Trasferimento d'azienda: la vicenda Alitalia alla Corte costituzionale
10 Settembre 2024
Il caso La vicenda del trasferimento di azienda Alitalia, sul piano lavoristico, già precedentemente esaminata in questa sede (v. R. Bellè, Turbolenze giuridiche Alitalia nella tratta Milano - Roma. Divergenze interpretative in tema di trasferimento di azienda in amministrazione straordinaria, in IUS Lavoro, 15 novembre 2023) si arricchisce di ulteriori complesse evoluzioni sul piano normativo e giurisprudenziale che hanno portato il Tribunale di Roma a rimettere alla Corte costituzionale la questione di legittimità rispetto alla disciplina di interpretazione autentica recentemente introdotta. Per la comprensione delle questioni è inevitabile un sintetico riepilogo della vicenda. È in particolare accaduto che:
Le questioni giuridiche Le divergenze Roma-Milano, la legge di interpretazione autentica ed il rinvio alla Corte Costituzionale Le azioni di cui sopra hanno visto pronunce divergenti tra il Tribunale di Roma e quello di Milano, quest'ultimo ora sostanzialmente confermato, nel proprio orientamento, anche dalla Corte d'Appello di quella città, che, con sentenza n. 426 del 2024 in data 15 maggio 2024, ha rigettato il gravame proposto dai lavoratori avverso la decisione di primo grado (nel caso, del Tribunale di Busto Arsizio) sfavorevole ai lavoratori (sul tema, v. anche F. Capurro, L'operazione Alitalia-ITA: quando un vetro andava in pezzi ai ragazzi si “toglieva il pallone”. E quando a “giocare” sono gli adulti ?, in Labor, 2023). Su alcuni punti gli orientamenti romano e milanese sostanzialmente concordano e ciò nel senso che: - la decisione della Commissione U.E., essendo stata resa in relazione all'insussistenza di aiuti di Stato, non ha rilievo rispetto al diverso tema del trasferimento di azienda; - il trasferimento di aviation è cessione di azienda e non di singoli beni (così il Tribunale di Roma ed il Tribunale di Milano), mentre la Corte d'Appello di Milano ha richiamato il contenuto dell'ultimo programma come finalizzato, quanto al ramo aviation, alla “cessione di complessi di beni e contratti” ai sensi dell'art. 2, co. 2, lett. b-bis, senza addentrarsi in indagini qualificatorie, pur poi inevitabilmente considerando l'ipotesi come uno “spossessamento dell'azienda”, il che del resto è essenziale, non potendosi altrimenti proprio discutere di applicazione dell'art. 2112 c.c. se la cessione riguardi solo singoli beni; - l'art. 56-bis, co. 3-bis, del d.lgs. n. 270/1999, secondo cui, in sostanza, ai trasferimenti di azienda in sede di programmi ai sensi dell'art. 27, co. 2, lett. a) e b-bis) non si applica l'art. 2112 c.c. è norma speciale rispetto all'art. 47, co. 4-bis e 5 della L. n. 428/1990 e ciò in quanto questi ultimi regolano i trasferimenti di azienda in continuità (co. 4-bis) e di azienda cessata (co. 5), mentre l'ipotesi di cui al co. 3-bis riguarda le cessioni “liquidatorie” di azienda in esercizio. La divergenza tra i due orientamenti si manifesta invece su altri punti nel senso che:
Da ciò le conclusioni opposte rispetto all'operazione realizzata, che, secondo la Corte d'Appello di Milano rientrano appieno nella previsione di deroga all'art. 2112 c.c., di cui all'art. 56, co. 3-bis cit., mentre viceversa, secondo il Tribunale di Roma, non sarebbe giustificata la deroga al principio di continuità dei rapporti di lavoro in presenza di cessione di azienda.- In questo quadro di divergenze interpretative si inserisce la norma di interpretazione autentica di cui all'art. 6 del d.l. n. 29 settembre 2022, n. 131 nel testo modificato dalla legge di conversione del 27 novembre 2023, n.169, secondo la quale “in coerenza con l'articolo 5, paragrafo 1, della direttiva 2001/23/CE del Consiglio, del 12 marzo 2001, l'articolo 56, comma 3-bis, del decreto legislativo 8 luglio 1999, n. 270, si interpreta nel senso che si intendono in ogni caso operazioni effettuate in vista della liquidazione dei beni del cedente, che non costituiscono trasferimento di azienda, di ramo o di parti dell'azienda agli effetti previsti dall'articolo 