Pubblico impiego: la parità di trattamento vieta condizioni contrattuali individuali migliorative o peggiorative rispetto a quelle previste dal CCNL

07 Novembre 2024

La corte di Cassazione, nell'ambito del rapporto di lavoro di dirigenti avvocati alle dipendenze di una pubblica amministrazione del comparto Sanità, conferma la nullità di disposizioni contrattuali che attribuiscano al dipendente condizioni economiche differenti (anche se di miglior favore) rispetto a quelle riconosciute alla totalità dei dipendenti dalla contrattazione collettiva.

Massima

In tema di retribuzione dei pubblici dipendenti in regime di rapporto contrattualizzato, il principio di parità di trattamento contrattuale di cui all'art. 45 del d.lgs. n. 165/2001, impone la nullità di trattamenti individuali migliorativi o peggiorativi rispetto a quelli previsti della contrattazione collettiva. Le previsioni della contrattazione collettiva prevalgono su quelle dei contratti individuali di lavoro anche qualora questi prevedano condizioni di miglior favore per i dipendenti.

Il caso

Dirigenti avvocati della PA e trattamento economico

Con ricorso innanzi al Tribunale di Roma in funzione di Giudice del lavoro, tre dipendenti di una azienda ospedaliera con qualifica di Dirigenti Avvocati hanno richiesto la condanna dell'Amministrazione al pagamento di € 67.077,42 ciascuno a titolo di compensi professionali per contenziosi dagli stessi patrocinati, conclusi con esito favorevole alla PA ma con spese compensate.

I ricorrenti hanno invocato l'applicazione dell'art. 10 del Regolamento aziendale n. 1044 del 10 maggio 2010 con il quale era stato stabilito che, in caso di sentenze favorevoli con spese compensate, ai Dirigenti Avvocati dovessero essere corrisposti i compensi professionali nella misura minima prevista dal Regolamento del Consiglio dell'ordine degli avvocati di Roma del 29 settembre 2004.

A sostengo della domanda, i tre ricorrenti hanno rappresentato che nel gennaio 2011, a seguito di transazioni, avevano stipulato con l'ente dei contratti individuali, mediante cui era stata prevista da parte dei Dirigenti la rinuncia alla retribuzione di risultato in cambio della corresponsione degli onorari professionali relativi alle vertenze dagli stessi patrocinate con esito favorevole. Inoltre, i ricorrenti hanno dedotto che l'amministrazione aveva adempiuto all'accordo per un certo periodo, per poi sospendere il pagamento degli onorari in relazione alle cause definitesi con esito favorevole ma con spese compensate.

Il Tribunale di Roma, con sentenza n. 5875/2014 ha rigettato le domande avanzate.

I tre Dirigenti soccombenti hanno proposto impugnazione innanzi alla Corte d'Appello di Roma che, con sentenza n. 5430/2017, l'ha rigettata.

A seguito della sentenza di II° grado, i ricorrenti hanno proposto ricorso per cassazione sulla base di sei motivi.

La questione

Il diritto a trattamenti economici migliorativi rispetto a quelli previsti dal CCNL

La questione esaminata dalla Corte di Cassazione attiene alla possibilità, nel rapporto di pubblico impiego contrattualizzato, di derogare (in melius) alle disposizioni della contrattazione collettiva, riconoscendo – mediante accordi individuali, nel caso di specie – trattamenti economici ai dipendenti che siano diversi e più favorevoli rispetto a quanto stabilito dal CCNL. Viene in riferimento il principio di cui all'art. 45 del d.lgs. n. 165/2001 secondo cui le amministrazioni pubbliche sono tenute a garantire ai propri dipendenti parità di trattamento contrattuale.

Le soluzioni giuridiche

Il principio di parità di trattamento dei pubblici dipendenti e la prevalenza assoluta del CCNL

La prima delle questioni sottoposte alla Suprema Corte verte sulla validità delle disposizioni contrattuali individuali con cui i dipendenti e l'Amministrazione ospedaliera hanno convenuto il diritto dei ricorrenti al pagamento degli oneri professionali nelle vertenze da loro patrocinate e conclusesi con esito favorevole, senza alcuna distinzione tra le ipotesi in cui, in esito ai giudizi, le spese erano state compensate. In particolare, i Dirigenti Avvocati hanno sostenuto che tali accordi individuali, derogando in melius alle disposizioni contrattual-collettive (che avevano stabilito tale riconoscimento economico per i soli casi in cui vi fosse stata una esplicita condanna di parte avversa alla refusione delle spese di lite) fossero del tutto legittimi ed applicabili.

