I c.d. fatti avventizi sono rilevanti solo se oggetto di discussione tra le parti
28 Ottobre 2024
Massima I cosiddetti fatti avventizi, ovvero i fatti emergenti dai documenti ritualmente acquisiti al processo ma non scientemente invocati dalla parte per sostenere una domanda o un’eccezione, in rapporto ad un determinato effetto giuridico, per poter essere utilizzati dal giudice d’ufficio devono essere oggetto di discussione tra le parti. Il caso La società Alfa, committente di lavori edili, conveniva in giudizio, dinanzi al Tribunale di Firenze, la società appaltatrice, il direttore dei lavori ed il progettista, chiedendone la condanna al risarcimento dei danni conseguenti ai vizi dell'opera realizzata. Il Tribunale adito rigettava la domanda per carenza di responsabilità dei convenuti. Avverso tale statuizione interponeva gravame la società Alfa. La Corte d'appello di Firenze dichiarava prescritto il diritto della committente alla garanzia per vizi nei confronti della società appaltatrice e rigettava con diversa motivazione la domanda reiterata nei confronti del direttore e del progettista dei lavori, assumendo, in particolare, che la tacita remissione del debito da parte della committente in favore dell'appaltatrice, ravvisabile nell'intervenuta stipula di un secondo contratto a titolo oneroso avente ad oggetto nuovi lavori, fosse estensibile anche agli altri convenuti, quali condebitori in solido, ex art. 1301, comma 1, c.c. La società Alfa proponeva ricorso per Cassazione e, per quanto interessa in questa sede, con il quarto motivo lamentava, in riferimento all'art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c., la nullità della sentenza in relazione all'art. 112 c.p.c., per avere il giudice d'appello ritenuto, d'ufficio, che essa ricorrente avesse rimesso il debito della società appaltatrice, estendendo poi gli effetti di questa remissione ai coobbligati in solido, senza che la relativa eccezione fosse stata mai sollevata dalle controparti e senza che sul punto fosse mai stato sollecitato il contraddittorio. La questione La pronuncia in commento esamina, tra le altre, una questione di rilevante impatto pratico, inerente alla facoltà del giudice di rilevare d’ufficio, e utilizzare ai fini della decisione, i fatti emergenti dai documenti ritualmente acquisiti nel processo, ma non consapevolmente posti dalle parti a fondamento delle domande od eccezioni proposte. Le soluzioni giuridiche La Corte d'appello ha rilevato d'ufficio e ritenuto che il debito risarcitorio ex art. 1669 c.c. della società appaltatrice fosse stato rimesso dalla committente perché quest'ultima aveva stipulato, con la suddetta società, dopo l'esecuzione asseritamente viziata del primo contratto di appalto e prima di citarla in garanzia, un nuovo contratto a titolo oneroso avente ad oggetto l'esecuzione di nuovi lavori; ha, quindi, esteso l'effetto di questa riscontrata remissione ai coobbligati in solido ex art. 1301, comma 1 c.c. La ricorrente ha lamentato (pur in difetto di una formale intestazione della censura alla violazione dell'art. 101 c.p.c.) che il rilievo d'ufficio della remissione del debito era avvenuto senza che sul punto fosse stato stimolato il contraddittorio, sulla base di un fatto - l'avvenuta stipula del secondo contratto - da lei allegato ai diversi fini probatori della domanda di risarcimento dei danni ex art. 1669 c.c. subiti in conseguenza del primo contratto di appalto intercorso con l'impresa appaltatrice e senza che nessuno dei convenuti debitori avesse invocato la predetta remissione. Appurato che effettivamente non risultava che la riscontrata remissione del debito fosse stata oggetto di eccezione né da parte dell'appaltatrice né da parte dei coobbligati in solido e che, quindi, fosse stata oggetto di discussione tra le parti, la Suprema Corte, nella pronuncia in commento, ha rammentato che è pur vero che, ex art. 1301, comma 1, c.c., l'estensione dell'operatività della remissione a favore di uno dei debitori in solido anche agli altri debitori non costituisce fatto estintivo riservato dalla legge all'eccezione della parte, perché effetto previsto espressamente ed automaticamente dalla legge (in tal senso, Cass. civ., sez. III, 2 luglio 2021, n. 18808); tuttavia, tale principio non opera per la remissione di debito in sé ex art. 1236 c.c., che costituisce, invece, per giurisprudenza consolidata, eccezione in senso stretto, perché intanto ha effetto estintivo in quanto il debitore manifesti la volontà, anche tacitamente, di volerne profittare (Cass. civ., sez. II, 30 dicembre 2020, n. 29920; Cass. civ., sez. I, 18 maggio 2006, n. 11749). In