2112 del codice civile, le cessioni poste in essere in esecuzione del programma di cui all'articolo 27, comma 2 lett. a) e b-bis), del medesimo decreto legislativo, qualora siano effettuate sulla base di decisioni della Commissione europea che escludano la continuità economica fra cedente e cessionario”. Il Tribunale di Roma, avendo ritenuto la procedura, pur condotta secondo un programma riportabile all'art. 27, co. 2, lett. a) o b-bis, di natura non liquidatoria e ritenendo quindi che non si applicasse l'art. 56, co. 3-bis, cit., in esito alla norma sopravvenuta si è trovato sostanzialmente il percorso interpretativo sbarrato, perché la legge di interpretazione autentica esplicitamente afferma che “si intendono in ogni caso operazioni effettuate in vista della liquidazione dei beni del cedente... le cessioni poste in essere in esecuzione del programma di cui all'articolo 27, comma 2 lettere a) e b-bis)”. Da qui la questione di legittimità costituzionale, per essere intervenuta la norma interpretativa al fine di dirimere un concreto contenzioso in corso. Non è difficile condividere sul punto i dubbi di legittimità del Tribunale di Roma, bastando osservare come la norma interpretativa si spinga fino al punto di introdurre nella fattispecie il passaggio - mai contemplato dalla disposizione da interpretare, ovverosia dall'art. 56, co. 3-bis, cit. - dell'essere le operazioni avvenute “sulla base di decisioni della Commissione Europea che escludano la continuità economica tra cedente e cessionario”, che corrisponde alla vicenda verificatasi nel caso di specie e che non necessariamente riguarda una qualsiasi procedura di amministrazione straordinaria, risultando un tale incidente richiamato, ma dall'art. 58 del d.lgs. n. 270/1999 per il caso di finanziamenti o agevolazioni pubbliche. Sui parametri costituzionali violati, espressivi di principi interni (art. 24 Cost.) e di trasposizione (art. 117 Cost.) di principi internazionali fondanti (art. 6 par. 1 CEDU) non mette conto qui attardarsi trattandosi ad avviso di chi scrive di questione in sé scontata per la quale basta il rinvio al contenuto dell'ordinanza di rimessione. Le soluzioni giuridiche Profili ricostruttivi: il piano testuale, la giurisprudenza eurounitaria e il diritto interno L'analisi non sembra possa però finire qui. Il primo punto è quella della verifica in ordine al fatto che effettivamente, sul piano testuale, l'interpretazione del Tribunale di Roma secondo cui l'art. 27, nei casi di cui alle lettere a) e b-bis), potrebbe intercettare sia una procedura liquidatoria, sia una procedura di recupero dell'impresa, sia condivisibile. Il Tribunale afferma che, se già il carattere liquidatorio fosse insito nell'art. 27 lett. a) e b-bis) non vi sarebbe stata necessità, nell'art. 56, co. 3-bis, di prevedere che la non applicazione dell'art. 2112 c.c. riguardasse operazioni attuate ai sensi di quelle disposizioni “in vista della liquidazione dei beni del cedente”. In proposito, sembra che, così argomentando, si attribuisca un forte significato normativo ad un passaggio che potrebbe invece avere il solo senso di confermare, nel regolare la traslazione sul piano lavoristico, la natura liquidatoria che è insita nell'essere quei programmi destinati esclusivamente alla cessione dei compendi aziendali, oltre all'eventuale liquidazione dei beni residui. Anche perché l'art. 27, co. 2, alle lett. a) e b-bis, pur facendo riferimento a programmi tout court di “cessione” non contiene la precisazione sulla natura liquidatoria, sicché quanto in proposito contenuto nell'art. 56, co. 3-bis, non è privo di utilità normativa a fini qualificatori. Se è vero che i programmi di cui alle lett. a) e b-bis) cit. hanno in sé natura liquidatoria, perché non destinati alla prosecuzione dell'attività dell'impresa, ma alla sua cessione in tempi determinati, non vuol dire che l'essersi fatto riferimento esplicito a tale natura nel contesto dell'art. 56, co. 3-bis muti alcunché, consistendo semmai in un'utile precisazione al riguardo. In tal modo si è infatti diversificata l'ipotesi (v. per analoga