La cessione del credito: quid iuris per l’azione di risoluzione ex art. 1453 c.c.?
Luca Crotti
29 Ottobre 2024
Cessione del credito e del contratto sono due istituti che consentono la realizzazione di differenti operazioni giuridico-economiche. Quid iuris rispetto all'azione di risoluzione nel caso di inadempimento del credito in origine corrispettivo intervenuto dopo la cessione dello stesso? L'Avvocato Luca Crotti, prendendo spunto dalla pronuncia della Suprema Corte 8579/2024, analizza la questione, in occasione di una nota critica al provvedimento, e approfondisce l'argomento, offrendo una soluzione a tutte le ipotesi che possono verificarsi nella prospettata vicenda.
Premessa
Statuisce Cass. 29 marzo 2024 n. 8579, secondo la massimazione del C.E.D. Cassazione 2024, quanto segue:
"Mentre la cessione del contratto opera il trasferimento dal cedente al cessionario, con il consenso dell'altro contraente, dell'intera posizione contrattuale, con tutti i diritti e gli obblighi ad essa relativi, la cessione del credito ha un effetto più circoscritto, in quanto è limitata al solo diritto di credito derivato al cedente da un precedente contratto e produce, inoltre, rispetto a tale diritto, uno sdoppiamento fra la titolarità di esso, che resta all'originario creditore-cedente, e l'esercizio, che è trasferito al cessionario.Dei diritti derivanti dal contratto, costui acquista soltanto quelli rivolti alla realizzazione del credito ceduto, e cioè, le garanzie reali e personali, i vari accessori e le azioni dirette all'adempimento della prestazione. Non gli sono, invece, trasferite le azioni inerenti alla essenza del precedente contratto, fra cui quella di risoluzione per inadempimento, poiché esse afferiscono alla titolarità del negozio, che continua ad appartenere al cedente anche dopo la cessione del credito."
1. La cessione del credito ex art. 1260 e s. c.c.: storia della figura e delimitazione attuale del fenomeno positivo
La tradizionale difficoltà concettuale che si è dovuta superare per riconoscere la trasferibilità del credito, già presente nell’ordinamento del diritto romano in cui se ne negava l’ammissibilità per l’astratta inerenza del credito alla persona del creditore, è probabilmente legata alla considerazione che il credito è entità meramente strumentale rispetto all’interesse finale (ossia rispetto al risultato della prestazione), priva, in quanto tale, di un’utilità patrimoniale “piena” per il titolare.
Un primo passo nella direzione della cedibilità del credito, è stato compiuto con il ritenere possibile la modifica del soggetto attivo del rapporto obbligatorio pur se solo mediante una fattispecie a efficacia novativa (soggettiva): al mutamento del soggetto, si postulava che nascesse un nuovo credito in capo al (supposto) “cessionario” di identico contenuto rispetto al precedente.
Oggi, si è finalmente raggiunto il generale convincimento che, in linea di principio, tutti i diritti sono liberamente trasferibili, ivi compresi quelli di credito.
Tanto premesso, deve segnalarsi, ora in ordine all’individuazione della figura oggetto della presente disamina, che gliartt. 1260 e s. disciplinano un effetto giuridico traslativo.
Quanto a significare che la cessione del credito non è un contratto a sé, con una sua causa propria (come si riteneva sotto il previgente codice civile del 1865), ma può riguardare tutti i contratti idonei a trasferire un credito e, quando in concreto questi alieneranno un credito, la loro disciplina tipica sarà integrata dagli artt. 1260 e s. (ad es.: la permuta del credito dovrà essere notificata al debitore ceduto ex art. 1264 c.c., ecc.) poiché la natura del diritto trasferito non permette subito la soddisfazione finale e immediata dell’interesse dell’acquirente (come invece avviene, ad es., in caso di acquisto del diritto di proprietà).
Tuttavia, gli artt. 1260 e s. nulla stabiliscono circa la sorte dei rimedi sinallagmatici e in particolare, per quanto qui interessa, dell’azione di risoluzione per inadempimento, potendosi rinvenire, sul piano normativo, la sola generica dizione di cui all’art. 1263 c.c.
