Della transazione fiscale nella composizione negoziata e in specie della falcidiabilità dell’imposta sul valore aggiunto; ovvero «adelante, Pedro, con juicio»
Stefano Morri
Francesco Daniele Di Donato
24 Settembre 2024
Il contributo intende dimostrare come l’imposta sul valore aggiunto non rientri tra i «tributi costituenti risorse proprie dell’Unione europea» per i quali il comma 2-bis dell’art. 23 c.c.i.i., come modificato dal terzo decreto correttivo, esclude la possibilità di transazione fiscale nell’ambito della composizione negoziata. Si rileva, tuttavia, come il legislatore italiano abbia comunque circondato il (solo) creditore erariale con una serie di cautele tali da aggravare fortemente il procedimento di composizione negoziata.
Inquadramento
Il terzo cecreto correttivo del codice della crisi approvato in prima lettura dal Consiglio dei Ministri il 10 giugno 2024 (il “Terzo Correttivo”) e poi, definitivamente, il 4 settembre, ha esteso la transazione fiscale – già prevista per gli accordi di ristrutturazione del debito e per il concordato preventivo – anche ad altri strumenti di regolazione della crisi, tra cui, in particolare, la composizione negoziata della crisi (articolo 23 c.c.i.i.), il piano di ristrutturazione soggetto ad omologazione (c.d. PRO, art. 64-bis c.c.i.i.) e il concordato attuato nell'ambito della liquidazione giudiziale (art. 245 c.c.i.i.).
In questo contributo ci occuperemo della novella che investe la composizione negoziata.
Si tratta di un intervento tanto atteso quanto opportuno, essendo unanime il giudizio che la composizione negoziata della crisi, che tanto incarna i valori e le aspettative della direttiva Insolvency, è attualmente assai dimidiata dalla carenza dello strumento della transazione fiscale (e contributiva). Tuttavia, rispetto alle versioni circolate fino a qualche tempo fa, il Terzo Correttivo, come finalmente uscito dal Consiglio dei Ministri e vagliato dalle Commissioni parlamentari, presenta una versione di transazione fiscale con tre rilevanti limitazioni, non potendo utilizzarsi l'istituto transattivo (1) per la definizione dei contributi e premi previdenziali, assistenziali e assicurativi, (2) per i tributi locali, (3) nonché per i tributi costituenti risorse proprie dell'Unione europea.
Il nuovo comma 2-bis dell'art. 23 c.c.i.i. prevede infatti: «Nel corso delle trattative l'imprenditore può formulare una proposta di accordo transattivo alle agenzie fiscali e all'Agenzia delle entrate-Riscossione che prevede il pagamento, parziale o dilazionato, del debito e dei relativi accessori. La proposta non può essere formulata in relazione ai tributi costituenti risorse proprie dell'Unione europea. (…)».
Ferma la critica per le prime due limitazioni su elencate, il presente contributo si appunterà in particolare sul senso della formula di legge che prevede l'esclusione dei tributi costituenti risorse proprie dell'Unione europea per dimostrare che essa non riguarda, e ciò riteniamo essere decisivo per l'efficacia pur ridotta dell'innovazione, l'imposta sul valore aggiunto.
La nozione di risorse proprie dell'Unione europea
Per comprendere la portata della limitazione costituita dalle risorse “proprie” l'analisi deve muovere dalla relativa disciplina, come fissata dal diritto dell'Unione europea.
Tali risorse rappresentano la principale entrata del bilancio UE e corrispondono ai trasferimenti effettuati dagli Stati membri a profitto del bilancio comunitario al fine di garantire il finanziamento delle spese dell'Unione europea, in modo da realizzarne l'autonomia finanziaria. L'istituto trova il suo fondamento nell'art. 311 del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea (TFUE), in virtù del quale la UE ha il potere di provvedere con propri mezzi per finanziare le sue azioni e ha una certa discrezionalità nella scelta di tali mezzi finanziari, a patto che rispetti la disciplina di bilancio prevista dallo stesso Trattato (l'art. 311 TFUE prevede: «l'Unione si dota dei mezzi necessari per conseguire i suoi obiettivi e per portare a compimento le sue politiche. Il bilancio, fatte salve le altre entrate, è finanziato integralmente tramite risorse proprie»).