diversificazione v. l'art. 1 del d.l. n. 347/2003, conv. con modif. in L. n. 39/2004) da quella in cui lo scopo della procedura consista in una riorganizzazione dell'impresa, attraverso la cessione di alcune aziende, mirata al recupero delle funzionalità dell'originaria impresa onde riprendere attività sul mercato, in quanto quest'ultimo fine è proprio dei programmi di cui alla lett. b) dell'art. 27, co. 2, cit., che possono anche prevedere cessioni di aziende o rami a fini riorganizzativi (v. M. V. Ferroni, Le procedure amministrative di gestione delle imprese in crisi, Torino, 2022, 82) le quali, in tal caso, non possono dirsi attuate “ai fini della liquidazione”; in questo senso, v. anche G. Leogrande, Le liquidazioni nelle A.S., in Fall., 2023, 1295). La Corte di Giustizia, nel suo ultimo e significativo arresto (Corte di Giustizia 28 aprile 2022, Federatie Nederlandse) ha chiarito che la derogabilità (piena) delle norme di tutela del lavoratore in caso di trasferimento di azienda in procedura concorsuale (art. 5, paragrafo 1, della direttiva 2001/23) non è limitata “alle imprese, agli stabilimenti o alle parti di imprese o di stabilimenti la cui attività sia stata definitivamente interrotta prima della cessione o successivamente a quest'ultima” (punto 49), ma riguarda anche il caso di un “impresa o una parte di impresa ancora in attività” che deve “poter essere ceduta beneficiando, al contempo, della deroga prevista in detta disposizione”, in quanto in tal modo “la direttiva 2001/23 previene il rischio che l'impresa, lo stabilimento o la parte di impresa o di stabilimento di cui trattasi si svaluti prima che il cessionario rilevi, nell'ambito della procedura fallimentare aperta ai fini della liquidazione dei beni del cedente, una parte del patrimonio e/o delle attività del cedente ritenute redditizie” così da “eliminare il grave rischio di un complessivo deterioramento del valore dell'impresa ceduta o delle condizioni di vita e di lavoro della mano d'opera, che sarebbe in contrasto con le finalità del trattato (v., in tal senso, sentenza del 25 luglio 1991, d'Urso e a., C-362/89, EU:C:1991:326, punto 31 e giurisprudenza ivi citata)” (punto 50). Prima di tale pronuncia era sorto equivoco, permeato anche nel Codice della Crisi (v. sul punto R. Bellè, Trasferimento dell'azienda in esercizio provvisorio fallimentare e derogabilità delle tutele eurounitarie: la Suprema Corte ancora sulla natura “liquidatoria” come criterio dirimente, in Fall., 2022, in specie pp. 28 e 29), sui presupposti che legittimavano la deroga ipoteticamente totale (art. 5, paragrafo 1 della Direttiva) ai diritti dei lavoratori o una deroga solo parziale (art. 5, paragrafo 2), sostenendosi che fosse la continuità aziendale ad essere ragione di esclusione della prima ipotesi. La continuità di esercizio aziendale è tuttavia concetto eterogeneo rispetto alla liquidazione, perché può sussistere una procedura liquidatoria, come nel diritto interno era il fallimento (e ora la liquidazione giudiziale) o il concordato preventivo liquidatorio, che intervengono rispetto ad un'azienda in esercizio (c.d. provvisorio, secondo la legge fallimentare). Pertanto, riconnettendo la derogabilità totale di cui all'art. 5, paragrafo 1, all'assenza di continuità di esercizio aziendale, si rischiavano di mantenere al di fuori da essa ipotesi certamente liquidatorie, in contrasto con il testo stesso della Direttiva. La pronuncia della Corte di Giustizia del 2022 ha sciolto l'equivoco, chiarendo che anche in presenza di continuità aziendale può intervenire una procedura di natura liquidatoria, per la quale dunque gli Stati sono legittimati a prevedere anche deroghe massime rispetto ai diritti dei lavoratori. La motivazione resa dalla Corte di Giustizia, se non rettamente intesa, potrebbe però alimentare altre incertezze, come attestato dalle diverse letture che di essa danno il Tribunale di Roma e la Corte d'Appello di Milano ed in cui consiste il vero punto di origine del contrasto. La Corte d'Appello di Milano ha infatti valorizzato i passaggi in cui la Corte U.E. evidenzia