Il condominio parziale tra dubbi “esistenziali”, risposte giudiziarie e soluzioni operative
Alberto Celeste
05 Agosto 2024
A fronte del versante dottrinale, che si registra diviso in ordine alla configurabilità, nel nostro ordinamento, del condominio parziale, l'indagine deve spostarsi sulla disciplina codicistica, al fine di evidenziare la volontà del legislatore e verificare se vi sia o meno la possibilità dell'ingresso ex lege di tale istituto, considerando, peraltro, che l'introduzione, nell'àmbito del condominio, di più comunioni, può condurre a dubitare dell'applicabilità nella specie della normativa condominiale o non quella sulla comunione, per pervenire, addirittura, a porre in discussione l'esistenza stessa del condominio, quale ente unitario o non piuttosto formato da più condominii o comunioni parziali. Dunque, l'accento deve essere posto sul fatto se, indipendentemente dalla volontà dei condomini, la legge stessa preveda, crei e dia luogo a condominii parziali, oppure se questi ultimi possano esistere solo e in virtù di appositi negozi, ed ancora se questi trovino o meno ostacolo alla loro attuazione nella disciplina codicistica.
Introduzione. Il quadro normativo
In ordine all'esistenza o meno, nel nostro ordinamento, dell'istituto del c.d. condominio parziale, la dottrina denota un'ampia frattura: si registrano, al riguardo, due scuole di pensiero giuridico.
In parole povere, l'una (quella negativista) fa leva sul fatto della necessarietà dei beni comuni all'esistenza ed alla sicurezza dell'edificio, con la conseguente responsabilità da parte di tutti i condomini di prevenire e rimuovere ogni possibile situazione di pericolo (alla statica, al decoro, ecc.) che possa derivare all'altrui incolumità dall'inefficiente manutenzione dei detti beni, mentre l'altra (quella positivista) concede massimo rilievo al momento “gestionale”, per cui appare possibile che possano trovare utile collocazione una serie di comunioni parziali dovute al fatto che alcuni beni sono utilizzati da un gruppo di condomini, derivandone che, in un condominio, formato da una pluralità di impianti e servizi, ognuno di questi deve essere guardato come comune unicamente a quella parte di condomini cui sono funzionalmente e strutturalmente destinati.
Certo è che non possiamo negare alle parti quell'autonomia negoziale appositamente concessa dalla normativa contrattuale, all'unica condizione rappresentata dalla realizzazione di interessi meritevoli di tutela secondo il nostro ordinamento; da ciò consegue la possibilità della creazione volontaria e, quindi, mediante accordo ad hoc, di condominii parziali, laddove l'accordo costituisce, appunto, quella manifestazione di volontà atta a creare il “titolo contrario” voluto dall'art. 1117 c.c.
Così, se, in un secondo momento, alcuni dei partecipanti al condominio istituiscano ex novo un servizio, allo stesso possono partecipare tutti od alcuni soltanto di essi: dall'incontro delle loro volontà scaturisce il titolo da cui trae origine la comunione parziale, titolo che non può certo confondersi o essere posto alla stessa stregua della destinazione del bene o del servizio; affermare che il concetto di “destinazione strutturale e funzionale” del bene equivale al titolo, significa porre alla base del condominio e quale sua causa giustificatrice la destinazione di determinati beni al servizio di determinati condomini, mentre il condominio esiste, invece, anche se i beni oggetto di servizio comune siano di proprietà di un condomino o di terzi.
La teoria negativista
La teoria negativista evidenzia che il Legislatore non ha riprodotto il disposto dell'art. 5 del r.d. n. 56/1934, secondo cui “la proprietà delle cose indicate nell'articolo precedente può essere comune a tutti o soltanto ad alcuni dei condomini dell'intero edificio”, mentre, pervenendo all'art. 1117 c.c., si è voluto determinare un criterio unico per tutte le cose comuni, innovando alla precedente disciplina; quest'ultima teneva conto di diversi elementi, come natura, destinazione ed uso del bene, laddove il suddetto disposto pone sic et simpliciter i beni elencati tra quelli comuni; viene rafforzato il concetto con le dizioni “uso comune”, “servizi in comune” e “uso e godimento comune”, senza possibilità di introdurvi concetti, quali “collegamento materiale e funzionale”, “destinazione originaria”, o altro, nel senso che si è inteso stabilire, in via tecnica e/o ipotetica, che i beni sono comuni a tutti, senza che si possa fare altri e diversi nessi.
