I criteri per la valutazione di un’attività economica di un soggetto passivo a fronte dei servizi resi da un’associazione senza scopo di lucro

08 Ottobre 2024

La Corte UE, con sentenza resa in C-87/23, ha definito le ragioni per cui le attività di formazione fatturate da un'associazione senza scopo di lucro, la cui effettiva realizzazione è subappaltata a terzi, e che hanno beneficiato di sovvenzioni provenienti da fondi europei, sono soggette ad IVA.

Massima

L'articolo 2, paragrafo 1, lettera c), della direttiva n. 112/2006/112/CE, relativa al sistema comune d'imposta sul valore aggiunto, dev'essere interpretato nel senso che costituiscono prestazioni di servizi effettuate a titolo oneroso le prestazioni di servizi di formazione fatturate da un'associazione senza scopo di lucro, essenzialmente subappaltate a terzi e che hanno beneficiato di sovvenzioni provenienti da fondi europei che possono ammontare fino al 70% dell'importo totale di tali prestazioni, senza che trovi applicazione l'articolo 28 di tale direttiva, in mancanza di un espresso contratto di mandato che consenta di dimostrare l'esistenza di una prestazione di servizi fornita da un soggetto passivo in nome proprio e per conto terzi.

Il caso

La vicenda odierna riguarda un'associazione senza scopo di lucro di diritto lettone che, nel 2016, stipulava con l'Agenzia centrale per i finanziamenti e i contratti (CFLA) un contratto di attuazione per la realizzazione di due progetti di formazione finanziati dal Fondo europeo di sviluppo regionale (FESR), relativi ad un progetto di formazione rispettivamente dei professionisti della tecnologia dell'informazione e della comunicazione (il progetto ICT) e dei piccoli e micro operatori economici (il progetto PMOE), laddove l'offerente, nell'ambito del primo progetto, poteva essere un'associazione e, nell'ambito del secondo progetto, un'associazione o un'amministrazione pubblica.

Quanto al progetto ICT, coesistevano due prestazioni di servizi, la prima che vincola il destinatario della formazione all'associazione, la quale percepisce dal primo l'intero prezzo richiesto unitamente all'IVA corrispondente, nonché, in taluni casi, le commissioni di gestione pari al 5 o al 10% dell'importo dell'aiuto concesso all'associazione e, una volta ricevuta la sovvenzione europea (FESR) da parte della CFLA, trasferisce l'importo spettante a ciascun destinatario del servizio di formazione, con l'effetto di ridurre il prezzo da esso inizialmente pagato all'associazione.

La seconda risulta dal contratto stipulato tra l'associazione e l'impresa di formazione (i prestatori di servizi di formazione) al fine di svolgere, per conto proprio, le attività di formazione in oggetto, al termine delle quali tali prestatori fatturavano alla prima l'intero valore dei servizi resi, applicando contestualmente l'IVA che veniva riconosciuta dall'associazione ai prestatori e dichiarata come imposta assolta a monte ai fini della detrazione.

Quanto invece al progetto PMOE, vi era anche qui (come nel progetto ICT) un contratto tra l'Associazione ed un subappaltatore per la fornitura del servizio di formazione (pagato per intero, IVA inclusa) ai destinatari, ma il rapporto con questi ultimi era a sua volta definito in un altro contratto, tripartito, tra l'Associazione, l'impresa di formazione e ciascun destinatario della formazione, per effetto del quale quest'ultimo si impegnava a cofinanziare la formazione ed il prestatore di servizi era tenuto a versare all'associazione l'importo corrispondente a tale cofinanziamento (30% del totale, IVA inclusa). Mentre il finanziamento concesso dal FESR costituiva il 70% del pagamento totale, versato alla fine del progetto all'associazione da parte della CFLA, IVA esclusa, di modo che l'associazione otteneva alla fine l'intero prezzo.

In entrambi i progetti ed al di là delle differenze “contrattuali”, come evidenzierà la Corte in sentenza (v. p. 32 e 34) ai fini della corretta collocazione nel campo IVA dei servizi di formazione prestati dall'associazione, risulterà evidente come l'associazione abbia agito in nome e per conto proprio fatturando ai destinatari della formazione il prezzo di quest'ultima, mentre l'impresa di formazione abbia agito in nome e per conto terzi (per l'associazione non già per sè) effettuando i servizi di formazione.

A seguito di un controllo fiscale, l'erario lettone contestava all'associazione il diritto di detrazione dell'IVA a monte, chiedendone la restituzione e respingendo allo stesso tempo una richiesta di rimborso relativamente all'eccedenza di IVA constatata dall'associazione.

La questione

La contestazione erariale riposava sulla convinzione che entrambi i progetti (ICT e PMOE) potessero essere realizzati solo da un'associazione o da un'amministrazione pubblica e non già da un operatore economico, motivo per cui si deduceva che, tanto per l'assenza nello statuto di una finalità lucrativa dell'associazione quanto per il fatto che non fosse prevista la realizzazione di utili nell'ambito dell'attuazione di tali progetti, la prestazione di servizi sfuggisse da una sua allocazione nel campo giuridico delle attività economiche ai fini IVA.