Agli inizi del processo di costruzione europea, il bilancio della Comunità europea (CE) era alimentato con contributi finanziari dei vari Stati membri. Successivamente, con la Decisione del Consiglio delle Comunità Europee del 21 aprile 1970, i contributi degli Stati membri sono stati sostituiti dalle risorse proprie, secondo le modalità previste dalla stessa Decisione, al fine di assicurare l'equilibrio del bilancio delle Comunità.
Ai sensi dell'art. 2 della Decisione, a decorrere dal 1° gennaio 1971, costituivano risorse proprie iscritte nel bilancio delle Comunità le entrate provenienti:
«a) dai prelievi, supplementi, importi supplementari o compensatori, importi o elementi addizionali e dagli altri diritti fissati o da fissare dalle istituzioni delle Comunità sugli scambi con i paesi non membri nel quadro della politica agricola comune, nonché dai contributi e altri diritti previsti nel quadro dell'organizzazione comune dei mercati nel settore dello zucchero, in appresso denominati “prelievi agricoli”;
b) dai dazi della tariffa doganale comune e dagli altri diritti fissati o da fissare dalle istituzioni delle Comunità sugli scambi con i paesi non membri, in appresso denominati “dazi doganali”.
Le risorse proprie sono state quindi originariamente individuate in relazione ad operazioni di scambio internazionale con Paesi non membri della Comunità europea nonché nel contesto della politica agricola. Era comunque prevista la possibilità di far rientrare nel loro novero anche altri tributi che sarebbero stati istituiti, nell'ambito di una politica comune, conformemente alle disposizioni del trattato istitutivo della Comunità economica europea o del trattato istitutivo della Comunità europea dell'energia atomica.
Attualmente le risorse proprie dell'Unione europea sono individuate nella Decisione n. 2020/20253 del Consiglio dell'Unione europea del 14 dicembre 2020 – che abroga la precedente 2014/335/UE – secondo cui, al primo considerando, il sistema di risorse proprie dell'Unione deve garantire il corretto sviluppo delle politiche dell'Unione, ferma restando la necessità di una rigorosa disciplina di bilancio.
Ai sensi dell'art. 2, par. 1 della citata Decisione, sono previste quattro categorie di risorse proprie:
le risorse c.d. tradizionali, ovvero quelle che includono principalmente i dazi doganali sulle importazioni nell'Unione;
le risorse basate sull'imposta sul valore aggiunto, corrispondenti ad un'aliquota dello 0,3%, limitata al 50% del suo reddito nazionale lordo applicata al gettito dell'imposta sul valore aggiunto armonizzata di ogni paese dell'Unione;
le risorse basate sul reddito nazionale lordo che si determinano applicando un'aliquota percentuale uniforme al reddito nazionale lordo di ciascun Paese. La percentuale è regolata in modo che le entrate complessive corrispondano al livello concordato dei pagamenti. Si tratta questa della principale fonte di entrate dell'UE, e
le risorse basate sul peso della plastica non riciclata. A partire dal 1° gennaio 2021, è prevista una nuova risorsa propria dell'Unione corrispondente ad un contributo dei Paesi dell'Unione determinato in base ad un'aliquota applicata al peso dei rifiuti di imballaggi in plastica non riciclati [questo il tenore letterale dell'art. 2, par. 1 della Decisione del Consiglio dell'Unione europea del 14 dicembre 2020, stabilisce che «costituiscono risorse proprie iscritte nel bilancio dell'Unione le entrate provenienti: a) dalle risorse proprie tradizionali costituite da prelievi, premi, importi supplementari o compensativi, importi o elementi aggiuntivi, dazi della tariffa doganale comune e altri dazi fissati o da fissare da parte delle istituzioni dell'Unione sugli scambi con paesi terzi, dazi doganali sui prodotti che rientrano nell'ambito di applicazione del trattato, ormai scaduto, che istituisce la Comunità europea del carbone e dell'acciaio, nonché contributi e altri dazi previsti nell'ambito dell'organizzazione comune dei mercati nel settore dello zucchero; b) dall'applicazione di un'aliquota uniforme di prelievo dello 0,30 % per tutti gli Stati membri al gettito IVA totale riscosso per tutte le forniture imponibili diviso per l'aliquota IVA media ponderata calcolata per l'anno civile pertinente, come previsto dal regolamento (CEE, Euratom) n. 1553/89 del Consiglio. Per ciascuno Stato membro, la base imponibile IVA da prendere in considerazione a tal fine non supera il 50 % dell'RNL; c) dall'applicazione di un'aliquota uniforme di prelievo sul peso dei rifiuti di imballaggio di plastica non riciclati generati in ciascuno Stato membro. L'aliquota uniforme di prelievo è pari a 0,80 EUR per chilogrammo. Ad alcuni Stati membri si applica una riduzione forfettaria annua definita al paragrafo 2, terzo comma; d) dall'applicazione di un'aliquota uniforme di prelievo, da determinare nel quadro della procedura di bilancio, tenuto conto di tutte le altre entrate, alla somma dell'RNL di tutti gli Stati membri»].