Il dato storico mette in luce, quindi, che il codice civile abbia voluto disciplinare unitariamente le cose che la precedente normativa considerava in maniera separata, al dichiarato fine della “semplificazione della disciplina” per una sua “più agevole applicazione” (come specificato nella Relazione al Re): tale modifica non avrebbe senso se, per stabilire il regime delle cose espressamente individuate, si dovesse guardare ogni volta alla loro destinazione, cioè verificando, caso per caso, se siano o meno al servizio di tutti, mentre esse, invece, per il solo fatto, agevolmente constatabile, di essere entro l'edificio in condominio, sono comuni a tutti in forza della precisa disposizione legislativa.
Sulla stessa lunghezza d'onda, si pongono coloro i quali fondano il loro orientamento, di segno negativo, sui seguenti disposti normativi:
a) l'art. 61 disp. att. c.c., per il quale è consentita la costituzione di condominii separati quando un condominio si possa dividere in parti autonome: una tale previsione sarebbe inutile ove, indipendentemente dalla separazione, la parte dell'edificio, che è munito di scala e servizi propri, avesse già un'autonomia (quale “comunione separata”);
b) l'art. 1123, comma 3, c.c., la cui lettura è più facile alla luce di una tale interpretazione: la previsione della ripartizione delle spese di manutenzione tra i soli condomini ai quali serva la scala, il cortile, ecc. ha significato, infatti, solo se si accetta che, nella normalità dei casi, detti beni (e le relative spese) siano riferibili a tutti i condomini;
c) l'art. 1121 c.c., laddove si escludono le persone che non vi vogliono partecipare, ma nel contempo, una loro successiva partecipazione alla spesa, li rende partecipi ai vantaggi;
d) l'art. 1136 c.c., nel quale il funzionamento dell'assemblea impone la partecipazione di tutti i “partecipanti al condominio”, senza previsione alcuna di maggioranze o partecipazioni ristrette.
Tale tesi poggia, pertanto, il suo presupposto sull'unitarietà del condominio, che è caratterizzata da una collettività di persone proprietarie di unità immobiliari situate in uno stabile, e non invece da più collettività, in relazione all'autonomia delle scale e dei lastrici solari: tutti coloro i quali vivono nella stessa unità edilizia sono interessati alla sorte di “tutte” le parti essenziali dell'immobile, che la legge appunto per questo individua ed assoggetta alla comunione di tutti.
Nel medesimo ordine di concetti, si pongono chi, sostenendo che, a tali assemblee, devono intervenire e votare “tutti” i condomini, in quanto le eventuali innovazioni che si riferiscono a quel settore potrebbero avere effetti riflessi anche sulla loro parte, e, comunque, li hanno sempre rispetto all'intero stabile, in virtù dell'unitarietà funzionale, statica, estetica, amministrativa, ecc. del fabbricato.
Pertanto, nel caso di edificio diviso in più scale ed i condomini di una di esse intendano installarvi un impianto di ascensore, gli altri proprietari di appartamenti serviti dalle altre scale potrebbero opporsi a tale realizzazione se tale intervento arrechi pregiudizio alla statica del fabbricato o comprometta in modo rilevante il decoro architettonico, anche se non lo possono utilizzare per i propri alloggi, né contribuiscono alla sua manutenzione; accedendo a contraria soluzione, sarebbe ipotizzabile una frantumazione dei problemi e degli interventi, ed ogni scala potrebbe scegliere diversa impresa, diverso materiale, ecc.
La teoria positivista
Al contrario, la tesi positivista poggia il suo fondamento sulle seguenti motivazioni: si porta in auge il comma 3 dell'art. 1123 c.c., laddove la limitazione del numero dei partecipanti, obbligati a concorrere nelle spese, rappresenterebbe una conseguenza immediata e coerente della proprietà comune ad alcuni soltanto dei condomini; si aggiunge, poi, il disposto dell'art. 1125 c.c., per pervenire alla conclusione secondo cui una cosa destinata al servizio di altre appartiene in proprietà comune ai proprietari di queste; si offrono, infine, argomenti che possono paralizzare il dinamismo condominiale, perché, ove tutti i partecipanti dovessero essere considerati titolari anche delle cose/servizi/impianti non destinati a servirli, potrebbero intralciare la vita condominiale con il loro completo disinteresse e rendere vana ogni maggioranza richiesta per la tutela del bene comune ad altri.
In questa prospettiva, alcuni, in riferimento al disposto dell'art. 1117 c.c., pongono l'accento sui seguenti termini: parti “necessarie all'uso comune” (n. 1), “servizi in comune” (n. 2), opere che “servono all'uso e al godimento comune” (n. 3), sicché, ove manchi questo rapporto tra la cosa e l'uso, quella non può essere considerata “comune”, aldilà ed a prescindere dal titolo, nel senso che, anche in difetto di esso, resta configurabile solamente una “comunione limitata” in relazione alla natura stessa del bene nonché della sua destinazione obiettiva all'uso e al godimento di alcuni soltanto dei partecipanti alla più vasta comunità condominiale.
