Licenziamento disciplinare senza previa contestazione: quale tutela applicabile in un’impresa di piccole dimensioni?
13 Novembre 2024
Massima La mancata contestazione del fatto alla base di un licenziamento disciplinare comporta la sua nullità con conseguente applicazione della tutela reintegratoria anche in assenza del requisito dimensionale di cui all'art. 18 legge 300/1970 commi 8 e 9. La procedura di cui all'art. 7 legge 300/1970 mira, infatti, a garantire il diritto di difesa del contraente debole, cioè il lavoratore ed è, pertanto, una norma imperativa dalla cui violazione ne consegue l'applicazione dell'art. 2 del d.lgs. n. 23/2015. Inoltre, la nullità di un licenziamento può essere rilevata d'ufficio dal Giudice del lavoro. Il caso Licenziamento disciplinare intimato senza previa contestazione dell'addebito Un dipendente di una pasticceria ricorreva dinnanzi al Giudice del lavoro del Tribunale di Roma per far accertare la nullità del licenziamento disciplinare a lui intimato. Oltre a contestare l'insussistenza, la genericità e tardività degli addebiti, evidenziava che il datore non avesse preventivamente contestato le condotte ai sensi dell'art. 7 legge n. 300/1970. Sulla base della mancata preventiva contestazione degli addebiti eccepiva la nullità del licenziamento, chiedendo di conseguenza l'applicazione della tutela reintegratoria di cui all'art. 2 comma 1 del d.lgs. n. 23/2015 nonostante che parte datoriale non raggiungesse i requisiti dimensionali d'organico stabiliti dai commi 8 e 9 della legge n. 300/1970. Parte datoriale si costituiva in giudizio rivendicando la legittimità del licenziamento. La questione Quali tutele nel caso di licenziamento disciplinare irrogato senza previa contestazione dell'addebito in un'impresa di piccole dimensioni Nel caso di licenziamento disciplinare non preceduto dalla necessaria contestazione dell'addebito si ricade in un'ipotesi di violazione formale o d'inesistenza dell'intero procedimento con conseguente tutela reintegratoria? Qualora si propenda per la seconda ipotesi la tutela reintegratoria è applicabile anche nel caso in cui il datore di lavoro non raggiunga i requisiti dimensionali stabiliti dai commi 8 e 9 dell'art 18 legge n. 30/1970? La soluzione giuridica Il Tribunale dichiara la nullità del licenziamento ai sensi dell'art. 2 del d.lgs. n. 23/2015poiché la procedura di cui all'art. 7 legge n. 300/1970 mira a garantire il diritto di difesa del contraente debole, cioè il lavoratore ed è, pertanto, una norma inderogabile ed imperativa. La Giudice del Tribunale di Roma accoglie la domanda principale del lavoratore dichiarando la nullità del licenziamento intimato a causa dell'omissione della preventiva contestazione degli addebiti. Sul punto si richiama al precedente della Suprema Corte, la sentenza n. 4879 del 24 febbraio 2020, i cui principi di diritto sono stati recentemente confermati dall'ordinanza n. 12030 del 3 maggio 2024. Il Legislatore nel d.lgs. n. 23/2015 per quanto attiene la fattispecie licenziamento disciplinare utilizza la locuzione “fatto contestato”. Sulla base di questa espressione letterale un licenziamento disciplinare, basato su un fatto non precedentemente contestato deve essere considerato alla stregua di un fatto insussistente. Ne consegue, sempre secondo la Suprema Corte, l'applicazione della tutela reintegratoria ridotta di cui all'art. 3 comma 1 del Dlgs 23/2015. La Giudice, tuttavia, rileva come nel caso di cui trattasi il datore di lavoro avesse meno di quindici dipendenti e, quindi, l'art. 3 comma 2 fosse inapplicabile in base a quanto stabilito dall'art. 9 del medesimo d.lgs. n. 23/2015. Dall'altra parte evidenzia come l'ipotesi di cui trattasi esuli dal campo di applicazione dell'art. 4 del d.lgs. n. 23/2015 che disciplina la tutela concessa al lavoratore nel caso di violazioni di carattere formale. Nel caso affrontato la mancata contestazione dell'addebito su cui si fonda il licenziamento disciplinare impedisce l'esercizio del diritto