La controversa questione della falcidiabilità dell'imposta sul valore aggiunto nelle procedure concorsuali
Tanto premesso sulla natura delle risorse proprie, veniamo al problema specifico della assimilabilità ad esse del gettito riveniente dall'imposta sul valore aggiunto e della sua conseguente disponibilità da parte degli Stati nazionali.
L'analisi di tale questione non può che partire del diritto dell'Unione, in particolare dalla “Direttiva IVA” da cui – in base al combinato disposto degli artt. 2, 250 e 273 – scaturisce che gli Stati membri hanno l'obbligo di adottare tutte le misure legislative e amministrative atte a garantire il prelievo integrale dell'imposta sul valore aggiunto nel loro territorio (ai sensi dell'art. 250, par. 1 della Direttiva IVA «ogni soggetto passivo deve presentare una dichiarazione IVA in cui figurino tutti i dati necessari per determinare l'importo dell'imposta esigibile e quello delle detrazioni da operare, compresi, nella misura in cui sia necessario per la determinazione della base imponibile, l'importo complessivo delle operazioni relative a tale imposta e a tali detrazioni, nonché l'importo delle operazioni esenti”, mentre il successivo art. 273, par. 1 prevede che “Gli Stati membri possono stabilire, nel rispetto della parità di trattamento delle operazioni interne e delle operazioni effettuate tra Stati membri da soggetti passivi, altri obblighi che essi ritengono necessari ad assicurare l'esatta riscossione dell'IVA e ad evitare le evasioni, a condizione che questi obblighi non diano luogo, negli scambi tra Stati membri, a formalità connesse con il passaggio di una frontiera»).
Tali norme, unitamente all'art. 4 del Trattato UE, secondo cui: «Gli Stati membri adottano ogni misura di carattere generale o particolare atta ad assicurare l'esecuzione degli obblighi derivanti dai trattati o conseguenti agli atti delle istituzioni dell'Unione», hanno finito per attribuire una presunta superiorità alle risorse dell'Unione, tra le quali la giurisprudenza unionale ed interna di legittimità ha ricompreso anche l'imposta sul valore aggiunto. Emblematica al riguardo è la sentenza Cass., sez. I, 4 novembre 2011, n. 22931 con cui si afferma che l'imposta sul valore aggiunto è un tributo «individuato quale parametro per il trasferimento di risorse all'Unione e la cui gestione, sia normativa che esecutiva, è di interesse comunitario e come tale soggetto a vincoli» (nello stesso senso Cass., sez. I, 4 novembre 2011, n. 22932, Cass., sez. trib., 16 maggio 2012, n. 7667, Cass., sez. I, 30 aprile 2014, n. 9541, Cass., sez. I, 25 giugno 2012, n. 14447, Cass., sez. VI, 9 febbraio 2016, n. 2560) a cui si uniscono alcune pronunce della Corte di Giustizia UE di condanna per l'Italia a seguito dell'introduzione di misure di definizione agevolata e condoni in materia di imposta sul valore aggiunto, considerati «una rinuncia generale e indiscriminata al potere di verifica e rettifica da parte dell'Amministrazione finanziaria» (ex pluribus: sentenza della Corte di Giustizia UE, 17 luglio 2008, Causa C-132/06 in relazione ai condoni di cui agli artt. 8 e 9 della l. n. 289/2002), tanto che nella relazione illustrativa al disegno di conversione del d.l. n. 185/2008 si afferma che la non falcidiabilità dell'imposta sul valore aggiunto «è scaturita dalla necessità di non contravvenire alla normativa comunitaria che vieta allo Stato membro di disporre una rinuncia generale, indiscriminata e preventiva al diritto di procedere ad accertamento e verifica della stessa imposta».