Aggiungendo, altresì, che l'associazione avrebbe solo gestito i progetti ed effettuato i pagamenti provenienti dai fondi europei, dei quali avrebbero beneficiato i destinatari dei servizi di formazione, e non avrebbe essa stessa prestato i servizi di formazione, quanto invece avvenuto tramite imprese contrattualmente legate alla stessa, concludendo naturalmente per il disconoscimento del diritto alla detrazione dell'IVA a monte.

Di contro l'associazione evidenziava che il proprio status di associazione senza scopo di lucro non pregiudicasse il proprio diritto a detrazione dell'imposta assolta a monte, vieppiù alla luce dell'iscrizione formale al registro lettone dei soggetti passivi IVA e della propria attività di intermediaria, nel corso dell'attuazione dei progetti ICT e PMI, ai fini della realizzazione di tali servizi di formazione, con la conseguenza di essere tenuta ad emettere fatture fiscali e di avere il diritto di detrazione dell'IVA.

Il giudice del rinvio ha sospeso il giudizio ed ha “chiesto” alla Corte se, ai sensi dell'art. 28 della Direttiva IVA 2006/112, un'associazione che in realtà non presta servizi di formazione debba nondimeno essere assimilata al prestatore del servizio qualora i servizi siano stati acquistati presso un altro operatore economico al fine di consentire l'attuazione di un progetto di aiuti di Stato finanziato dall'UE e se, ai sensi dell'art. 9 della direttiva, la medesima associazione debba essere considerata un soggetto passivo che esercita un'attività economica.

E se, infine, la base imponibile IVA relativa alla prestazione dei servizi resi dai prestatori debba o meno ricomprendere, complessivamente, sia il corrispettivo parziale ricevuto dal destinatario del servizio (30%) sia anche il valore restante (70%) del servizio liquidato dal fondo UE sotto forma di versamento dell'aiuto.

La soluzione giuridica

La Corte, condivisibilmente, al fine di fornire un'interpretazione della nozione di “attività economica” di cui all'art. 9, par. 1, della Dir. 2006/112, ritiene necessario verificare preliminarmente se l'attività posta in essere dall'associazione corrisponda o meno ad una delle operazioni richiamante nell'art. 2 della medesima direttiva.

A tal fine richiama il caso C‑520/14 in cui si verteva circa l'assoggettamento ad IVA (e conseguente detrazione dell'imposta a monte) del trasporto scolastico degli allievi, attività per la quale un comune dei Paesi Bassi era ricorso ai servizi di imprese terze di trasporto, le quali venivano remunerate solo da un terzo dei genitori degli allievi che usufruivano di tale trasporto, versando contributi pari al 3% degli importi versati da tale comune per il finanziamento del servizio, mentre il saldo veniva finanziato dal comune per mezzo di fondi pubblici.

Lì la Corte ribadiva (come anche in C-87/2023) la necessità di verificare che un'operazione sia inscrivibile tra quelle di cui all'articolo 2 della direttiva IVA, al fine di qualificarla come attività economica, premurandosi di rintracciare nell'attività posta in essere dal comune i caratteri dell'onerosità, valutabile a fronte dell'esistenza di un rapporto giuridico nell'ambito del quale avvenga uno scambio di reciproche prestazioni, nel quale il compenso ricevuto dal prestatore costituisca il controvalore effettivo del servizio prestato all'utente (v. tra i tanti , C-16/93, p. 14; C-2/95, p. 45; C-305/01, p. 47), ed a prescindere dalla circostanza che l'operazione economica venga svolta ad un prezzo superiore o inferiore al prezzo di costo, in quanto irrilevante ai fini della qualificazione di tale operazione come “negozio a titolo oneroso” (v. C-102/86, p. 12; C-412/03, p. 22; C-263/15, p. 46; e da ultimo C-94/19, p. 29, su rinvio del giudice italiano).

Dal momento, però, che l'onerosità di un'operazione può alle volte non essere sufficiente ad attrarre un'attività nel campo IVA della direttiva, può risultare necessario esaminare l'insieme delle circostanze in cui è stata realizzata (v. C-230/94, quanto all'analisi di elementi quali il raffronto fra le circostanze nelle quali l'interessato effettua il servizio e quelle in cui viene di solito realizzata la medesima prestazione di servizi, piuttosto che l'entità della clientela e l'importo degli introiti).

Ecco che in C‑520/14 si concludeva nel senso di un'estraneità al campo IVA del trasporto organizzato dal comune, appaltato a terzi e sovvenzionato con fondi pubblici, dal momento che l'elemento dell'onerosità (pur presente) veniva valutato come di fatto insufficiente ad assurgere a sinallagma ai fini IVA, riferendo che “uno scarto del genere tra i costi di funzionamento e gli importi percepiti come corrispettivo per i servizi offerti è tale da suggerire che il contributo a carico dei genitori debba essere assimilato a un canone piuttosto che ad una retribuzione vera e propria”, asimmetria escludente quindi il nesso tra controprestazioni (v. C-246/08, p. 50 e 51).

