Lavoratore reintegrato a seguito di licenziamento illegittimo: limiti al potere datoriale di trasferimento ad altra sede

25 Settembre 2024

La sentenza in commento affronta la questione dei limiti che incontra il trasferimento del lavoratore se attuato, in via sostanzialmente contestuale, alla sua riammissione in servizio a seguito di ordine giudiziale di reintegra ex art. 18 L. n. 300/1970. La pronuncia, in conformità con precedenti approdi della giurisprudenza di legittimità, evidenzia come la fattispecie non possa essere risolta alla luce dei soli criteri di cui all'art. 2103 c.c., ma richieda condizioni di tutela aggiuntive della posizione giuridica del lavoratore, posto che la coincidenza fra reintegra e trasferimento può risultare sintomo di esercizio del potere aziendale eccedente le finalità di legge.

Massima

Il diritto del lavoratore alla reintegrazione nel posto di lavoro ex art. 18 Stat. lav. comporta che vada anche reimmesso nell'unità produttiva in cui era già occupato, mentre per un suo trasferimento ad altra unità produttiva, disposto in via sostanzialmente contestuale, non è sufficiente la sussistenza delle ragioni imprenditoriali (tecniche, organizzative e produttive) di cui all'art. 2103 c.c., essendo necessario che sia anche comprovata la inutilizzabilità, dell'interessato, nella sede di originaria appartenenza, inutilizzabilità che però non può essere rappresentata dalla assunzione, medio tempore, di altro lavoratore in via sostitutiva, o dalla soppressione della posizione lavorativa già ricoperta.

Il caso e la questione giuridica

L'accertamento giudiziale di illegittimità del licenziamento e le modalità secondo cui il datore deve portare a compimento l'ordine di ripristino del rapporto di lavoro.

La fattispecie oggetto della sentenza in commento attiene alla disciplina della reintegra del lavoratore, a seguito di accertamento giudiziale di illegittimità del licenziamento intimatogli, e permette di indagare e approfondire le modalità secondo cui il datore deve portare a compimento l'ordine di ripristino del rapporto di lavoro. Nello specifico il quesito che si pone è se il lavoratore reintegrato ha diritto a esserlo all'interno della medesima unità produttiva nella quale era anteriormente impiegato, oppure possa essere adibito, quindi trasferito, ad un'altra unità produttiva.

In effetti, la reintegra/ripristino del rapporto, che giuridicamente si concreta in una saldatura retroattiva della continuità temporale del medesimo, porta, di per sé, a ipotizzare (sul piano giuridico-formale) un pieno ritorno allo status quo ante, cioè alla situazione in essere al momento della illegittima espulsione dal contesto lavorativo.

Nel caso in oggetto, il lavoratore ricorrente aveva anzitutto ottenuto soddisfazione nei due gradi di merito: in particolare la Corte di Appello – confermando la pronuncia di primo grado – aveva ribadito l'illegittimità del trasferimento ex art. 2013 c.c. disposto in via contestuale al rientro in servizio del lavoratore, conseguente alla sua reintegrazione ai sensi dell'art. 18 l. n. 300/1970.

La sentenza d'appello viene impugnata dall'azienda in Cassazione sul presupposto della errata applicazione degli artt. 2013 c.c. e art. 18 l. n. 300/1970cit.

Afferma la ricorrente che il principio contenuto nell'art. 2103 c.c., in forza del quale il trasferimento è legittimato dalla sussistenza di comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive, è applicabile – nei medesimi termini – anche quando la modifica del posto di lavoro riguardi il dipendente riammesso in servizio a seguito di reintegrazione nel posto di lavoro.

In pratica, anche in tale particolare evenienza – viene affermato nei motivi di ricorso – la sussistenza delle richiamate ragioni è condizione necessaria, ma anche sufficiente perché l'azienda eserciti il potere, che le spetta, di ricollocamento spaziale del lavoratore fra le unità produttive in cui si articola la propria struttura.