In recepimento a questo inziale indirizzo interpretativo, con riferimento alle procedure concorsuali e alla disciplina della transazione fiscale, l'art. 182-ter l. fall., nella versione in vigore a decorrere dal 2010, prevedeva la sostanziale infalcidiabilità dell'imposta sul valore aggiunto: «Con il piano di cui all'articolo 160 il debitore può proporre il pagamento, parziale o anche dilazionato, dei tributi amministrati dalle agenzie fiscali e dei relativi accessori, nonché dei contributi amministrati dagli enti gestori di forme di previdenza e assistenza obbligatorie e dei relativi accessori, limitatamente alla quota di debito avente natura chirografaria anche se non iscritti a ruolo, ad eccezione dei tributi costituenti risorse proprie dell'Unione europea; con riguardo all'imposta sul valore aggiunto ed alle ritenute operate e non versate, la proposta può prevedere esclusivamente la dilazione del pagamento». Di analogo tenore l'art. 7 della l. n. 3/2012 in tema di sovraindebitamento che prevedeva espressamente l'impossibilità di falcidiare l'imposta sul valore aggiunto: «In ogni caso, con riguardo ai tributi costituenti risorse proprie dell'Unione europea, all'imposta sul valore aggiunto ed alle ritenute operate e non versate, il piano può prevedere esclusivamente la dilazione del pagamento».
Da notare che fin da allora era chiara alla giurisprudenza, e al legislatore che la recepì, la distinzione tra tributo costituente risorsa propria e imposta sul valore aggiunto: il primo oggetto di un diritto diretto e immediato dell'Unione europea, la seconda semplice base di computo di una risorsa propria. In questo senso in fatti la giurisprudenza si appuntava sul dovere dello Stato italiano di non disporre rinunzie generali, ma di vagliare criticamente caso per caso; e in questo senso il legislatore italiano scriminava tra tributi-risorse proprie (intangibili) e imposta sul valore aggiunto (tangibile ma con il limite della infalcidiabilità).
Che questo fosse l'approccio corretto trovò conferma presto nella giurisprudenza comunitaria. Con la sentenza della Corte di Giustizia UE del 7 aprile 2016 Causa C-546/14 si ammise finalmente la legittimità di un pagamento parziale di un credito IVA da parte di un imprenditore in stato di insolvenza nell'ambito di una procedura di concordato preventivo senza transazione fiscale (la procedura di concordato preventivo senza transazione fiscale offriva numerose garanzie a favore dei creditori privilegiati, tra cui la liquidazione dell'intero patrimonio del debitore, l'attribuzione del diritto voto a tutti i creditori con soddisfacimento parziale e l'approvazione da parte della maggioranza dei crediti ammessi. A tal proposito, la sentenza della Corte di Giustizia UE del 7 aprile 2016, al par. 24 ha affermato: «(…) la procedura di concordato preventivo, come descritta dal giudice del rinvio ed esposta ai punti da 6 a 8 della presente sentenza, è soggetta a presupposti di applicazione rigorosi, allo scopo di offrire garanzie per quanto concerne, in particolare, il recupero dei crediti privilegiati e pertanto dei crediti IVA») proprio sulla constatazione che essa non costituisce affatto una rinuncia generale e indiscriminata alla riscossione dell'imposta sul valore aggiunto – essendo oggetto di un procedimento estremamente presidiato dai diversi portatori di interessi e dalla autorità giudiziaria – e non è contraria all'obbligo degli Stati membri di garantire il prelievo integrale dell'imposta sul valore aggiunto nel loro territorio nonché la riscossione effettiva delle risorse proprie dell'Unione [secondo la Corte di Giustizia UE nella richiamata sentenza, al par. 28: «l'ammissione di un pagamento parziale di un credito IVA, da parte di un imprenditore in stato di insolvenza, nell'ambito di una procedura di concordato preventivo che, a differenza delle misure di cui trattasi nelle cause che hanno dato origine alle sentenze Commissione/Italia (C-132/06, EU:C:2008:412) e Commissione/Italia (C-174/07, EU:C:2008:704) cui fa riferimento il giudice del rinvio, non costituisce una rinuncia generale e indiscriminata alla riscossione dell'IVA, non è contraria all'obbligo degli Stati membri di garantire il prelievo integrale dell'IVA nel loro territorio nonché la riscossione effettiva delle risorse proprie dell'Unione»].