Viene così affermato, ad esempio, che una scala, la quale conduce agli scantinati, si presume “comune” solo ai proprietari degli stessi e non pure agli altri partecipanti che non abbiano alcuna necessità di servirsene, non avendo alcun diritto di accedere ai locali sottostanti all'edificio; in tale situazione, dovendosi tenere conto sia della ripartizione delle spese secondo i meccanismi di cui al comma 3 dell'art. 1123 c.c., sia degli specifici criteri per la manutenzione e ricostruzione stabiliti dall'art. 1124 c.c., il diritto di comunione, attribuito alla generalità dei condomini e, quindi, anche a quelli che della scala non possono fare uso.
Anche altri autori ritengono che, quando una parte dell'edificio condominiale è destinata a servire una pluralità limitata di condomini, dalla destinazione strutturale e funzionale così limitata deriva che, salvo titolo contrario, quella parte sia comune soltanto ad un gruppo limitato di condomini; tale discorso vale per le scale, ma lo stesso dicasi anche per quanto concerne la posizione dei portoni di ingresso, dei vestiboli, degli anditi, dei portici e, in genere, di tutte le parti dell'edificio necessarie all'uso comune.
Nella medesima ottica, si ammette l'esistenza del condominio parziale, giungendo all'affermazione che il diritto di condominio si estende fino a dove giunge l'interesse sostanziale ad esercitarlo e che il limite all'estensione (o all'attribuzione) del diritto sulle cose/servizi/impianti di cui all'art. 1117 c.c., i quali sono suscettibili di diventarne oggetto, è segnato dal rapporto di accessorietà; poiché oltre questi limiti, per il partecipante il diritto non presumerebbe nessuna utilità oggettiva, concreta, attuale o potenziale e si ridurrebbe ad un “involucro privo di contenuto”, il condominio resta circoscritto alle cose/servizi/impianti legati ai piani o alle porzioni di piano da quel tipo di collegamento, materiale o funzionale, che si è qualificato come rapporto di accessorietà.
La relazione di accessorietà
La giurisprudenza, al fine di sostenere l'esistenza ex lege del condominio parziale, ricorre, per lo più, al principio secondo cui la destinazione all'uso (sia pure potenziale), su cui si sostanzia la presunzione legale di alcune parti comuni, deve sussistere anche per quei beni (specificati nell'art. 1117 c.c.), la cui attitudine funzionale è il godimento collettivo, nel senso che, nel condominio di edifici, in mancanza di una specifica contraria previsione del titolo costitutivo, la destinazione all'uso e al godimento comune, nella quale si sostanzia la presunzione legale di proprietà comune di talune parti dell'edificio in condominio, deve risultare da elementi obiettivi, e cioè dall'attitudine funzionale del bene al servizio dell'edificio, considerato nella sua unità, e al godimento collettivo, prescindendosi dal fatto che il medesimo sia o possa essere utilizzato da tutti i condomini; per contro, quando il bene, per obiettive caratteristiche strutturali e funzionali, serva in modo esclusivo al godimento di una parte dell'edificio in condominio, la quale formi oggetto di un autonomo diritto di proprietà, viene meno il presupposto per il riconoscimento di una contitolarità necessaria di tutti i condomini, giacché la destinazione particolare vince la presunzione legale di comunione, alla stessa stregua di un titolo contrario (Cass. civ., sez. II, 29 dicembre 1987, n. 9644).
Si deve, pertanto, aver riguardo a quella relazione oggettiva tra cosa ed edificio, per cui la prima deve essere destinata strutturalmente e funzionalmente all'uso comune dei vari condomini, e l'àmbito condominiale resta individuato in funzione di quella destinazione; quindi, è concepibile che, in un unico complesso condominiale, in cui esista una pluralità di servizi o di cose comuni, ognuna di esse vada riguardata come “comune” - non già alla titolarità dei condomini, ma soltanto - a quella parte di essi al cui uso essa è strutturalmente e funzionalmente destinata, sicché, qualora si accerti una tale limitata, oggettiva destinazione, e si escluda che alla stessa partecipi in qualsiasi modo altra parte dei condomini, servita da analogo ed autonomo servizio, è precluso alla totalità dei condomini di far valere indifferentemente il proprio diritto di comunione su una qualsiasi delle cose strutturalmente destinate a parti diverse dell'edificio.