di difesa stabilito dall'art. 7 dello Statuto dei lavoratori. Nel proseguire il proprio ragionamento la Giudice aderisce a quell'orientamento in base al quale la nullità di una sanzione disciplinare per violazione del procedimento finalizzato alla sua irrogazione stabilito dall'art 7 dello statuto dei lavoratori rientri nella categoria definita “nullità di protezione”. Infatti l'art. 7 stabilisce una procedura finalizzata all'esercizio del diritto di difesa del contraente debole, cioè il lavoratore ed è, quindi, una norma imperativa ed inderogabile (cfr. ex plurimis Cass. Civ. sez. lav., sent. 14 maggio 2019 n.12770). Dunque, indipendentemente dal raggiungimento o meno dei requisiti dimensionali stabiliti dai commi 8 e 9 dell'art. 18 legge 300/1970, il licenziamento disciplinare intimato senza previa contestazione è da considerarsi nullo. A questo punto la Giudice, posto che in base all'art 9 del d.lgs. n. 23/2015 la tutela reintegratoria debole di cui all'art. 3 comma 2 è inapplicabile, opta per quella cd forte di cui all'art. 2 del d.lgs. n. 23/2015. Tale scelta trova un dentellato normativo nel medesimo art. 2 comma 1 che è stato dichiarato parzialmente incostituzionale dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 22 del 22 febbraio 2024 nella parte in cui prevede la reintegra nei soli casi di nullità “espressamente previsti dalla legge”. La Sentenza del Giudice delle leggi ha esteso la tutela reintegratoria piena a tutti i casi di nullità, anche nell'ipotesi in cui essa non sia espressamente stabilita, a condizione che la norma che non viene rispettata abbia evidente carattere imperativo. Alla luce dell'espansione della tutela anche alle ipotesi di nullità non solo testuali, ma anche virtuali, ed al solido orientamento volto a definire la procedura di cui all'art. 7 una norma imperativa volta a tutelare il diritto di difesa del lavoratore, la Giudice accoglie la richiesta di applicazione della tutela reintegratoria piena. Osservazioni Estensione della reintegrazione e rilevabilità d'ufficio della nullità La sentenza del Tribunale di Roma applica la tutela reintegratoria piena. La decisione è coerente con la nuova versione dell'art.2 comma 1 del d.lgs. n. 23/2015alla luce della più volte citata sentenza della Corte Costituzionale. Se l'art. 7 è una norma inderogabile, e la sua applicazione viene disattesa come nel caso di cui trattasi nel quale viene integralmente omesso il procedimento disciplinare, si è in presenza di un licenziamento nullo. Tutela reintegratoria piena che, a parere dello scrivete, dovrà essere applicata anche nell'ipotesi di licenziamento disciplinare intimato in assenza di previa contestazione dell'addebito da parte di un datore che raggiunge i requisiti d'organico stabiliti dai commi 8 e 9 dell'art 18 commi 8 e 9. Le ragioni sono molteplici. La prima è di ragionevolezza anche ai sensi dell'art. 3 Cost. La seconda è di carattere sistematico. L'eliminazione da parte della Corte Costituzionale della limitazione alle sole nullità testuali comporta che tutte le ipotesi di nullità derivanti dalla violazione di norme imperative siano attratte nel campo di applicazione dell'art. 2 comma 1. A dimostrazione della correttezza di tale secondo assunto si rileva come la ben nota sezione lavoro del Tribunale di Ravenna, nella sentenza 302 del 12 settembre 2024, sempre nella persona del Giudice del lavoro, Dottor Dario Bernardi, in relazione ad un licenziamento inefficace per nullità del patto di prova, abbia condannato parte datoriale alla reintegrazione del lavoratore in base all'art. 2 del d.lgs. n. 23/2015. Il Giudice ha dichiarato espressamente di volersi discostare dalla sentenza della Cassazione n. 20239 del 14 luglio 2023. Gli Ermellini, in detta pronuncia, avevano dichiarato che il licenziamento intimato per mancato superamento del periodo di prova, nell'ipotesi di accertata nullità del patto, dovesse essere considerato illegittimo per insussistenza di giusta causa o giustificato motivo, ma