come dirimente la funzionalità del trasferimento di “azienda” alla prosecuzione dell'“impresa” insolvente, per escludere che tale evenienza ricorresse nel caso di specie, mentre il Tribunale di Roma ha evidenziato i richiami all'interesse dei creditori, per concluderne che la cessione nel caso di specie non mirasse alla tutela di esso, ma solo alla continuità aziendale. Il primo profilo è dunque quello della funzione conservativa del trasferimento, che si ha quando esso è mirato a recuperare risorse finalizzate al rientro in bonis del cedente; vale a dire quando il cedente, attraverso quel trasferimento, persegue il proprio recupero economico e quindi un interesse spiccatamente proprio. Ciò emerge dai passaggi in cui Corte di Giustizia, Federatie Nederlandse, afferma che “nella misura in cui l'articolo 5, paragrafo 1, della direttiva 2001/23 distingue tra il «cedente» e le «imprese», gli «stabilimenti» o le «parti di imprese o di stabilimenti» appartenenti a detto cedente, è opportuno distinguere l'attività economica globale del cedente dalle singole attività delle diverse entità ricomprese tra i suoi beni da liquidare” (punto 48), per poi escludere la natura “liquidatoria” quando l'operazione sia mirata ad una «mera riorganizzazione» del cedente" (punto 53). La ratio dell'esclusione dalla derogabilità massima delle tutele dei lavoratori è in questo caso evidente e sta nel fatto che la persecuzione di un interesse spiccatamente individuale ed egoistico dell'impresa insolvente non può realizzarsi facendo venire meno il posto di lavoro di coloro che, fino a quel momento, con la loro collaborazione nell'azienda hanno permesso l'esistenza stessa di quest'ultima. Indubbiamente, la Corte di Giustizia fa poi riferimento, nell'individuare la natura liquidatoria delle procedure, all'obiettivo di esse di ottenere la massima soddisfazione per i creditori. Il senso del passaggio è quello per cui se il trasferimento di azienda non fosse posto in essere nell'interesse dei creditori, esso non potrebbe dirsi giustificato e dunque cadrebbe il nesso funzionale con la procedura di insolvenza che lo giustifica e che giustifica, con esso, la derogabilità dei diritti dei lavoratori alla prosecuzione del rapporto. Ciò posto, l'interesse dei creditori che rileva è però sempre quello rispetto alla scelta di fondo tra prosecuzione dell'attività di impresa e trasferimento a terzi dell'azienda. L'interesse alla cessione discende da una valutazione di opportunità in cui gli organi della procedura valutano se sia sostenibile per l'impresa – gravata dalle passività pregresse – proseguire essa stessa nella gestione o se si giustifichi una cessione a terzi, che realizzi le redditività – se esistenti - o anche solo eviti che la prosecuzione stessa dell'esercizio sia pregiudizievole per i creditori, in quanto destinata a vanificare i valori, producendo costi che, insistendo in via prededuttiva sull'attivo, pongano a rischio anche le utilità in ipotesi ritraibili dai singoli beni considerati nella loro individualità. Il diritto interno, come si è visto, individua tale scelta al momento della definizione dei programmi dell'amministrazione straordinaria, come è tendenzialmente ragionevole che sia, perché in presenza di imprese delle dimensioni che qui sono coinvolte, la tutela dei diversi interessi non può che muovere – fino a che non sopravvengano nuove valutazioni - sulla base di un indirizzo complessivo definito in tal senso. L'assetto del d.lgs. n. 270/1999, da questo punto di vista, è del tutto razionale ed a parere di chi scrive non merita scomposizioni o alterazioni sulla base di visuali che guardino solo ad alcuni aspetti del fenomeno. Desta invece perplessità l'ipotesi che, a creare un discrimine tra la natura delle procedure possa essere il “grado” di soddisfazione dell'interesse dei creditori che deriva dalle operazioni attuative di quelle decisioni di fondo sulla cessione o meno dell'azienda e su quanto attraverso esse si realizzi in concreto. Rispetto agli atti esecutivi del programma autorizzato, la legge (art. 65 del d.lgs. n. 270/1999) consente