Ciò in contrapposizione con quanto affermato nella sentenza del giudice d'appello ai sensi della quale il potere di trasferire il lavoratore – quindi, sostanzialmente, di reintegrarlo (ex art. 18 cit.) in unità produttiva diversa da quella cui era addetto al momento del licenziamento – è esercitabile solo allorché venga comprovata la inutilizzabilità del dipendente presso la sede originaria. Ipotesi in cui la legittimità del trasferimento deriverebbe da una oggettiva inevitabilità dello stesso.

La soluzione giuridica

La sentenza di Cassazione

La Cassazione ritiene infondato il ricorso e disconosce la validità degli argomenti svolti dal ricorrente nei motivi di ricorso.

Si tratta in sostanza di valutare se il potere datoriale disciplinato dall'art. 2103 cit. debba, o meno, fondarsi sui medesimi presupposti, tanto nel caso di suo esercizio nel corso dell'ordinario svolgimento del rapporto di lavoro, quanto nel caso di esercizio nei confronti del lavoratore che rientri in azienda a seguito di reintegra giudiziale.

In termini generali, nel valutare gli approdi della sentenza di legittimità, va rammentato come l'art. 2103 c.c. conferisca un potere unilaterale al datore di lavoro, atto a incidere sulla vita non solo lavorativa del dipendente, le cui condizioni legittimanti sono quelle condensate nella formula delle “ragioni tecniche organizzative e produttive”, quindi della sua funzionalità al perseguimento del fine imprenditoriale (art. 41 Cost.).

In tale prospettiva, non è richiesto – di regola – che il datore di lavoro, nel disporre della detta prerogativa, dia anche prova della inevitabilità del trasferimento sotto il profilo della inutilizzabilità del dipendente nella unità produttiva a quo; né, d'altra parte, di tale ulteriore condizione, vi è traccia alcuna nella norma (già Cass. n. 5432/1987).

La Corte, tuttavia, conformandosi e richiamando il costante indirizzo della propria giurisprudenza, evidenzia la divergenza della fattispecie portata alla sua attenzione, rispetto al “paradigma-tipo” di cui all'art. 2103 c.c. Viene in tal senso rilevato che “il diritto al ripristino del rapporto [del lavoratore reintegrato] comporta che debba essere comprovata la inutilizzabilità nella sede di destinazione [cioè di precedente appartenenza], resistendo la reintegra al potere di trasferimento ed introducendo un ulteriore limite a quello previsto dall'art. 2103 c.c.”.

Ciò viene messo in rapporto con la connotazione di potere privato del diritto datoriale al trasferimento, il che lo rende assimilabile, quanto a limiti di esercizio, ai poteri pubblici delle pA, nei quali, alla funzione “intrinseca” cui il potere è finalizzato, si affianca “il vincolo negativo dell'eccesso di potere, nella classica figura sintomatica dello sviamento di potere (si deve evitare che la ragione tecnica organizzativa sia addotta solo formalmente dall'imprenditore, ma allo scopo di coprire o dissimulare un motivo illecito, persecutorio, di ritorsione, ecc.)”.

Tali argomentazioni sembrano indicare che la prova di inutilizzabilità del lavoratore reintegrato nella sede “originaria” – quale condizione aggiuntiva per l'esercizio del potere di trasferimento – si correli a una sorta di presunzione di eccesso o sviamento, ogni volta che ci si limiti a indicare ragioni tecniche organizzative produttive (nel caso di specie, peraltro, risulta che fosse stata affermata ma non provata dal ricorrente detta inutilizzabilità).

In tal modo, evidenzia la Cassazione, si realizza una maggior tutela sul fronte probatorio, in quanto l'onere di provare tale impossibilità grava sul datore di lavoro, mentre – in assenza di tale elemento aggiuntivo, esterno alla fattispecie ex art. 2103 cit. – incomberebbe sul lavoratore l'onere di dimostrare il carattere discriminatorio/ritorsivo del trasferimento in concomitanza di reintegra (seppur con l'ausilio delle presunzioni semplici di cui all'art. 2729 c.c.).

Sul punto, viene altresì sottolineato come la società ricorrente, nelle more del giudizio di impugnativa del licenziamento, avesse disposto l'assegnazione al reparto cui era già addetto il lavoratore licenziato e reintegrato, di un altro lavoratore (che, seppur non esplicitato, sembra dedursi esser stato destinato alle mansioni del primo).