non nullo. Sulla base di tale interpretazione avevano ritenuto corretta la sentenza della Corte D'appello che aveva applicato la tutela indennitaria, respingendo la domanda principale del ricorrente volta ad ottenere la reintegrazione. Nel motivare la propria decisione il Giudice del Tribunale di Ravenna parte dal mutato contesto normativo rispetto a quello del 2023. Il patto di prova costituisce un'eccezione alla regola prevista dall'art. 1 legge 604/1966 in base al quale il licenziamento deve essere sempre motivato. Tale norma ha evidente carattere imperativo, considerato che costituisce una forma di tutela del diritto al lavoro previsto nella nostra carta costituzionale. Il licenziamento a causa del mancato superamento del periodo di prova è l'antitesi del licenziamento motivato. Ne consegue che un recesso, basato su una clausola del contratto di lavoro contenente un patto di prova dichiarato nullo, è immotivato e, quindi, anch'esso nullo con conseguente applicazione della tutela reintegratoria piena in base all'art. 2 comma 1 del d.lgs. n. 23/2015. Il Giudice evidenzia come la normativa giuslavoristica non faccia eccezione all'applicazione dell'art. 1418 comma 1 c.c. che, come noto, prevede che un contratto sia nullo quando in contrasto ad una norma imperativa. Nel caso di specie il precetto imperativo violato è l'obbligo di motivazione del licenziamento stabilito dal richiamato art. 1 legge n. 604/1966 ed, invero, anche dall'art. 1325 c.c. in base all'art. 1418 comma 2 c.c. La sentenza qui brevemente commentata così come quella del Tribunale di Ravenna si occupano anche di un'altra questione dibattuta in giurisprudenza: la possibilità per il Giudice di rilevare d'ufficio un'ipotesi di nullità del licenziamento. La Giudice del Tribunale di Roma affronta la questione dal punto di vista teorico posto che il ricorrente aveva invocato la tutela reintegratoria piena alla luce della mancata contestazione degli addebiti che hanno poi giustificato il licenziamento. Essa si richiama alla sentenza della Suprema Corte del 2015, la n.17286 del 16 aprile. Tale pronuncia a sua volta applicava alla disciplina dell'impugnazione dei licenziamenti il principio di diritto enunciato dalle Sezioni Unite con sentenza del 12 dicembre 2014 n. 26242. Secondo le Sezioni Unite il principio di rilevabilità d'ufficio delle nullità negoziali si estende anche alla categoria delle nullità di protezione, quindi quelle poste a tutela del contraente debole. Anche tale ipotesi di nullità sono rilevabili d'ufficio purché comportino un'utilità processuale al soggetto da queste protetto. La sentenza del 2015 delle sezione lavoro afferma che la nullità di una sanzione disciplinare per violazione del procedimento stabilito per la sua irrogazione, quale l'art. 7 legge 300/1970, rientra nella categoria delle nullità di protezione, poiché la procedura garantistica prevista è inderogabile e volta a tutelare il lavoratore, parte contraente debole del rapporto. Invero la sentenza del Tribunale di Roma, sembra ignorare l'orientamento della sezione lavoro della Suprema Corte formatosi a partire dalla pronuncia 7687 del 24 marzo 2017. Secondo quest'ultimo indirizzo, la disciplina dell'impugnazione dei licenziamenti esulerebbe dal campo di applicazione del principio stabilito dalle Sezioni Unite della rilevabilità d'ufficio della nullità. Le ragioni derivano dal necessario impulso di parte del lavoratore. Com'è noto l'impugnazione del licenziamento è sottoposto al doppio termine stabilito dall'art. 6 le 604/1966. Tale doppio termine, decadenziale il primo e perentorio il secondo, costituisce un elemento d'incompatibilità con l'istituto della rilevabilità d'uffico ex art. 1421 c.c. E quest'ultimo articolo precisa che il Legislatore possa porre eccezioni alla regola, circostanza che sussiste nella disciplina dell'impugnativa del licenziamento alla luce del doppio termine previsto dal già richiamato art. 6 della legge 604/1966. Inoltre il licenziamento è un atto