Il problema al quale, con questo studio, si intende dare risposta è il seguente: ipotizziamo che il titolare di un credito sorto da un contratto sinallagmatico, invece di cedere il contratto ex artt. 1406 s. c.c., trasferisca unicamente il diritto di credito, troncando così il nesso della corrispettività tra il credito alienato e il debito di cui ha continuato a essere tenuto.
Quid iuris rispetto ai rimedi sinallagmatici?
2. Le teorie elaborate in ordine al dato teleologico dell’azione di risoluzione per inadempimento
Compito dell’ermeneuta è, innanzitutto, quello di identificare la funzione che connota normativamente l’istituto, previa analisi delle varie tesi che si sono susseguite al riguardo, poiché la comprensione della ratio legis dello strumento in questione ci appare necessaria per decidere della sorte dell’azione di risoluzione in caso di inadempimento determinatosi successivamente alla cessione del credito.
Per l’opinione ancora oggi dominante, l’azione di risoluzione per inadempimento è strumento posto a tutela di un sopravvenuto vizio funzionale (squilibrio) della causa del contratto (intesa quale suo elemento essenziale per essergli strutturalmente interna ex art. 1325 c.c.), essendo, quindi, un mezzo volto ad assicurare il ripristino dell’integrità della sfera patrimoniale del contraente non inadempiente mediante le restituzioni operate con il meccanismo della condictio indebiti (art. 2033 c.c.).
Epperò, in critica, è stato condivisibilmente osservato che uno stesso elemento non può rivestire due distinti significati, operanti su piani differenti: non è accettabile una doppia rilevanza della causa del contratto (genetica e funzionale) quale parametro di validità del contratto e di stabilità del regolamento in quanto, se la causa è un elemento essenziale della fattispecie, non può essere anche un elemento essenziale del rapporto giuridico che deriva dal contratto medesimo.
Così, in dottrina si è ritenuto (sul presupposto per cui il concetto di causa si esaurisce nell’originario scambio tra le obbligazioni, senza potersi riferire, nella fase esecutiva, pure a quello fra le prestazioni - assunto senz’altro opinabile, visto l’art. 2041 c.c. -) che l’azione di risoluzione (art. 1453 c.c.), rispetto a un contratto a prestazioni corrispettive non ancora eseguite, integra un atto di disposizione novativa del credito con cui il creditore non inadempiente sacrifica il proprio diritto pur di ottenere in cambio la liberazione dal debito corrispettivo (tale tesi, postulando uno scambio tra credito e debito corrispettivi, pare non funzionare nel caso di inadempimento subito dal contraente adempiente, ossia successivamente all’esatta esecuzione delle proprie obbligazioni - se del caso, anche accessorie -).
Di contro, dobbiamo rilevare che, sul piano sistematico, certamente esiste un’esigenza di assicurare una giustificazione oggettiva sia al contratto sia al rapporto giuridico, ma non attraverso lo stesso elemento: l’art. 1325 n. 2 c.c. risolve solo il problema della validità dell’atto sotto il profilo della sua giustificazione; l’art. 1453 c.c. risolve il differente problema della giustificazione oggettiva dell’attribuzione patrimoniale.
Per cui, il difetto di funzionamento della causa non è il venir meno ex post dell’elemento essenziale contemplato dall’art. 1325 c.c., ma attiene a un altro aspetto: il venir meno dell’attuazione del programma negoziale (inteso come causa dell’attribuzione), con applicazione delle norme sulla condicio indebiti perché non risulta oggettivamente giustificato, tra le parti, alcuno spostamento patrimoniale in assenza della controprestazione.
Ebbene, per quest’ultimo profilo, la ratio dell’azione di risoluzione per inadempimento risiede, a nostro parere, nella necessità di tutelare funzionalmente la corrispettivitàtra le reciproche prestazioni, con rilievo diretto e immediato del piano oggettivo della causalità delle attribuzioni patrimoniali, mediante la rimozione tout court della stessa vicenda costitutiva del rapporto giuridico riguardata nella sua unitarietà, producendo lo scioglimento del contratto sinallagmatico.