il reclamo interno alla procedura, ma non sembra possa consentirsi – al di là di tale mezzo – una valutazione “esterna” di tale “merito” ogni qual volta vi siano interessi di terzi, in qualunque modo in contrasto con gli esiti decisi dagli organi della procedura (sul tema delle controversie liquidatorie, anche per il riparto di giurisdizione, v. M. V. Ferroni, Le procedure amministrative, cit., 97 ss.). La convenienza di un'operazione di cessione è valutazione prognostica di estrema variabilità, non a caso rimessa, nelle procedure concordatarie, al voto in sé insindacabile dei creditori, con il solo limite del c.d. cram down, ovverosia – senza poter qui entrare in ulteriori particolari - del giudizio, ancora prognostico, di non inferiorità della soddisfazione, per i dissenzienti - che sono però pur sempre creditori, in cui favore quel giudizio è esclusivamente posto - rispetto agli esiti della liquidazione giudiziale. Non a caso, si osserva, Corte di Giustizia, Federatie Nederlandse, cit., ha rimandato al giudice interno la valutazione sulla natura “liquidatoria” della procedura olandese coinvolta in quel frangente, ma in relazione ad un processo di natura apparentemente “generale” sul fallimento e i suoi esiti e non ad un giudizio riguardante singoli. Si deve pertanto ritenere che l'adozione di un programma, ai sensi dell'art. 27, co. 2, lett. a) e b-bis) individui l'esistenza di una procedura “liquidatoria” e giustifichi in sé la deroga di cui all'art. 56, co. 3-bis, del d.lgs. n. 270/1999. È sostanzialmente questa la posizione della Corte d'Appello di Milano che è qui condivisa. Va solo aggiunto che anche il “recupero dell'equilibrio economico delle attività imprenditoriali”, di cui all'art. 27, co. 1, del d.lgs. n. 270/1999 non è in contraddizione con la regolazione, nel co. 2, di programmi di integrale cessione (lett. a e b-bis) e di programmi conservativi o riorganizzativi (lett. b), in quanto il riferimento va appunto alle “attività” imprenditoriali, ovverosia alla gestione di determinate aziende, che può avvenire previo trasferimento (liquidatorio) a terzi (lett. a e b-bis) o anche con il risanamento dell'impresa in crisi in quanto tale (lett. b). Si può ipotizzare che l'autorizzazione ad un tale programma, concessa dal Ministero, possa essere sindacata, per giungere alla disapplicazione dell'atto amministrativo, nei giudizi che riguardino diritti che non si possono far valere all'interno della procedura e che si pongano in contrasto con essa. Ma ciò, a parte il caso di errori di qualificazione (in quanto sia indicato come liquidatorio un piano che mira alla prosecuzione dell'“impresa” insolvente intesa come soggetto e non come “azienda”), non potrebbe che avvenire, secondo le regole sui vizi degli atti della P.A., oltre che per violazioni dirette di norme – che nel caso non risultano – per macroscopiche difformità dal reale o irrazionalità tali da intercettare un eccesso di potere: ciò nel senso, però, che sia stata in tal modo sviata la valutazione sulla opportunità di non proseguire nell'esercizio dell'azienda e non sulla mera “convenienza” delle operazioni di cessione a terzi delle attività aziendali. Un tale giudizio sullo “sviamento” peraltro implica, intanto, che sia chi agisce - e non certo la procedura i cui programmi siano stati autorizzati - a dimostrare che si sono realizzate condizioni di illegittimità nella decisione di procedere alla cessione dell'azienda nell'interesse anche dei creditori. Inoltre, allorquando si riscontrino elementi dissonanti, l'apprezzamento deve essere completo e basato su elementi decisivi nel senso che viceversa vi era la possibilità non apprezzata di non trasferire l'azienda. Non sembra dunque sufficiente che sia evidenziata la positività di un certo cespite, se vi siano altri elementi negativi dell'unitario coacervo aziendale che impediscano alla procedura di proseguire utilmente – se non in modo addirittura dannoso - nella gestione; o che si rilevi come le passività pregresse non transitino sul cessionario, in quanto che l'acquirente si accolli il passivo attiene