Il Supremo Collegio dà atto che il condominio parziale costituisce una figura acquisita dall'esperienza, anche se, piuttosto che della definizione del principio, talvolta, specie in passato, si è occupato della decisione dei casi concreti (v., tra le altre, Cass. civ., sez. II, 24 agosto 1991, n. 9084; Cass. civ., sez. II, 11 agosto 1990, n. 8958; Cass. civ., sez. II, 29 giugno 1985, n. 3882; Cass. civ., sez. II, 22 marzo 1985, n. 2070; Cass. civ., sez. II, 5 aprile 1984, n. 2206; Cass. civ., sez. II, 4 marzo 1983, n. 1632; Cass. civ., sez. II, 10 marzo 1980, n. 1559; contra, inizialmente, Cass. civ., sez. II, 15 novembre 1974, n. 3634; Cass. civ., sez. II, 6 luglio 1962, n. 1743).
Affinando i concetti, la giurisprudenza più recente ha affermato che il collegamento, che nell'edificio unisce quali beni/impianti/servizi con i piani e le porzioni di piano in proprietà solitaria, si contrassegna per la “strumentalità”; nel legame fisico tra tali beni consistente nell'incorporazione tra entità inscindibili, o nella congiunzione stabile tra entità separabili, la norma di cui all'art. 1117 c.c. considera soprattutto lo scopo: vale a dire, la necessità per l'esistenza o per l'uso, oppure la destinazione all'uso o al servizio delle une in favore delle altre; al collegamento teleologico - che si manifesta appunto come necessità per l'esistenza o per l'uso, oppure come destinazione funzionale all'uso o al servizio - la considerazione normativa assegna rilevanza decisiva ai fini dell'attribuzione del diritto di condominio.
I giudici di legittimità definiscono il collegamento tra beni propri e comuni come “relazione di accessorietà” mettendo in evidenza, ad un tempo, il legame funzionale e la connessione materiale; la relazione di accessorietà enuncia, sul piano funzionale, il carattere complementare delle cose/impianti/servizi di uso comune rispetto ai piani o alle porzioni di piano in proprietà solitaria (vale a dire, il difetto di utilità fine a se stessa delle parti comuni e la loro subordinazione funzionale); l'accessorietà esprime, inoltre, la connessione materiale, che determina la mancanza di autonomia fisica dei beni e, ciò nonostante, non esclude la loro perdurante individualità giuridica nell'orbita dell'incorporazione o della congiunzione stabile; la relazione di accessorietà raffigura il fondamento tecnico di diritto di condominio in quanto individua la ragione specifica, di cui la norma dettata dall'art. 1117 c.c. citato si avvale per conseguire lo scopo, consistente nell'attribuzione del diritto di condominio in capo ai proprietari dei piani o delle porzioni di piano siti nell'edificio.
Illuminanti, in proposito, le acute osservazioni di una sentenza del Supremo Collegio (Cass. civ., sez. II, 2 febbraio 1995, n. 1255), secondo la quale, indipendentemente dal titolo, consistente nell'assetto predisposto dall'autonomia privata, nell'àmbito della più vasta contitolarità, si ammette la costituzione per legge dei c.d. condominii parziali sul fondamento del collegamento strumentale tra le parti comuni ed i piani o le porzioni di piano: vale a dire, sulla base della necessità per l'esistenza o per l'uso, oppure della destinazione all'uso o al servizio di determinate cose/servizi/impianti limitatamente a vantaggio di talune unità immobiliari; i presupposti per l'attribuzione della proprietà comune a vantaggio di tutti i partecipanti vengono meno se le cose/servizi/impianti di uso comune, per oggettivi caratteri materiali e funzionali, sono necessari per l'esistenza o per l'uso, oppure sono destinati all'uso o al servizio non di tutto l'edificio, ma di una sola parte (o di alcune parti) di esso; pertanto, del diritto (soggettivo) di condominio formano oggetto soltanto le cose/servizi/impianti effettivamente uniti alle unità abitative dal collegamento strumentale: vale a dire, le sole parti di uso comune, che siano necessarie per l'esistenza, oppure siano destinate all'uso o al servizio di determinati piani o porzioni di piano.
La figura del condominio parziale si contesta, talora, non sulla base dei dati normativi, ma avuto riguardo alla concezione unitaria dell'edificio ed alla considerazione dei condomini come gruppo unificato: configurazioni queste - ad avviso dei giudici di Piazza Cavour - positivamente insostenibili; in verità, le norme dettate in materia di condominio non contemplano l'edificio come tutto unico e le parti comuni quale insieme aggregato dalla funzione unitaria, bensì considerano come beni i piani o le porzioni di piano in proprietà solitaria e, ad un tempo, le cose/servizi/impianti in condominio; le norme dettate in materia di condominio disciplinano le parti comuni separatamente, in ragione del collegamento strumentale tra le singole cose/servizi/impianti e determinate unità abitative; più precisamente, regolano la relazione di accessorio a principale, che intercorre tra le cose/servizi/impianti comuni ed i singoli piani e le porzioni di piano.