Ancora, qui solo per ragioni di completezza d’indagine, si riportano due ulteriori opinioni secondo le quali: i) l’azione di risoluzione avrebbe un fondamento punitivo a fronte dell’inadempimento di controparte che perderebbe il credito corrispettivo (critica: ma anche il contraente non inadempiente, per effetto della risoluzione, perderà il proprio credito corrispettivo) ovvero ii) detta azione sarebbe assistita da un fondamento risarcitorio (critica: ma il risarcimento è dovuto oltre all’azione di risoluzione).
Trascurabile, infine, è la tesi, ultima in rassegna, che riconosce nell’azione di risoluzione una mera funzione di “garanzia” diretta a contenere il rischio dell’insolvenza del debitore (critica: gli argomenti di analisi economica del diritto sono in grado di coglie, a tutto concedere, la sola e irrilevante mens legis, ossia lo scopo psicologico che ha mosso la volontà soggettiva delle persone che hanno contribuito alla venuta ad esistenza giuridica del rimedio).
3. Il recente orientamento giurisprudenziale relativo alla spettanza dell’azione di risoluzione ex art. 1453 c.c.: dilemma, cedente o cessionario?
La giurisprudenza contemporanea, all’esito della vicenda traslativa di cui all’artt. 1260 s. c.c., nello stabilire a chi competa la titolarità dell’azione di risoluzione in caso di inadempimento del contraente ceduto successivo all’alienazione stessa, continua a essere condizionata da una lettura sbrigativa dell’art. 1263 c.c. e omette di focalizzare la propria attenzione sul decisivo versante della considerazione degli interessi che tale strumento potrebbe soddisfare, rispettivamente, in capo a cedente, cessionario e/o ceduto.
Innanzitutto, l’affermare, genericamente, che l’azione di risoluzione non spetta al cessionario del credito in quanto detta vicenda circolatoria deve ritenersi oggettivamente più “limitata” rispetto alla più ampia cessione del contratto ex artt. 1406 e s. c.c. non spiega, in realtà, la ragione per cui l’iniziativa risolutoria non faccia capo all’avente causa dal cedente in esito all’alienazione del credito.
In proposito, ai giudici di legittimità sfugge un dato essenziale, ossia che il potere di risoluzione non si trasferisce mai, nemmeno in caso di cessione del contratto ex artt. 1406 e s. c.c., e ciò in quanto la facoltà risolutoria sorge unicamente in conseguenza dell’inadempimento qualificato subito da colui che, parte non inadempiente, è titolare dei rapporti corrispettivi.
La giurisprudenza, per giustificare la statuizione secondo cui il potere risolutorio permane in testa al cedente, ricorre, in modo tralatizio, all’opinabile concetto di “titolarità del negozio” (cit. Cass. 29 marzo 2024 n. 8579, sub § 6.), pur se la corrispettività tra prestazioni non è più attuale in conseguenza dell’avvenuto trasferimento di uno dei due addendi originati dalla fattispecie costitutiva.
A tale stregua, la pronuncia in commento qualifica l’azione di risoluzione come rimedio, in definitiva, di struttura (potendo spettare solo a colui che ha preso parte alla relativa formazione), pur non facendone discendere, come dovrebbe avvenire per garantire coerenza alla motivazione, la (illogica) nullità sopravvenuta dell’atto (non a caso, si rammenta che, in una certa prospettiva dottrinale, si è altresì negata la legittimazione all’azione di nullità da parte del cessionario in quanto prerogativa inerente alla fonte del credito).
Per rafforzare l’assunto, la Corte, dimostrando di annaspare nei temi trattati, giunge addirittura ad affermare che “la cessionedel credito[…]produce[…], rispetto a tale diritto, uno sdoppiamento fra la titolarità di esso, che resta all'originario creditore-cedente, e l'esercizio, che è trasferito al cessionario” (cit. Cass. 29 marzo 2024 n. 8579, sub § 6.), senza avvedersi che, in tal modo, contraddice la stessa efficacia realedella vicenda e, arretrando di millenni, annienta i pregevoli approdi scientifici faticosamente guadagnati dalla dommatica nel secolo scorso, riesumando dalla notte dei tempi l’escamotage del mandato in rem propriam, attraverso il quale il cessionario diveniva il dominus litis, impiegato nel diritto romano per raggiungere risultati vagamente equivalenti a quelli oggi offerti dagli artt. 1260 s. c.c.