Precisa in proposito la Corte che “tale circostanza non poteva tuttavia essere invocata dalla parte datoriale a giustificazione dell'impossibilità di ricollocare il lavoratore nella sede di spettanza e del conseguente trasferimento, in quanto l'ordine di reintegrazione nel posto di lavoro esige che il lavoratore sia in ogni caso ricollocato nel posto di lavoro da ultimo occupato, salva la facoltà di disporre con un successivo provvedimento il trasferimento ad altra sede”.

Tale impostazione tiene conto di un omogeneo indirizzo di legittimità, richiamato anche dal giudice d'appello (Cass. 12123/2002), in forza del quale risulta ulteriormente evidenziato che, sia nel caso in cui il lavoratore - poi reintegrato - sia stato sostituito con altro, sia nel caso in cui sia stato soppresso il relativo posto di lavoro, la ricollocazione successiva alla reintegra deve avvenire, comunque, nella medesima sede di lavoro, in un caso nel posto e nelle mansioni già svolte, nell'altro in mansioni equivalenti.

Ciò con l'unica deroga, come visto, della dimostrata impossibilità di tali effetti, dovuta a insussistenza di posti comportanti l'espletamento delle ultime mansioni o di mansioni equivalenti.

Osservazioni

Come già accennato, l'aspetto qualificante della vicenda è quello che porta a escludere che il trasferimento del lavoratore reintegrato trovi integrale compimento all'interno dell'art. 2103 c.c.

All'interno di tale norma, infatti, non è ricompreso il requisito della impossibilità dell'utilizzo nella sede “originaria” del lavoratore, quale fondamento della legittimità del trasferimento; requisito esterno alla disposizione, frutto di elaborazione a livello interpretativo, che tuttavia assume rilevanza decisiva rispetto alla ipotesi considerata.

Ciò posto, alla luce di quanto evidenziato, emerge chiaramente come la reintegra del dipendente di cui sia accertato giudizialmente l'illegittimo licenziamento, comporta, non già una generica riammissione dello stesso in azienda, ma una ricostituzione della sua posizione giuridica secondo le caratteristiche quo ante.

Quindi, fra l'altro, la riammissione in servizio del lavoratore sconta l'adibizione alle medesime mansioni e allo stesso posto di lavoro già prima occupati, salva ovviamente, nel prosieguo del rapporto, la possibilità per il datore di modificare le une (mansioni) e l'altro (luogo di lavoro) al ricorrere ovviamente dei presupposti giustificativi di cui all'art. 2103 c.c.

Ecco che quindi la illegittimità del trasferimento contestuale alla riammissione in servizio, è tale in quanto, in definitiva, lo spostamento ad altra sede fa presumere l'esistenza di un obiettivo ultroneo (e “anomalo”) rispetto alle finalità, strettamente imprenditoriali, in vista del cui perseguimento deve essere esercitato il potere datoriale.

Tale presunzione, come evidenziato nella ricostruzione dei contenuti della sentenza, può essere vinta solo se venga provata l'impossibilità di riallocare il lavoratore nella sede di provenienza e ciò non può essere conseguenza né di assunzione, medio termine, di altro lavoratore, né di soppressione della posizione lavorativa già occupata dal reintegrato (che, in tal caso, va adibito a mansioni equivalenti).

Manifesta ipotesi di impossibilità di ricollocamento nella sede originaria si ha, evidentemente, nel caso di soppressione della complessiva unità produttiva di appartenenza. Delicata, invece, e degna di valutazione caso per caso, appare l'ipotesi di trasferimento per incompatibilità ambientale (determinatasi ante licenziamento), fattispecie rispetto alla quale la giurisprudenza in passato ha ritenuto ricorrano gli estremi per l'esercizio del potere di cui all'art. 2103 c.c. (v. per es. Cass. n. 12735/2003). Nel caso di specie si tratterebbe, tuttavia, di verificare se la incompatibilità ambientale possa integrare la impossibilità di ricollocamento nella sede originaria.

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