La funzione dell'interesse sotteso
In consonanza con la funzione dell'interesse sotteso (quale fondamento del diritto e criterio per l'individuazione dell'oggetto) e come qualsivoglia diritto reale, il diritto di condominio ha ragione d'essere in quanto garantisce l'utilità inerente ad un bene determinato; sul piano funzionale, i termini dell'utilità e dell'interesse in concreto sono definiti dalla relazione di accessorietà ed oltre i confini di questa l'utilità e l'interesse non sussistono e l'attribuzione del diritto non si giustifica; per i proprietari dei piani o delle porzioni di piano, pertanto, il diritto di condominio ha ragione d'essere in conformità con la dimensione dell'interesse strumentale, relativo alle cose/servizi/impianti collegati materialmente e per la funzione con le unità immobiliari, poiché oltre questi termini non sussiste utilità alcuna.
Ad avviso degli ermellini, la titolarità della situazione soggettiva di condominio è definita, dunque, dal fondamento tecnico, oppure dalla categoria giuridica specifica prescelta dall'ordinamento per regolare l'attribuzione; categoria consistente nel collegamento strumentale, materiale e funzionale, tra le parti contemplate espressamente o per relationem nell'art. 1117 c.c. e le singole unità immobiliari: collegamento designato come relazione di accessorio a principale; in ragione delle diverse forme architettoniche degli edifici, la relazione di accessorietà si articola in modo difforme, posto che il collegamento strumentale non intercorre in ogni caso ed alla stessa maniera tra tutte le parti di uso comune ed ogni piano o porzione di piano; formano oggetto del diritto di condominio le cose/servizi/impianti di uso comune, sempre che alle unità immobiliari siano legati dalla relazione (obiettiva) strumentale, materiale e funzionale, consistente nella necessità per l'esistenza o per l'uso, oppure nella destinazione all'uso o al servizio, coerentemente con l'interesse (strumentale) ad utilizzare le parti comuni in funzione delle unità immobiliari.
La relazione di accessorio a principale, perciò, definisce ad un tempo i termini dell'interesse e dell'oggetto del diritto, nel senso che individua le cose/servizi/impianti, i quali costituiscono il punto obiettivo di incidenza del nesso quod inter est e rappresenta la ragione dell'attribuzione del condominio; in favore dei singoli partecipanti, l'attribuzione del diritto dipende dalla configurazione in concreto della relazione di accessorietà tra le parti comuni ed i singoli piani o le porzioni di piano in proprietà solitaria: relazione che giustifica l'interesse effettivo e ne delimita i confini; laddove la relazione non corre, l'interesse non sussiste e il diritto non viene attribuito: se la relazione di accessorio a principale, in quanto costituisce il presupposto dell'interesse e ne definisce la dimensione, raffigura il fondamento tecnico per l'attribuzione del diritto, al contrario non si giustifica, per difetto di fondamento specifico, la titolarità del condominio sulle cose/servizi/impianti, i quali non sono necessari per l'esistenza o per l'uso dell'immobile in proprietà solitaria, oppure non sono destinati al suo uso o al servizio (v., più di recente, Cass. civ., sez. II, 24 novembre 2010, n. 23851; Cass. civ., sez. II, 18 aprile 2005, n. 8066; Cass. civ., sez. II, 28 aprile 2004, n. 8136; Cass. civ., sez. II, 5 ottobre 2000, n. 13290).
Piuttosto che di astratta contitolarità dei partecipanti concernente tutte le cose/servizi/impianti, con maggiore aderenza alla realtà, materiale e giuridica, sembra corretto parlare di differente composizione dell'oggetto o, in senso metaforico, di diversa estensione dell'oggetto del diritto facente capo a ciascun condomino.
E', in effetti, sotto gli occhi di tutti che non sempre il collegamento strumentale intercorre tra tutte le cose/impianti/servizi e tutte le unità immobiliari comprese nel fabbricato; indipendentemente dal titolo configurato dallo strumento prescelto dall'autonomia privata per regolare la proprietà comune delle cose/impianti/servizi elencati nell'art. 1117 c.c., nell'àmbito dalla più vasta contitolarità riguardante l'intero edificio, sorge la figura del condominio parziale, sulla base del collegamento strumentale dei beni che, di fatto, può essere più circoscritto: vale a dire, sulla base della necessità per l'esistenza o per l'uso, oppure della destinazione all'uso o al servizio di determinate cose/impianti/servizi a vantaggio soltanto di talune unità immobiliari.