Tale eccentrica ricostruzione, invero, sdogana la figura del cessionario come puro legittimato attivo all’esercizio dell’azione risolutoria, in aperta violazione dell’art. 81 c.p.c. che non ammette ipotesi di sostituzione processuale pattizia.
Ci appaiono sufficienti questi brevi rilievi critici sugli aberranti passaggi motivazionali rassegnati nel pronunciamento che si annota a rendere manifesta l’indifferibile necessità di una rigorosa revisione della sentenza in commento al fine di addivenire a un puntuale riordino delle soluzioni variamente prospettabili - per le distinte posizioni di cedente, cessionario e ceduto - in ordine alla determinazione dell’effettiva spettanza, nel singolo caso concreto, dell’azione di risoluzione per inadempimento.
4. Le nostre riflessioni conclusive
È pacifico che le azioni dirette alla realizzazione del credito, anche in executivis,competono al cessionario in quanto poste a protezione del diritto trasferito (si pensi all’art. 2932 c.c.), ivi comprese quelle funzionali alla conservazione (in senso ampio) del credito (per es.: ex artt. 2900 e 2901 c.c., ex art. 700 c.p.c., azioni introduttive di procedimenti concorsuali, ecc.).
La stessa uniformità di vedute non può invece affermarsi per quelle azioni che incidono sul rapporto di provvista, originato dalla fonte del credito ceduto, rimuovendolo dal mondo degli effetti giuridici.
In ordine a tale seconda categoria di strumenti, e in particolare rispetto all’azione di risoluzione, è d’uopo precisare che, incaso di inadempimento del ceduto, essa nonpuò affermarsi in titolarità del cessionario perché rappresenta uno strumento previsto dal legislatore non a tutela del credito (che, in realtà, viene estinto) ma, secondo quanto sopra illustrato, della corrispettività stessa (la quale, per poter ricevere protezione attuale, deve ovviamente conservarsi nel corso di tutta la fase esecutiva del rapporto fino al suo esaurimento); e ilcessionario è un mero creditore, laddove la corrispettività fra prestazioni può dirsi conservata solo al persistere di uno schema che esprime l’interesse, nel singolo contraente, di “prestare per ottenere”.
Identicamente dicasi, per il medesimo caso di inadempimento del ceduto, rispetto alla posizione del cedente (che, con la cessione, ha realizzato i propri interessi): il solo debito che è residuato in titolarità di quest’ultimo contraente ha smarrito la sua connotazione corrispettiva a causa dell’avvenuta cessione del credito e, per questo, il cedente non può più agire per la risoluzione del rapporto di provvista. Al riguardo, nonostante il differente generale avviso della dottrina, nessuna “quiescenza” dell’azione di risoluzione è fondatamente ravvisabile in capo al cedente in diretta e immediata considerazione della garanzia della solvenza (se e quando prestata ex art. 1267 c. 1 c.c.), stante l’oggettiva funzione ausiliaria del negozio di garanzia.
All’azione risolutoria in esame, invece, risulta legittimato, nella diversa ipotesi di inadempimento del cedente, il solo debitore ceduto poiché questi conserva, nel rapporto con il cedente, una posizione corrispettiva, che testimonia dell’interdipendenza tra le prestazioni, avendo mantenuto invariato, nella relativa titolarità, lo schema sinallagmatico originario che esprime l’interesse ad “adempiere per ricevere” (facio ut facias, facio ut des, do ut des, do ut facias).
In tal caso:
i)ilcessionario beneficerà della specifica tutela prevista dall’art. 1266 c.c.(essendo il cedente inderogabilmente tenuto alla garanzia del nome verum quando l’inesistenza del credito, anche sopravvenuta, deriva da un fatto suo proprio);
ii) il giudizio risolutorio dovrà senz’altro celebrarsi nel litisconsorzio di cedente e cessionario (art. 102 c.p.c.).