unilaterale la cui impugnazione è sottoposta ai sopra precisati vincoli processuali, motivo per cui anche in base all'art. 1324 c.c., la rilevabilità d'ufficio non è possibile in quanto istituto non compatibile. Inoltre le Sezioni Unite avevano precisato che la rilevabilità d'ufficio fosse possibile solo nell'ipotesi di diritti autodeterminati, cioè situazioni giuridiche assolute, articolate in base ad un solo elemento costitutivo. Nel caso dell'impugnazione di un licenziamento si è di fronte ad un diritto eterodeterminato, basato sulle motivazioni presentate nel ricorso. Un licenziamento può essere nullo per diverse motivazioni o annullabile sulla base di differenti eccezioni, afferenti anche requisiti di forma. Dal punto di vista normativo, dalla lettura degli art. 18 comma 7 legge n. 300/1970 e 4 del d.lgs. 23/2015, si evince che il Giudice possa rilevare la discriminatorietà del licenziamento solo “sulla base della domanda formulata dal lavoratore”. Non in ultimo la rilevabilità d'ufficio sarebbe in contrasto con il principio di celerità del processo del lavoro. Per “soddisfare” tale principio, il rito del lavoro prevede un unico atto per il ricorrente nel quale l'oggetto della domanda deve essere completo ed immodificabile. Tale presupposto è, quindi, in contrasto con la possibilità da parte del Giudice di sollevare eccezioni non proposte dalle parti in tema d'illegittimità del licenziamento impugnato. Il Giudice del Tribunale di Ravenna ritiene che la nullità del patto d'opzione nel caso oggetto di decisione , così come altre ipotesi di nullità del licenziamento, possa essere rilevata d'ufficio. Contesta l'orientamento più recente della Suprema Corte rilevando come la giurisprudenza comunitaria abbia rilevato che la discriminatorietà di un licenziamento sia stato equiparato ad un diritto autodeterminato con la conseguente rilevabilità d'ufficio. La stessa Suprema Corte occupandosi di atti discriminatori in generale ha affermato come gli stessi siano rilevabili d'ufficio dal Giudice (cfr. Cass civ. Sez. lav., sent. 18 aprile 2023 n. 10328). Proprio perché per un'ipotesi di nullità è permessa la rilevabilità d'ufficio, non sussistono motivazioni logico giuridiche per escludere che anche le altre ipotesi di nullità non possano essere valutate dal Giudice senza l'impulso della parte processuale ricorrente. Per quel che attiene i termini decadenziali per l'impugnativa, essi riguardano la proposizione della domanda, ma non costituiscono certamente una limitazione ai poteri del Giudice una volta instaurato correttamente il procedimento. A ciò aggiungasi che l'impugnazione del licenziamento è un atto unilaterale per il quale le categorie di diritto autodeterminato o eterodeterminato non si applicano. Non in ultimo l'interpretazione fornita dalla Suprema Corte volta ad impedire la rilevabilità d'ufficio di un profilo di nullità del licenziamento non sollevato dalla parte sarebbe in contrasto con l'art 3 comma 2 Cost. La preclusione al Giudice di rilevare una causa di nullità di un licenziamento a favore del lavoratore, cioè la parte debole del contratto, a differenza di tutti gli altri negozi giuridici, sarebbe un elemento di ostacolo e non di promozione dello sviluppo sociale. Sulla base, quindi, delle argomentazioni fornite, il Giudice del Tribunale di Ravenna si discosta dall'orientamento della sezione lavoro e giunge alla conclusione opposta in conformità con la decisione delle Sezioni Unite. Conclusioni L'inevitabile riespansione della tutela reintegratoria In conclusione è evidente che le recenti sentenze della Corte Costituzionale abbiano stravolto alcuni consolidati orientamenti della Suprema Corte a riguardo delle conseguenze di un licenziamento dichiarato nullo o illegittimo. È, quindi, ipotizzabile, nell'attuale contesto normativo, che la sentenza del Tribunale di Roma sia seguita da altre, sia di merito che di legittimità, che comporteranno una nuova espansione del campo di applicazione della tutela reintegratoria. |