Le spese di manutenzione
Una rilevante conseguenza del secondo filone interpretativo sopra delineato, secondo il quale se il bene comune (cosa/servizio/impianto), per oggettive caratteristiche strutturali o funzionali, serve in modo esclusivo all'uso ed al godimento - non di tutti i partecipanti, ma - di una parte dell'immobile che formi oggetto di un autonomo diritto di proprietà, viene meno il presupposto della presunzione, è che le spese di manutenzione e di conservazione delle cose che servono solo una parte del fabbricato, costituendo appunto un condominio “parziale”, debbano essere sostenute solo dai proprietari delle unità immobiliari di questa parte, e non dagli altri proprietari di porzioni distinte dell'edificio, secondo il principio generale del comma 3 dell'art. 1123 c.c.
In questo caso, se sussiste un'unica tabella millesimale, che esprime il rapporto di valore tra le singole unità immobiliari e l'intero fabbricato - e, quindi, non un'apposita tabella per la parte coinvolta - occorrerà rapportarla soltanto ai condomini interessati utilizzando i predetti coefficienti millesimali con una rettifica aritmetica necessaria per stabilire il nuovo rapporto di proporzione.
Pertanto, la disposizione, da cui risulta che le cose/servizi/impianti di uso comune dell'edificio non appartengono necessariamente a tutti i partecipanti, si rinviene nell'art. 1123, comma 3, c.c. - invariato nel testo anche a seguito della Riforma del 2013 - secondo il quale “qualora un edificio abbia più scale, cortili, lastrici solari, opere o impianti destinati a servire una parte dell'intero fabbricato, le spese relative alla loro manutenzione, sono a carico del gruppo dei condomini che ne trae utilità”.
Dunque, l'obbligazione di concorrere nelle spese per la conservazione grava soltanto sui condomini, ai quali appartiene la proprietà comune; così, non si recepisce il criterio, che si assume valido in generale per la ripartizione delle spese per le parti comuni, per cui i contributi si suddividono tra i condomini in ragione dell'utilità ma, se così fosse, il precetto sarebbe del tutto superfluo, perché ripeterebbe quello dettato dal capoverso precedente configurando un duplicato ultroneo; in altri termini, posto che l'art. 1123, comma 2, c.c. ripartisce il concorso nelle spese per le parti comuni, destinate a servire le unità immobiliari in misura diversa, in proporzione all'uso che ciascuno può farne, dal contributo implicitamente esonera coloro i quali, per ragioni oggettive afferenti alla struttura o alla destinazione, non utilizzano le parti, che non sono necessarie per l'esistenza o per l'uso, oppure non sono destinate all'uso o al servizio delle loro unità immobiliari.
In realtà, l'art. 1123 c.c., nei distinti capoversi, contempla ipotesi differenti: mentre al comma 2 regola solo ed esclusivamente la ripartizione delle spese per l'uso, al comma 3 disciplina la suddivisione delle spese per la conservazione; la ragione della previsione espressa è che le cose/servizi/impianti, essendo collegati materialmente e per la destinazione soltanto con alcune unità immobiliari, appartengono in comune solamente ai proprietari di queste.
La disposizione de qua contempla, dunque, l'ipotesi del condominio parziale: l'obbligazione di contribuire alle spese per la conservazione posta a carico soltanto di alcuni dei partecipanti si riconduce al principio generale, che presiede alla suddivisione delle spese per la conservazione, secondo cui i condomini sono obbligati sempre in proporzione con le quote ed indipendentemente dalla misura dell'uso; perciò, l'obbligazione di contribuire alle spese per la conservazione grava soltanto su taluni condomini come conseguenza della delimitazione dell'appartenenza.
