modifiche sono volte a consentire maggiore flessibilità nei contratti a termine, rispettando comunque le direttive europee per prevenire abusi.

La Legge di conversione ha esteso la possibilità della a-causalità al di sotto dei 12 mesi non solo per le ipotesi di proroga ma anche in caso di rinnovo.

Rispetto alla originaria versione del Decreto le novità apportate in sede di conversione si caratterizzano sotto due diversi profili:

  • il primo è che anche i rinnovi sotto i 12 mesi (dimenticati nella versione inziale del decreto del 2023) beneficiano oggi del regime della a-causalità (così come avveniva già per le proroghe);
  • la seconda è che ai fini del computo del termine di 12 mesi previsto per l'applicazione del nuovo regime delle causali introdotte dal decreto si dovrà tenere conto dei soli contratti stipulati a decorrere dal 5 maggio 2023.

Se la prima delle indicate novità costituisce una importante apertura verso la semplificazione, allineando in pratica il regime delle proroghe e dei rinnovi al di sotto dei 12 mesi (nuovo art. 21, c. 01 d.lgs. n. 81/2015) - mentre prima anche il semplice rinnovo di un contratto financo al di sotto dei 12 mesi necessitava del ricorso alle causali - la seconda novità apre alcuni scenari non particolarmente chiari in termini di chiarezza e trasparenza nella gestione di questa forma di contratto non del tutto superati dai chiarimenti forniti dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, la circolare n. 9 del 9 ottobre 2023. Il Ministero ha infatti specificato che eventuali rapporti di lavoro a termine intercorsi tra le medesime parti in forza di contratti stipulati prima del 5 maggio 2023 (data di entrata in vigore del d.l. n. 48/2023) non avrebbero concorso al raggiungimento del termine di dodici mesi entro il quale sarebbe stato possibile il ricorso al contratto di lavoro a termine a-causale. Cosa che ha di fatto generato un po' di confusione nella gestione dei contratti anteriori e posteriori alla data del 5 maggio 2023.

Soprattutto se si riflette sulla complessiva relazione di quei soggetti che ben avrebbero potuto avere in corso rapporti a tempo determinato alla data del 5 maggio 2023 i quali, se non hanno chiuso definitivamente (o convertito) il rapporto di lavoro, hanno comunque dovuto valutare con molta attenzione un eventuale rinnovo e la sua durata, anche tenendo conto dell'azzeramento del computo a partire dal 5 maggio 2023.

Va inoltre ricordato che – al di là dell'obbligo della causale al superamento del limite di 12 mesi - non è previsto per legge un limite massimo al numero dei rinnovi, a patto che la durata totale dei contratti non superi i 24 mesi.

Oggi la disciplina delle causali del contratto a termine – soprattutto in vista della scadenza del 31 dicembre 2024 – è di fatto un libro aperto per la contrattazione collettiva dei diversi settori per la quale stanno progressivamente intervenendo i diversi rinnovi. Tuttavia, come già anticipato in premessa, non pare che la contrattazione collettiva abbia fino ad ora colto questa opportunità, con il risultato che probabilmente solo le grandi imprese saranno in grado di negoziare le proprie specifiche esigenze di assunzione, mentre alle imprese più piccole che non potranno avvalersi di più specifiche previsioni della contrattazione collettiva di settore, rimarrà solo la limitata possibilità dell'assunzione entro il limite dei 12 mesi. Con il rischio, questa volta davvero, di aumentare la precarietà.

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