particolare, come sottolineato da Cass. civ., sez. lav., 9 febbraio 1999, n. 1110, sul piano strettamente processuale, una simile eccezione sovverte l'originario oggetto del dibattito, introducendo nuovi e complessi temi di indagine attinenti alla validità, alle modalità e alla forma della rinunzia, temi di indagine che non possono che svilupparsi sulla base delle prospettazioni di colui che solleva l'eccezione stessa e, soprattutto, nel contraddittorio di creditore e debitore. Ed invece, il giudice d'appello ha utilizzato per la decisione il secondo contratto intercorso tra committente e appaltatrice, ricavandone la prova di un fatto rilevante perché estintivo (la remissione di debito), oltre gli scopi propri per cui era stato allegato, senza provocare la discussione delle parti sul fatto riscontrato. Così decidendo, il giudice del gravame non ha correttamente applicato il principio per cui i cosiddetti fatti avventizi, ovvero i fatti emergenti dai documenti ritualmente acquisiti al processo ma non scientemente invocati dalla parte per sostenere una domanda o un'eccezione, in rapporto ad un determinato effetto giuridico, per poter essere utilizzati dal giudice d'ufficio devono essere oggetto di discussione tra le parti (Cass. civ., sez. II, 9 marzo 2023, n. 7002). Per principio consolidato, l'obbligo del giudice di stimolare il contraddittorio sulle questioni rilevate d'ufficio, stabilito dall'art. 101, comma 2 c.p.c., riguarda proprio le questioni di fatto, ovvero miste di fatto e di diritto, che richiedono l'utilizzazione del contenuto di una prova diverso rispetto a quello chiesto dalle parti ovvero un'attività assertiva in punto di fatto e non già soltanto mere difese (Cass. civ., sez. II, 19 gennaio 2022, n. 1617). Come sancito dalla Corte EDU, «Il giudice deve essere particolarmente diligente quando la controversia prende una piega inattesa, tanto più se si tratta di una questione lasciata alla discrezione del tribunale. Il principio del contraddittorio impone che i tribunali, nelle loro decisioni, non si basino su elementi di fatto o di diritto che non sono stati discussi durante il procedimento e che danno alla controversia una svolta che nemmeno una parte diligente sarebbe stata in grado di prevedere in anticipo» (da ultimo, il principio è stato ribadito da CEDU, sez. I, 29 giugno 2023 - Ricorso n. 49058/20 - Causa Ben Amamou c. Italia, con numerosi richiami). Pertanto, la Corte d'appello, rilevando l'estensione degli effetti della remissione d'ufficio senza aver sollecitato il contraddittorio sul punto e, prima ancora, rilevando d'ufficio il fatto della remissione senza alcuna eccezione di parte, ha violato i predetti principi, sicché la Suprema Corte ha accolto il quarto motivo del ricorso e rinviato la causa al giudice d'appello in diversa composizione. Osservazioni La pronuncia in esame risulta condivisibile in quanto conforme alla consolidata giurisprudenza di legittimità secondo cui il giudice ha il potere-dovere di esaminare i documenti prodotti dalla parte solo nel caso in cui la parte interessata ne faccia specifica istanza, esponendo nei propri scritti difensivi gli scopi della relativa esibizione con riguardo alle sue pretese, derivandone altrimenti l'impossibilità, per la controparte, di controdedurre e, per lo stesso giudice, di valutare le risultanze probatorie ed i documenti ai fini della decisione (Cass. civ., sez. un., 1 febbraio 2008, n. 2435; Cass. civ., sez. I, 24 dicembre 2004, n. 23976; Cass. civ., sez. I, 29 maggio 2003, n. 8599; Cass. civ., sez. III, 6 aprile 2001, n. 5149; Cass. civ., sez. II, 16 agosto 1990, n. 8304). Ciò in quanto, nel vigente ordinamento processuale, caratterizzato dall'iniziativa della parte e dall'obbligo del giudice di rendere la propria pronunzia nei limiti delle domande delle parti (ex art. 112 c.p.c.), al giudice è inibito trarre dai documenti, comunque esistenti in atti, determinate deduzioni o indicazioni, necessarie ai fini della decisione, ove queste non siano specificate nella domanda, o - comunque - sollecitate dalla parte interessata (Cass. civ., sez. III, 12 febbraio 1994, n. 1419; Cass. civ., sez. III, 7 febbraio 1995, n. 1385). In sostanza il giudice, affinché possa e debba esaminare documenti versati in atti, deve accertare, oltre alla ritualità della produzione - consistente nella verifica che la produzione stessa sia avvenuta nel rispetto delle regole del contraddittorio - anche l'esistenza di una domanda o di una eccezione, espressamente basata su quei documenti (Cass., civ., sez. I, 23 novembre 2000, n. 15130). Ne consegue che, in ragione del valore informatore del contraddittorio