al tema della “convenienza” del corrispettivo e non alla necessità non ulteriormente procrastinabile di cedere l'azienda; o ancora che siano ipotizzate redditività future che, rispetto ad un'impresa insolvente le cui aziende per vari anni non hanno trovato acquirenti, non è detto vi siano. Anche perché, guardando proprio al caso di specie, è probabile che negli anni di gestione dal 2017 al 2021, se quelle redditività vi erano, si sarebbe trovato un acquirente o forse anche più competitori, mentre quello infine realizzato ha tutta l'apparenza di un salvataggio in extremis di un'azienda altrimenti destinata al disfacimento, con definitivo pregiudizio per l'occupazione e danni maggiori per i creditori, a meno di interventi pubblici di sussidio con carico sulla collettività. Del resto, anche affermare, come fa il Tribunale di Roma, che dalla ritenuta non convenienza per i creditori si dovrebbe desumere che l'operazione avesse il fine di perseguire la mera continuità aziendale, finisce per valorizzare quest'ultima, che in realtà sussiste sempre se c'è cessione di azienda, e non i tratti realmente distintivi, quale è, per un verso, l'effetto riorganizzativo a favore dell'impresa o, per altro verso, nelle procedure liquidatorie, l'opportunità o necessità del trasferimento a terzi, perché l'impresa insolvente non è più in grado di proseguire sine die nella gestione economica. Oltre a ciò, nella vicenda Alitalia, gli sviluppi normativi di cui al d.l. 73/2021 hanno portato a qualificare ex lege come liquidatoria la prosecuzione della procedura, sul presupposto evidentemente – mai smentito da una qualche diversa scelta fin dal 2017 e sulla cui fallacia a tutt'oggi non sembrano aversi elementi certi – che non fosse ipotizzabile la prosecuzione dell'attività aziendale da parte dell'impresa decotta. Dunque, ci si dovrebbe interrogare sugli strumenti attraverso cui, in ipotesi, un tale indirizzo potrebbe esser invalidato in vista della tutela di diritti dei lavoratori che si assuma siano stati – in ipotesi – indebitamente lesi. Va poi osservato come l'esistenza di una necessità di cessione, conseguente al fatto stesso che la prosecuzione aziendale non sia sostenibile o sia inopportuna per l'impresa insolvente risponda sia ai criteri che, nel diritto interno, la S.C. ha adottato per individuare appunto una tale caratteristica del trasferimento di azienda (Cass. 6 dicembre 2019, n. 31946; Cass. 14 settembre 2021, n. 24691), sia alla nozione economica di vendita “liquidatoria”, come cessione condizionata nell'an e/o nel quando (perché la gestione non sia proseguibile sine die) o nel quomodo (nel senso di soggiacere a procedure vincolanti e non seguire le dinamiche di libero mercato) e destinata come tale a poter incidere sui valori realizzabili (si fa rinvio a R. Bellè, Il trasferimento di azienda e i rapporti di lavoro, in Fall., 2023, 1221 ss.). Non sembra invece che sia utile la giurisprudenza di legittimità (Cass. 1° giugno 2020, n. 414 e successive conformi) che, in tema di amministrazione straordinaria, si è espressa sull'interpretazione dell'art. 47, co. 5, L. 428/1990, perché in quelle pronunce è mancata la disamina dell'art. 56, co. 3-bis cit. e delle relazioni tra esso e l'art. 27, co. 2 cit.; così come non sembra utile il richiamo all'art. 84 del Codice della Crisi ed alla distinzione tra procedura in continuità anche indiretta e liquidatorie ivi tracciata, trattandosi di assetto tutto interno al sistema del concordato preventivo, come è reso evidente dal fatto che, secondo tale norma, le procedure liquidatorie sono tali se comportino l'apporto di finanza c.d. esterna, dandosi dunque rilevanza a profili che non vengono in evidenza in altri ambiti. Non si può qui ipotizzare se e come i ragionamenti sopra sviluppati abbiano un qualche importanza rispetto al giudizio di costituzionalità proposto – sotto il profilo della rilevanza della questione o, al contrario, anche di una formulazione di quesiti interpretativi alla Corte di Giustizia - ma sembra doveroso svolgerli perché, rispetto a fenomeni complessi e di rilievo sociale e