Tale sentenza, i cui principi sono stati recepiti dalle successive pronunce della Cassazione a Sezioni Unite del 27 dicembre 2016, n. 26988 e 13 gennaio 2017, n. 760 (Presidente Rodorf), ha sostanzialmente consacrato come il quadro normativo in vigore non consenta di poter affermare in maniera certa ed incondizionata che nell'ordinamento unionale esista un precetto che obbliga gli Stati membri a ricevere un pagamento (soltanto) integrale dell'imposta sul valore aggiunto da parte di un debitore insolvente.
Tale principio trovò riflesso nella revisione dell'art. 182-ter l. fall.che, addirittura, andò oltre, eliminando ogni riferimento non solo all'imposta sul valore aggiunto ma anche ai tributi costituenti risorse proprie (quindi per intenderci anche ai dazi), e così aprendo la via alla falcidiabilità dell'imposta sul valore aggiunto nell'ambito della transazione fiscale (per gli accordi di ristrutturazione) e del trattamento dei debiti tributari (nel concordato preventivo). Dal 2020 è stato espunto anche dalla legge n. 3/2012 sul sovraindebitamento il riferimento alla possibilità di beneficiare esclusivamente di una dilazione ai fini della definizione dell'imposta sul valore aggiunto, ammettendosi quindi la sua falcidiabilità.
Il successivo d.lgs. n. 14/2019, che ha introdotto il codice della crisi, ha sostanzialmente reintrodotto la disciplina della transazione fiscale e del trattamento dei debiti tributari, già riportata nella legge fallimentare, negli accordi di ristrutturazione e nel concordato preventivo.
La possibilità di falcidiare l'IVA nella composizione negoziata della crisi
Così delineato il quadro normativo e giurisprudenziale con riferimento alla disciplina sottesa alla composizione negoziata della crisi è possibile concludere per la possibilità di definire, nell'ambito della composizione negoziata e nel corrispondente procedimento di transazione fiscale, il pagamento parziale e/o dilazionato dell'imposta sul valore aggiunto.
Quest'ultima infatti, pur essendo fonte di una risorsa propria dell'Unione europea, attraverso il meccanismo di calcolo dello 0,3% del suo gettito [cfr. a riguardo la citata sentenza della Corte di Giustizia UE del 7 aprile 2016 che, al par. 22, precisa come sussista (soltanto) un nesso diretto tra la riscossione del gettito dell'IVA, nell'osservanza del diritto dell'Unione, e la messa a disposizione del bilancio dell'Unione delle corrispondenti risorse IVA, posto che qualsiasi lacuna nella riscossione del primo determina potenzialmente una riduzione delle seconde], non è, sul piano tecnico, un tributo costituente una risorsa propria dell'Unione europea, quindi non rientra nell'esclusione prevista dal Terzo Correttivo, il quale, a differenza della formula dell'art. 182-ter l. fall. non cita separatamente tale imposta per limitare il potere di disposizione dell'Ufficio alla semplice dilazione e non allo stralcio.