Un'applicazione corretta dei suddetti principi si è avuta in un recente arresto della magistratura di vertice, secondo il quale, in tema di oneri condominiali, la funzione ed il fondamento delle spese occorrenti per la conservazione dell'immobile si distinguono dalle esigenze che presiedono alle spese per il godimento dello stesso, come è dato evincere, in via di principio generale, dal disposto dell'art. 1104 c.c. - dettato in tema di comunione - e, sub specie dei rapporti di condominio, dalla norma di cui all'art. 1123 c.c. stesso codice, a mente della quale i contributi per la conservazione del bene sono dovuti in ragione dell'appartenenza e si dividono in proporzione alle quote (indipendentemente dal vantaggio soggettivo espresso dalla destinazione delle parti comuni a servire in misura diversa i singoli piani o porzioni di piano), mentre le spese d'uso (che traggono origine dal godimento soggettivo e personale) si suddividono in proporzione alla concreta misura di esso, indipendentemente dalla misura proporzionale dell'appartenenza (e possono conseguentemente mutare, del tutto legittimamente, in modo affatto autonomo rispetto al valore della quota); ne consegue, con particolare riguardo alla norma di cui all'art. 1123, comma 3, c.c., che il criterio di ripartizione di spese ivi disciplinato (a differenza di quanto previsto, in linea generale, nel precedente comma 2 del medesimo articolo) deve ritenersi applicabile alle ipotesi di condominio c.d. parziale (risultando, in caso contrario, la norma in parola un'inutile ripetizione di quella che la precede), così che, qualora le cose/impianti/servizi comuni siano destinati a servire una parte soltanto del fabbricato, l'art. 1123, comma 3, c.c., nell'àmbito della più vasta compartecipazione, identifica precipuamente i soggetti obbligati a concorrere alle spese di conservazione, individuandoli nei condomini cui il condominio è attribuito per legge ai sensi dell'art. 1117 c.c., salva diversa attribuzione per titolo (Cass. civ., sez. II, 19 giugno 2000, n. 8292).
La convocazione degli aventi diritto
Altra importante conseguenza di questa tesi concerne le maggioranze assembleari, giacché l'art. 1136 c.c. contempla l'ipotesi normale in cui le parti comuni dell'edificio di cui all'art. 1117 c.c. siano necessarie o utili a tutti i condomini, ma non esclude affatto la possibilità del c.d. condominio parziale, per cui, quando la comunione di determinate parti comuni o di determinati servizi è limitata ad alcuni condomini, la formazione dei quorum (costitutivo e deliberativo), ai fini della validità delle delibere, deve computarsi con riferimento ai soli proprietari interessati (un argomento letterale a favore, si evince, peraltro, dal penultimo comma dell'art. 1136 c.c., come modificato dalla l. n. 220/2012, dove ora si prevede che, all'assemblea, debbano essere convocati tutti gli “aventi diritto”, in sostituzione dei “condomini”).
Tale principio - che comporta una certa “elasticità” nell'istituto del condominio - è linearmente espresso nella seguente pronuncia del Supremo Collegio: i presupposti per l'attribuzione della proprietà comune a vantaggio di tutti i partecipanti vengono meno se le cose/servizi/impianti di uso comune, per oggettivi caratteri materiali e funzionali, sono necessari per l'esistenza e per l'uso, oppure sono destinati all'uso o al servizio, non di tutto l'edificio, ma di una sola parte, o di alcune parti di esso, ricavandosi dall'art. 1123, comma 3, c.c., che le cose/servizi/impianti non appartengono necessariamente a tutti i partecipanti; ne consegue che, dalle situazioni di c.d. condominio parziale, derivano implicazioni inerenti la gestione e l'imputazione delle spese, in particolare non sussiste il diritto di partecipare all'assemblea relativamente alle cose/servizi/impianti da parte di coloro che non ne hanno la titolarità (Cass. civ., sez. II, 27 settembre 1994, n. 7885; cui adde, da ultimo, Cass. civ., sez. II, 16 gennaio 2020, n. 791).
In pratica, la composizione del collegio si modificherà in relazione alla proprietà (per titolo o per destinazione) delle parti comuni che della delibera formano oggetto - con la possibilità di subassemblee all'interno di un'unica assemblea a seconda dell'ordine del giorno - e, ai fini della validità di quest'ultima, si farà riferimento ai soli condomini interessati, che dovranno rappresentare un terzo, la metà o i due terzi del valore secondo la decisione da adottare (art. 1136 c.c.); del resto, il codice civile parte dalla premessa che la delibera riguardi tutti i proprietari in quanto si presumono comuni a tutti le cose/servizi/impianti che esistono nell'edificio, ma se tale situazione non si verifica - e gli artt. 1117,1121 e 1123 c.c., in fondo, ammettono tale eventualità - per “partecipanti al condominio” devono intendersi soltanto coloro che hanno la comproprietà effettiva di quella determinata cosa/servizio/impianto (v., tra le più recenti, Cass. civ., sez. II, 2 marzo 2016, n. 4127).