pubblico diffuso, la prospettiva dei diritti individuali, in sé meritoria, non può far perdere di vista l'equilibrio di fondo costruito dal legislatore. Osservazioni Trasferimento lavoristico di azienda insolvente: tratti sistematici Il quadro complessivo del trasferimento di azienda in crisi propone in effetti margini di flessibilità che vanno salvaguardati e, semmai, adeguatamente regolati. La crisi di impresa è crisi del comparto economico e sociale di riferimento (D. Galletti, La ripartizione del rischio di insolvenza, Bologna, 2006, 35), che non coinvolge solo i lavoratori addetti alla singola azienda ed è affidata al controllo pubblico, quasi sempre giudiziario. Al punto, si è ritenuto di sostenere, che le direttrici evolutive dell'ordinamento concorsuale debbano essere ispirate alla persecuzione “di un interesse comune alla regolazione della crisi, con i propri effetti di salvaguardia dell'azienda, ove quest'ultima non è più intesa come patrimonio individuale, ma quale fenomeno di rilievo sociale, che fa emergere interessi fondamentali, riconducibili all'art. 2 Cost. e dunque non meno potenti, a quel punto, delle situazioni di garanzia del singolo lavoratore e comunque tali da imporre adeguati e non aprioristici coordinamenti delle tutele” (v. R. Bellè, Il trasferimento di azienda, cit.1226, ove anche richiami alle parallele evoluzioni normativa sul piano dell'art. 2086 c.c. ). Pertanto, deve aversi cura di ragionare, rispetto a questo fenomeno, con parametri differenziati rispetto a quanto riguarda i rapporti di lavoro con un'impresa in bonis. Sul tema, la Direttiva 2001/23/CE è impostata in modo chiaro nel senso che, a fronte di procedure liquidatorie, gli Stati membri possono anche prevedere che al trasferimento di azienda non si associ la continuità dei rapporti di lavoro (art. 5, par. 1). Già si è detto poi il senso economico e giuridico di una cessione “liquidatoria”, ovverosia in qualche modo “costretta” e dunque destinata a divergere da una cessione in ambito di libero mercato. In assenza di portata liquidatoria, che si ha appunto quando il trasferimento ha in realtà il fine di far proseguire l'attività dell'impresa originaria, non ha senso che la tutela della continuità dei rapporti venga meno e dunque sono ammesse solo le minori deroghe ai diritti dei lavoratori di cui all'art. 5, par. 2 (limitazione della solidarietà del cessionario, se vi è tutela dei crediti pari a quella di cui alla Direttiva 80/987/CEE e successivi aggiornamenti; modifiche alle sole condizioni di lavoro sulla base di accordo sindacale). La Direttiva fornisce quindi un'ampia discrezionalità agli Stati membri nel gestire la flessibilità rispetto ai casi di trasferimenti di azienda di impresa insolvente. Il diritto italiano si è sempre caratterizzato per condizionare la derogabilità dell'art. 2112 c.c. sotto il profilo della continuità dei rapporti di lavoro, all'esistenza di previ accordi sindacali in tal senso (v. art. 47, co., 5, L. n. 428/1990, nelle varie versioni succedutesi nel tempo; art. 63, co. 4, del d. lgs. 270/1999). Si tratta di scelta che è in sé da condividere, specialmente se accompagnata, come ora prevista in via embrionale dall'art. 4, co. 3, del Codice della Crisi, da un coinvolgimento sindacale nella gestione della crisi. L'unico caso in cui il diritto interno ammette la deroga alla continuità dei rapporti di lavoro anche senza accordo sindacale è quello della cessione liquidatoria nell'amministrazione straordinaria di grandi imprese operanti nel settore dei servizi pubblici essenziali (art. 5, co. 2-ter, del d.l. n. 347/2003, conv. con mod. in L. n. 39/2004 e successivamente modificato), che è poi quello della vicenda Alitalia qui esaminata, in cui appunto la cessione senza transito integrale del personale, come evidenziato dalla Corte d'Appello di Milano è avvenuta dopo consultazioni sindacali, ma senza che si fosse realizzato un accordo. Ma qui, a giustificazione della discrezionalità legislativa, sta l'evidente specificità, quanto non solo a dimensioni, ma anche ad interesse pubblico, delle operazioni di attuare. |