Neppure per l'imposta sul valore aggiunto all'importazione, prevista dall'art. 70 del d.p.r. n. 633/1972 ed oggetto talvolta di alcune limitazioni in ordine alla possibilità di rientrare nell'ambito di applicazione di alcuni interventi concernenti la definizione agevolata [un esempio è rappresentato dall'art. 1, comma 186 della l. n. 197/2022 (c.d. Legge di Bilancio 2023) relativo alla definizione agevolata delle liti pendenti, secondo cui non è possibile ricorrere allo strumento agevolativo per i processi aventi ad oggetto gli atti di recupero degli aiuti di Stato e le risorse proprie dell'Unione europea, inclusa l'Iva all'importazione], vi sono dubbi in ordine al fatto che la stessa non rappresenti un tributo costituente risorsa propria dell'Unione. Al riguardo, si rileva che il codice doganale dell'Unione Europea definisce chiaramente i presupposti che caratterizzano l'obbligazione doganale come l'obbligo di corrispondere l'importo del dazio all'importazione (articolo 5, punto 18). In tale definizione, quindi, non rientra l'imposta versata in dogana, con la conseguenza che la stessa non può qualificarsi un dazio doganale. La giurisprudenza – interna ed unionale – ha confermato questa tesi, precisando come l'imposta sul valore aggiunto dovuta all'atto dell'importazione, pur essendo liquidata e riscossa con modalità operative analoghe ai diritti doganali, non può essere sussunta tra i diritti di confine al pari dei dazi in senso proprio, bensì è parte dei tributi interni sui consumi (Corte di Giustizia UE, Gaston Schul, 5 maggio 1982 Causa 15-81, Corte di Giustizia UE, Drexl, 25 febbraio 1988 Causa 299-86 e Cass., sez. trib., 27 luglio 2022, n. 23526).
Ulteriore conferma circa l'impossibilità di classificare l'imposta sul valore aggiunto tra i tributi costituenti risorse dell'Unione si ottiene dalla disciplina dei privilegi di cui all'art. 2783-ter c.c. secondo cui «I crediti dello Stato attinenti alle risorse proprie tradizionali di cui all'articolo 2, paragrafo 1, lettera a), della decisione n. 2007/436/CE/Euratom del Consiglio, del 7 giugno 2007, di pertinenza del bilancio generale dell'Unione europea sono equiparati, ai fini dell'applicazione delle disposizioni del presente capo, ai crediti dello Stato per l'imposta sul valore aggiunto». In tal caso, la necessità di equiparare la disciplina evidenzia la sussistenza di diversità concettuale e giuridica tra l'imposta sul valore aggiunto e le risorse proprie dell'Unione.
I presidi richiesti dal legislatore per la falcidia
Il Terzo Correttivo nella versione finalmente approvata dal Governo, a differenza della menzionata versione precedentemente circolata sulla stampa specializzata, prevede un duplice onere a carico del debitore in stato di pre-crisi: allegare alla proposta un'attestazione di un professionista che evidenzi la convenienza rispetto all'alternativa liquidatoria e una relazione redatta dal soggetto incaricato della revisione legale – se esistente – o da un revisore legale iscritto nell'apposito registro a tal fine designato circa la completezza e la veridicità dei dati aziendali.
Non è poi riprodotta la previsione sempre contenuta nella bozza di Terzo Correttivo circolata in precedenza secondo cui «All'accordo di cui al primo periodo e a ogni altro accordo sottoscritto nel corso delle trattative avviate ai sensi dell'articolo 17, comma 5, tra l'imprenditore e una delle amministrazioni pubbliche di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, si applica l'articolo 1, comma 1.1, della legge 14 gennaio 1994, n. 20», che limitava la responsabilità contabile del funzionario ai fatti ed alle omissioni commessi con dolo o colpa grave, definita quest'ultima come negligenza inescusabile derivante dalla grave violazione della legge o dal travisamento dei fatti.
Tali innovazioni da un lato aggravano fortemente il procedimento di composizione negoziata e dall'altro pongono il pubblico funzionario che deve sottoscrivere gli accordi in una posizione di maggior rischio di essere perseguito per responsabilità contabile.