ex art. 101 c.p.c., il documento prodotto da uno dei contendenti, a sostegno delle proprie deduzioni, può essere utilizzato a vantaggio di un'altra parte, in relazione al contenuto ad essa favorevole, se e nei limiti in cui tale parte lo abbia specificamente e ritualmente invocato a corredo delle sue tesi, considerato che l'indagine sulla consistenza probatoria di un atto postula che l'interessato lo abbia allegato a dimostrazione di una determinata pretesa (Cass. civ., sez. III, 7 febbraio 1995, n. 1385; Cass. civ., sez. III, 10 luglio 1989, n. 3258). In sostanza, la circostanza che ogni documento possa essere materialmente acquisito al processo non significa affatto che ogni documento possa essere utilizzato per la decisione; è necessario, infatti, che la produzione del documento sia “fatta valere” dalla parte, al fine di adempiere all'onere di allegazione. Non è, quindi, sufficiente che il documento sia entrato nel processo in seguito alla regolare produzione, ma è necessario che la parte alleghi di volersene avvalere per provare determinati fatti tra quelli dedotti in giudizio. Pertanto, venendo alla pronuncia in esame, i cosiddetti fatti avventizi, ovvero i fatti emergenti dai documenti, senza che la parte li abbia scientemente invocati, non possono essere posti a fondamento della decisione, a meno che non siano stati oggetto di discussione tra le parti. Il rigore di tale impostazione non è indice di una concezione formalistica del processo, ma è funzionale alla tutela del contraddittorio e alla salvaguardia del diritto di difesa delle parti che, in sede di legittimità, si salda con il sindacato della motivazione sui fatti oggetto dell'esame da parte del giudice di merito, con esclusione dei fatti nuovi. Trattasi, in effetti, di un principio processuale generale, applicabile anche in sede di gravame, essendosi rilevato che la mera produzione di un documento in appello non comporta automaticamente il dovere del giudice di esaminarlo, in ossequio all'onere di allegazione delle ragioni di doglianza sotteso al principio di specificità dei motivi di appello, occorrendo che alla produzione si accompagni la necessaria attività di allegazione diretta ad evidenziare il contenuto del documento ed il suo significato, ai fini dell'integrazione della ingiustizia della sentenza impugnata (Cass. civ., sez. I, 29 gennaio 2019, n. 2461; Cass. civ., sez. III, 7 aprile 2009, n. 8377). Si è, altresì, precisato che, in tema di valutazione delle prove, il divieto per il giudice di trarre dai documenti ritualmente prodotti la conoscenza di fatti non allegati dalle parti riguarda soltanto i fatti principali, e cioè i fatti posti dalle parti (e che devono essere dedotti necessariamente da queste ultime) a sostegno delle loro domande e delle loro eccezioni, e non riguarda, invece, i fatti secondari, rilevanti nel processo soltanto quali elementi di conoscenza, dai quali risalire logicamente all'accertamento dei fatti principali, poiché tale divieto è finalizzato ad evitare che il giudice, analizzando il materiale probatorio, supplisca alle carenze delle parti nell'assolvimento dell'onere di indicare precisamente i fatti posti a fondamento delle domande e delle eccezioni (Cass. civ., sez. I, 23 gennaio 2023, n. 1997). Del resto, proprio sulla legittima possibilità che i fatti secondari emergano dall'esame dei documenti di causa da parte del giudice è basata la recente giurisprudenza della Suprema Corte che consente addirittura l'acquisizione di quei documenti nel corso dell'espletamento della ctu (Cass. civ.., sez. un., 1 febbraio 2022, n. 3086: «In materia di consulenza tecnica d'ufficio il consulente nominato dal giudice, nei limiti delle indagini commessegli e nell'osservanza del contraddittorio delle parti, può acquisire, anche prescindendo dall'attività di allegazione delle parti, non applicandosi alle attività del consulente le preclusioni istruttorie vigenti a carico delle parti, tutti i documenti che si rende necessario acquisire al fine di rispondere ai quesiti sottopostigli, a condizione che essi non siano diretti a provare i fatti principali dedotti a fondamento della domanda e delle eccezioni che è onere delle parti provare e salvo, quanto a queste ultime, si tratti di documenti diretti a provare fatti principali rilevabili d'ufficio»). In definitiva, il potere-dovere del giudice di esaminare i documenti ritualmente versati in atti sussiste solo se la parte che li ha prodotti o che, comunque, ne intende trarre vantaggio, abbia formulato una domanda o un'eccezione espressamente fondata sui documenti medesimi (Cass. civ., sez. III, 24 ottobre 2007, n. 22342). |