Infine, a conclusione delle presenti riflessioni di sintesi, si consideri che, nella differente ipotesi di un’azione di risoluzione intentata dal cedente prima del negozio traslativo del credito, si determina la necessità processuale dell’emissione di un provvedimento che accerti e dichiari, anche d’ufficio, la cessazione della materia del contendere (essendo venuto meno l'interesse ad agire e a contraddire delle parti stesse agli effetti risolutori), con esclusione dell’art. 111 c. 3 c.p.c. (nell’ottica della sostituzione processuale) per quanto fin qui acclarato e con accertamento della soccombenza virtuale per l’effetto della regolamentazione delle spese di lite.
Guida all'approfondimento
GIURISPRUDENZA
nello stesso senso della pronuncia in commento: Cass. 6 luglio 2018 n. 17727 e Cass. 28 aprile 1967 n. 776
per la spettanza del diritto di avvalersi della clausola risolutiva espressa (art. 1456 c.c.) in capo al cessionario in quanto utilità inerente all'esercizio del diritto e accessorio al credito ceduto: Cass. 9 aprile 2024 n. 9479 e Cass. 28 novembre 1961 n. 2737
per la spettanza al cessionario di tutte le azioni dirette a ottenere la realizzazione del credito ceduto: Cass. 18 luglio 2006 n. 16383
quanto al regime delle eccezioni opponibili dal ceduto al cessionario: Cass. 7 aprile 2009 n. 8373, Cass. 15 marzo 2007 n. 5998, Cass. 10 maggio 2005 n. 9761, Cass. 25 febbraio 2005 n. 4078
sulla opponibilità della risoluzione al cessionario da parte del ceduto (nel factoring): Cass. 25 marzo 1999 n. 2821
sulla funzione liberatoria della risoluzione dall’obbligo corrispettivo per la parte non inadempiente: App. Napoli 27 giugno 1956
sull’applicazione dell’art. 2033, c.c. agli obblighi restitutori conseguenti alla risoluzione del contratto: Cass. 14 marzo 2017 n. 6575
sull’impossibilità di risolvere il contratto in presenza dell’impossibilità, anche solo parziale, di restituire l’oggetto della prestazione nel suo stato originario, non essendo più possibile l'esatta rimessione in pristino: Cass. 29 aprile 1991 n. 4762
sulla imputabilità o meno dell’inadempimento per la risoluzione della compravendita: Cass. 18 maggio 2009 n. 11423 e Cass. 11 febbraio 2005 n. 2853
sulla presunzione iuris tantum di colpa nell’inadempiente, quale presupposto per la risoluzione del contratto: Cass. 11 febbraio 2005 n. 2853
per l’intervento del cessionario, quale successore nel diritto controverso, nel giudizio tra cedente e ceduto: Cass. SU 3 novembre 1986 n. 6418
in ordine alla cessazione della materia del contendere: Cass. 25 gennaio 2024 n. 2446, Cass. 31 ottobre 2023 n. 30251
DOTTRINA
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A.A. Dolmetta, Cessione dei crediti, in Dig. disc. priv., sez. civ., II, 2001, 323 e 327
A. Astone, Il trasferimento del credito, in Comm. Schlesinger, artt. 1260-1267, Milano, 2014, 206
B. Grasso, Successione particolare nel debito (o nel credito) corrispettivo, successione nel sinallagma e regime delle eccezioni, in Saggi sull’eccezione di inadempimento e la risoluzione del contratto, Napoli, 2020, 108, 109, 111, 116 e 117
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G.G. Auletta, La risoluzione per inadempimento, Milano, 1942, 147, ss.
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G. Gorla, Del rischio e pericolo nelle obbligazioni, Padova, 1934, 161 e 162
R. Orestano, Azione in generale, E.D., IV, 1959, 785, ss.
L. Monacciani, Azione e legittimazione, Milano, 1951, 356, ss.
B. Sassani, Note sul concetto di interesse ad agire, Rimini, 1983, 42 e 166, ss.
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Sommario
2. Le teorie elaborate in ordine al dato teleologico dell’azione di risoluzione per inadempimento
3. Il recente orientamento giurisprudenziale relativo alla spettanza dell’azione di risoluzione ex art. 1453 c.c.: dilemma, cedente o cessionario?