La tesi del condominio parziale fonda il proprio presupposto sul rilievo che il condominio resta circoscritto alle cose/servizi/impianti legati alle unità immobiliari di proprietà esclusiva da quel tipo di collegamento, materiale e funzionale, che abbiamo definito come relazione di accessorietà, sicché la portata della comunione risulta ristretta nei limiti del godimento comune; si è paventato, peraltro, il pericolo di una paralisi del necessario dinamismo condominiale, in quanto se tutti i condomini dovessero essere considerati anche titolari delle cose non destinate a servirle, potrebbero bloccare la vita condominiale con la loro completa e perdurante inerzia, rendendo vana ogni maggioranza richiesta per realizzare innovazioni tese al miglior godimento del bene comune.
In quest'ottica, non si può sostenere che, a tali assemblee, debbano intervenire e votare “tutti” i condomini, in quanto le eventuali innovazioni che si riferiscono a quel settore potrebbero avere effetti riflessi anche sulla loro parte, e, comunque, li hanno sempre rispetto all'intero stabile, in virtù dell'unitarietà del fabbricato; altro discorso è che l'interesse degli altri condomini non sia solo indiretto, come nel caso del mutamento dello stato dei luoghi, ma diretto, come nell'ipotesi in cui l'innovazione comporti una limitazione al loro godimento delle cose comuni.
La tesi contraria fa leva, invece, sul disposto dell'art. 1117 c.c. elencante i beni che sono comuni a tutti, salvo titolo contrario e senza che si debba indagare sulla destinazione (totalitaria o parziale) degli stessi: si dice espressamente “sono oggetto di proprietà comune dei proprietari delle singole unità immobiliari dell'edificio” e non già che “sono comuni a tutti quelli che ne hanno l'uso”; per esempio, i condomini della scala destra potranno partecipare alle decisioni dei condomini della scala sinistra - per controllare che non venga pregiudicata l'estetica del fabbricato mutando il colore dei marmi o la posizione delle pareti, o quant'altro - e ciò anche se non la possono utilizzare e non contribuiscono alla relativa manutenzione.
In conclusione
Per completezza, sotto il profilo processuale, mette punto rammentare che, riguardo alle controversie attinenti a cose/impianti/servizi appartenenti, per legge o per titolo, soltanto ad alcuni dei proprietari dei piani o degli appartamenti siti nell'edificio (c.d. condominio parziale), non sussiste difetto di legittimazione passiva in capo all'amministratore dell'intero condominio, quale unico soggetto fornito, ai sensi dell'art. 1131 c.c., di rappresentanza processuale in ordine a qualunque azione concernente le parti comuni dell'edificio, salva, eventualmente, la restrizione degli effetti della sentenza, nell'àmbito dei rapporti interni, ai soli condomini interessati (Cass. civ., sez. II, 21 gennaio 2000, n. 651).
Al contempo - ad avviso di Cass. civ., sez. II, 17 febbraio 2012, n. 2363 - il condominio parziale, che rappresenta una situazione configurabile per la semplificazione dei rapporti gestori interni alla collettività condominiale, in ordine a determinati beni o servizi appartenenti soltanto ad alcuni condomini, è privo di legittimazione processuale in sostituzione dell'intero condominio in ordine all'impugnazione per cassazione di una sentenza di merito, che abbia visto quest'ultimo parte di una controversia volta al risarcimento dei danni occasionati dall'esecuzione di un appalto dal medesimo conferito, a nulla rilevando che amministratore del condominio parziale ricorrente sia la stessa persona fisica, investita di tale ufficio nel condominio dell'intero edificio.
Comunque, quale che sia il giudizio sul diktat delle Sezioni Unite (Cass. civ., sez. II, 8 aprile 2008, n. 9148) in ordine alla parzietà delle obbligazioni del condominio, si ritiene che la posizione del terzo, estraneo al condominio, rimanga impermeabile a tutte quelle situazioni - sopra descritte - comportanti un “restringimento” della compagine condominiale, sia riguardo all'assetto proprietario (soggettivamente circoscritto), sia riguardo alle problematiche connesse (in tema di gestione, contribuzione, rappresentanza, ecc.).
In questa prospettiva, ad esempio, il terzo appaltatore agirà per il recupero del suo credito nei confronti del condominio, unitariamente considerato, sia pure per il tramite dell'amministratore suo rappresentante, a prescindere dal fatto che il bene/servizio/impianto serva una parte dell'edificio condominiale ai sensi dell'art. 1123, comma 3, c.c.
Il creditore risulta insensibile a tutte le problematiche relative a chi trae utilità dal bene realizzato, a chi offre vantaggio l'impianto installato, a chi fanno carico le spese, a chi sia esonerato dai contributi, e quant'altro: il condominio a “modulazione variabile” opera esclusivamente nella sfera interna dei rapporti condominiali, che il terzo non può, e non deve, conoscere.
Riferimenti
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