La necessità sovente, come detto, di verificare l'insieme di tutte le circostanze e gli elementi di cui può colorarsi un'operazione (esigenza ad esempio ricorrente dinnanzi alle attività composite IVA, per cui si consenta il richiamo a “Imponibilità IVA dei servizi di vendita all'asta di beni dati in pegno in quanto non accessori alla concessione del credito”, in commento a C-89/23) al fine del ricollocamento all'intero del campo IVA, ha altresì consentito alla Corte UE di sostenere l'esistenza dell'onerosità (sinallagma) anche qualora il corrispettivo non sia versato direttamente dal beneficiario, bensì da un terzo (v. tra i tanti C‑151/13, p. 34; C‑846/19, p. 40: C‑612/21, p. 26).

In C-151/13 ad esempio, in relazione alle attività di assistenza ad anziani effettuate da una società, la quale percepiva i compensi per le relative prestazioni da parte di una cassa di assicurazione malattia a titolo di “forfait cure”, si è affermato che la circostanza per cui il beneficiario diretto delle prestazioni di servizi di cui trattasi non è la cassa nazionale di assicurazione malattia che paga il forfait bensì l'assicurato, “non è tale da interrompere il nesso diretto esistente tra la prestazione di servizi effettuata e il corrispettivo ricevuto” (v. p. 35).

Sulla base di tali argomentazioni la Corte ha ritenuto di concludere per la qualificazione delle attività dell'associazione come prestazioni di servizi effettuate a titolo oneroso, carattere non influenzato né, come visto, dalla circostanza che il finanziamento delle prestazioni di servizi di formazione provenga da un organismo quale la CFLA che ha a sua volta ricevuto le somme dal FESR, né tantomeno dal fatto che la retribuzione pagata dai destinatari dei servizi di formazione non copra integralmente i costi dell'associazione, dal momento che, come detto, un'operazione, anche se realizzata a un prezzo inferiore al prezzo di costo, può essere qualificata come operazione effettuata a titolo oneroso ai fini IVA.

Osservazioni

Da ultimo, circa il primo motivo di rinvio, è stato chiesto alla Corte se l'art. 9, par. 1, della direttiva IVA sia compatibile con una lettura che considera come soggetto passivo che esercita un'attività economica un'associazione senza scopo di lucro le cui attività siano dirette ad attuare programmi di aiuti di Stato finanziati dai fondi UE.

Al riguardo, dai numerosi precedenti della Corte emerge un'interpretazione molto ampia della “nozione di attività economica”, che viene valorizzata per il suo “carattere oggettivo …, nel senso che l'attività viene considerata di per sé stessa, indipendentemente dai suoi scopi o dai suoi risultati” (rich. C‑612/21, p. 33 e C‑616/21, p. 41).

Ciò ha consentito alla Corte di ricondurre nell'alveo dell'articolo 9 citato le prestazioni di servizi rese dall'associazione, risultando del tutto irrilevante che, in ragione della forma sociale scelta (associazione senza scopo di lucro), una persona giuridica possa esercitare solo in via accessoria un'attività economica di natura professionale che produce un reddito, e che le attività siano state finanziate in maniera considerevole da aiuti unionali, risultando la nozione di attività economica indipendente “dalla modalità di finanziamento scelta dall'operatore interessato, anche quando si tratta di sovvenzioni pubbliche” (v. C‑263/15, p. 38).

Ciò anche quando, come nel caso odierno, sia appurato che l'associazione, nell'individuare il prezzo dei servizi resi, “miri unicamente a coprire le proprie spese di funzionamento al fine di raggiungere l'equilibrio finanziario” e non già alla redditività dell'attività come ogni altro soggetto economico, dovendo appunto considerare “soggetto passivo chiunque esercita, in modo indipendente ed in qualsiasi luogo, un'attività economica, indipendentemente dallo scopo o dai risultati di detta attività” (art. 9, par. 1, direttiva IVA), rimanendo nondimeno un soggetto passivo anche qualora operi in perdita sistematica.

Tali conclusioni si considerano altresì coerenti con quelle raggiunte dalla Corte da ultimo in C-341/22, su rinvio italiano, in cui è stata dichiarata l'incompatibilità alla direttiva della presunzione relativa di cui all'art. 30, L. 724/1994 sulle società di comodo (perché basata solo sulla valutazione del volume di ricavi) e la conseguente illegittimità prevista dalla norma interna del diniego alla detrazione IVA, perché basata su un dato finanziario meramente quantitativo e non già qualitativo, laddove un soggetto passivo IVA deve essere qualificato sulla base di elementi e parametri coerenti alla sola direttiva IVA.

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