Oltre all'usuale cautela del legislatore in punto di trattamento del debito tributario, si sente qui anche l'eco del dibattito giurisprudenziale sulla disponibilità dell'imposta sul valore aggiunto da parte dello Stato italiano. Forse, aggravando gli adempimenti a carico del debitore che persegue l'accordo con il Fisco, si intende evitare la censura comunitaria di lasciare all'arbitrio della Pubblica Amministrazione la riscossione dell'imposta. Ma si tratta in verità di prudenza eccessiva perché la composizione negoziata è un procedimento soggetto a più che sufficienti cautele – anche giudiziarie in caso di (frequente) accesso a misure cautelari e protettive – e avviene sotto la vigilanza dell'esperto che ha accesso a numerose informazioni che può condividere con gli Uffici nell'ambito di quelle leali trattative che la legge vuole si svolgano (art. 16, comma 6, c.c.i.i.).
Un altro aspetto che non è chiarito dalla norma è se la convenienza, su cui il revisore deve esercitare la sua attestazione, rispetto alla alternativa liquidatoria si ponga in modo statico o dinamico. Nel primo caso, si dovrebbe tenere conto soltanto di quanto il debitore paga allo Stato per il debito pregresso; nel secondo caso anche di quanto lo Stato verrebbe a incassare mercè la prosecuzione dell'impresa (ad esempio, sarebbe ragionevole considerare quanto l'impresa risanata generi nei primi tre anni dalla conclusione dell'accordo). Un esplicito riferimento a questo approccio lo si trova nell'art. 84, comma 4, c.c.i.i. che, a proposito del concordato in continuità aziendale così recita: «La proposta di concordato prevede per ciascun creditore un'utilità specificamente individuata ed economicamente valutabile, che può consistere anche nella prosecuzione o rinnovazione di rapporti contrattuali con il debitore o con il suo avente causa». La differenza non è di poco momento, e può decidere del successo o meno di una composizione.
La novella poi appare disarmonica rispetto alla natura stessa della procedura di composizione, strumento da adottare in un contesto early stage, comunque anteriore ad una conclamata insolvenza, nel quale la celerità della ristrutturazione può esser decisiva per salvare l'impresa.
Ma tant'è. Semmai, de iure condendo, ci si chiede come mai il Governo non abbia ritenuto, in un contesto tanto presidiato e cauteloso, di prevedere anche la transazione sui debiti contributivi e assicurativi e sui tributi locali.
Conclusioni
La transazione fiscale regolata dal comma 2-bis dell'art. 23 del codice della crisi, come modificato nel terzo decreto correttivo, riguarda i tributi e le imposte amministrati dalle Agenzie fiscali, con la sola eccezione dei «tributi costituenti risorse proprie dell'Unione europea».
Nel contributo abbiamo dimostrato come l'imposta sul valore aggiunto, pur essendo la base per il calcolo di una delle risorse proprie dell'Unione europea, non è tributo costituente risorsa propria. In tal senso, la formula di legge non esclude l'imposta sul valore aggiunto dai tributi oggetto di definizione transattiva, con la conseguenza che la transazione fiscale potrà prevedere la falcidia dell'imposta sul valore aggiunto.
Il legislatore – tuttavia – sembra che si sia fatto carico della natura particolare, in chiave comunitaria, dell'imposta sul valore aggiunto prevedendo un notevole aggravio di cautele in favore del (solo) creditore erariale che finisce per rendere la composizione negoziata caratterizzata da incombenti onerosi e, sotto alcuni aspetti, finanche inutili per il debitore. Ciò nell'ambito di uno strumento di regolazione che – non deve trascurarsi – è comunque concepito in un contesto di pre-crisi, ovvero in una situazione nella quale si dovrebbe privilegiare il regolare e rapido svolgimento della procedura, evitandosi un aggravio di costi.
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Sommario
La nozione di risorse proprie dell'Unione europea
La controversa questione della falcidiabilità dell'imposta sul valore aggiunto nelle procedure concorsuali
La possibilità di falcidiare l'IVA nella composizione negoziata della crisi