La Corte di Cassazione, dando applicazione all'art. 45 del d.lgs. n. 165/2001 e confermando propri orientamenti precedenti, ha ritenuto infondata tale doglianza dei dipendenti, ribadendo come il principio di pari trattamento contrattuale di cui all'art. 45 cit. non ammetta eccezioni, neppure in senso migliorativo e che ogni patto o accordo che attribuisca un trattamento economico non conforme alle previsioni di legge o del contratto collettivo sia nullo, con conseguente obbligo per l'Amministrazione di recupero delle somme eventualmente erogate. Nella decisione, peraltro, la Corte ha dato seguito ad un orientamento recentemente consolidatosi proprio in tema di compenso spettante ai dipendenti avvocati degli enti del comparto sanitario (Cass., Sez. L, n. 12332 del 18 maggio 2018; Cass., Sez. L, n. 12333 del 18 maggio 2018; Cass., Sez. L, n. 6553 del 6 marzo 2019; Cass., Sez. L, n. 8168 del 24 aprile 2020; Cass., Sez. L, n. 8169 del 24 aprile 2020; Cass., Sez. L, n. 9793 del 26 maggio 2020; Cass. Sez. L, n. 26156 del 17 novembre 2020).

Identiche motivazioni hanno condotto i Giudici di piazza Cavour al rigetto anche del terzo motivo avanzato dai ricorrenti secondo i quali la sentenza di merito della Corte d'Appello avrebbe erroneamente dichiarato la nullità del Regolamento aziendale. In tal caso la doglianza dei Dirigenti Avvocati si è basata sul dato letterale dell'art. 45 cit., che dopo aver affermato il principio della parità di trattamento contrattuale, ammette – secondo l'interpretazione dei ricorrenti – la deroga ai trattamenti stabiliti dal contratto collettivo quando la stessa sia in senso più favorevole ai lavoratori.

Altro motivo di ricorso per Cassazione avanzato dai dipendenti è stato quello relativo alla possibilità di applicazione – pur se nell'ambito di un rapporto di lavoro pubblico – della disciplina speciale dell'ordinamento della professione forense. Anche sotto questo profilo, la Corte non ha accolto le doglianze dei dipendenti, confermando una sorta di impenetrabilità da parte dell'ordinamento “speciale” del lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni. La Suprema Corte, infatti, ha opposto un netto “qui non si passa”, testualmente affermando che «i ricorrenti, pur se avvocati, sono pubblici impiegati, con l'effetto che il loro rapporto con l'ente di appartenenza è inderogabilmente regolato dalla normativa sul pubblico impiego e dalla relativa contrattazione collettiva.».

Gli altri motivi di ricorso sono stati dichiarati tutti inammissibili.

Osservazioni

La riserva esclusiva in favore del contratto collettivo e la nullità di trattamenti individuali

La pronuncia in commento merita una segnalazione per la chiarezza con la quale i Giudici della Suprema Corte risolvono un contenzioso che si inserisce all'interno di un più ampio filone relativo alla determinazione dei compensi per gli avvocati delle avvocature interne delle Pubbliche Amministrazioni.

Il caso affrontato dalla Cassazione, in parte divergente da quelli già vagliati nei precedenti citati dalla stessa Corte, si concentra sulla valutazione di legittimità di trattamenti individuali migliorativi rispetto a quelli previsti dalle disposizioni della contrattazione collettiva.

La sentenza qui annotata ha il pregio di calare nel diritto vivente un principio, quello della parità di trattamento contrattuale dei pubblici dipendenti, che talvolta viene ad essere (strumentalmente) confuso – soprattutto con riferimento a figure di dipendenti pubblici specifiche (come i dipendenti-avvocati) – con un più ampio principio di parità di trattamento.

Ebbene, la Cassazione – ribadendo come ovvi alcuni contorni della disciplina del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche – chiarisce come sia invalicabile il limite della competenza del contratto collettivo nella definizione del trattamento economico. La riserva in favore della contrattazione collettiva, in materia di trattamento economico dei dipendenti pubblici, è assoluta. E' solo la fonte contrattuale (ex art. 45, comma 1, d.lgs. n. 165/2001) a poter disciplinare il trattamento economico, fondamentale ed accessorio, dei dipendenti pubblici.

Ebbene, a corollario della riserva assoluta in favore del contratto collettivo, lo stesso art. 45 cit., al secondo comma, sancisce il principio di parità di trattamento contrattuale tra i dipendenti, con l'ovvia conseguenza che trattamenti individuali migliorativi o peggiorativi rispetto a quelli previsti dal contratto collettivo siano radicalmente nulli.

Ciò naturalmente, vale la pena precisarlo, non significa che non vi sia la possibilità – in sede di contrattazione collettiva, anche integrativa – di stabilire trattamenti differenziati per categorie specifiche di lavoratori.

Con riferimento ai dipendenti avvocati, infatti, ciò è espressamente previsto dalla contrattazione collettiva relativa al personale dell'Area Funzioni Locali, anche nell'ultima tornata, attualmente vigente, del triennio 2019-2021. Qui, all'art. 27 viene stabilito che le amministrazioni che abbiano formalmente istituito una Avvocatura pubblica «disciplinano con le modalità stabilite dai rispettivi regolamenti, nel rispetto delle disposizioni di cui all'art. 9 del d.l. n. 90/2014 (…), la corresponsione dei compensi professionali, previa definizione dei criteri in sede di contrattazione integrativa di cui all'art. 35 comma 1, lett. h) e all'art. 48 comma 1, lett. h), valutando l'eventuale esclusione, totale o parziale, dei dirigenti interessati, dalla erogazione della retribuzione di risultato».

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