La protezione internazionale: le scelte del potere politico e lo statuto della cognizione del giudice ordinario

30 Gennaio 2025

Il contributo analizza i principi enunciati dalla giurisprudenza di legittimità in punto di regime della cognizione del giudice ordinario in una materia, quale quella dell’immigrazione, ampiamente normata da fonti sovranazionali e politicamente sensibile.

Premessa: Il contesto normativo di riferimento e la nozione di Paese di origine sicuro

Non è possibile comprendere le complesse problematiche incise dai due provvedimenti in rassegna – la sentenza  Cass. civ., sez. I, 19 dicembre 2024 n. 33398 e l'ordinanza Cass. civ., sez. I, 30 dicembre 2024 n. 34898senza avere ben chiaro il contesto normativo comunitario e interno di riferimento e segnatamente la portata della nozione di Paese di origine sicuro. E tanto in ragione della centralità che essa è venuta ad assumere nella gestione del fenomeno migratorio.

La storia del lemma inizia con gli artt. 36 e 37 della Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio Dir. UE n. 32/2013, ove trovasi specificato (Allegato 1, richiamato dall'art. 37, par. 1) che la designazione quale Paese di origine sicuro è consentita solo se, «sulla base dello status giuridico, dell'applicazione della legge all'interno di un sistema democratico e della situazione politica generale si può dimostrare che (nello Stato considerato) non ci sono generalmente e costantemente persecuzioni quali definite nell'art. 9, Dir. UE n. 32/2013, né tortura o altre forme di pena o trattamento disumano o degradante, né pericolo a causa di violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale».

La direttiva ha cura di precisare i parametri sulla cui base l'indagine va condotta, procedimentalizzando al massimo la relativa verifica. E invero la valutazione della «misura in cui viene offerta protezione contro le persecuzioni e i maltrattamenti», che è il vero cuore dell'indagine, deve prendere in considerazione:  

«a) le pertinenti disposizioni legislative e regolamentari del Paese ed il modo in cui sono applicate;

b) il rispetto dei diritti e delle libertà stabiliti nella Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali e/o nel Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici e/o nella Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura, in particolare i diritti ai quali non si può derogare a norma dell'articolo 15, paragrafo 2, di detta Convenzione europea;

c) il rispetto del principio di "non refoulement" conformemente alla convenzione di Ginevra;

d) un sistema di ricorsi effettivi contro le violazioni di tali diritti e libertà».

Ma a che serve questa designazione?

Come è facilmente intuibile, la qualificazione di un Paese di origine come sicuro fu introdotta in chiave deflattiva del carico di lavoro determinato dalle domande di protezione internazionale. Essa invero incide sia sul procedimento amministrativo avente ad oggetto la richiesta sia sul conseguente iter giurisdizionale, considerato, a tacer d'altro, che genera:

  • una presunzione di infondatezza dell'istanza, con conseguente aggravamento dell'onere di allegazione dell'immigrato e attenuazione del debito motivazionale della P.A. e del giudice;
  • l'adozione di una procedura accelerata (art. 28-bis, d.lgs. n. 25/2008o super accelerata (art. 7-bis, d.l. n. 20/2023, introdotto dalla legge di conversione n. 50/2023);
  • la possibilità, per le domande di protezione internazionale proposte direttamente alla frontiera o nelle zone di transito, del suo espletamento tout court nei predetti luoghi nonché, ove il richiedente non abbia presentato il passaporto o altro documento equipollente, né prestato «idonea garanzia finanziaria», la legittimità del suo trattenimento presso la frontiera o nelle zone di transito, «al solo scopo di accertare il diritto a entrare nel territorio dello Stato»;
  • l'esclusione della efficacia sospensiva del provvedimento impugnato, di regola automaticamente collegata alla sola proposizione del ricorso.

È un robusto fascio di deroghe al regime ordinario che inevitabilmente comporta una riduzione delle garanzie difensive del richiedente. Di qui l'allerta del giudice dei diritti e le risposte giudiziarie alle istanze di tutela dei titolari delle posizioni soggettive in sofferenza.  

A partire dal 2018 l'Italia si è avvalsa della facoltà, concessa agli Stati membri dalla direttiva in discorso e per la verità non da tutti esercitata, di redigere, con decreto del Ministro degli affari esteri e della cooperazione internazionale, di concerto con quelli dell'interno e della giustizia, un elenco, periodicamente aggiornabile, di Paesi di origine sicuri (art. 2-bis, d.lgs. n. 25/2008, introdotto dal d.l. n. 113/2018, convertito con modificazioni nella l. n. 132/2018), secondo criteri sostanzialmente sovrapponibili a quelli della fonte comunitaria, salva la possibilità, prevista nell'ultima parte del comma due del menzionato art. 2-bis (nella versione originaria, per quanto di qui a poco si dirà), che la designazione possa essere fatta con l'eccezione di parti di territorio o di categorie di persone, possibilità per vero prevista dalla Dir. UE n. 85/2005, ma non da quella del 26 giugno 2013, Dir. UE n. 32/2013, attualmente in vigore.

Val la pena precisare che al momento della decisione del 1° luglio 2024 del Tribunale di Roma – e cioè della pubblicazione dell'ordinanza con cui è stato proposto il rinvio pregiudiziale definito con la sentenza Cass. civ., sez. I, 19 dicembre 2024 n. 33398 – la questione della sindacabilità dell'elenco dei Paesi di origine sicuri e della legittimità di una designazione che contemplasse delle esclusioni era già stata portata al vaglio della Corte di Giustizia a seguito di rinvio pregiudiziale operato dal giudice ceco nel caso CV v. Ministerstvo vnitra České republiky, Odbor azylové a migrační politiky (C 406/22), oltre che da parte del Tribunale di Firenze.

Orbene, con la sentenza 4 ottobre 2024, ripetutamente menzionata in entrambi i provvedimenti oggetto della presente riflessione, la Corte di Giustizia (Grande Sezione), nell'affermare la piena sindacabilità, da parte del giudice, della designazione come sicuro di un Paese di origine, nell'ambito di una verifica completa ed ex nunc, neppure vincolata alle deduzioni del richiedente, ha stabilito che l'art. 37, Dir. UE n. 32/2013 va interpretato nel senso che esso osta a che un Paese terzo possa essere designato come paese di origine sicuro ove talune parti del suo territorio non soddisfino le condizioni sostanziali della designazione enunciate nell'allegato I di detta Direttiva.

Questo significa, stante la forza di fonte primaria delle sentenze della Corte di Giustizia, che l'ultima parte del comma 2 dell'art. 2-bis, d.lgs. n. 25/2008 va ora così letto: «La designazione di un Paese di origine sicuro può essere fatta con l'eccezione di categorie di persone».  

La provenienza da un Paese di origine qualificato sicuro rileva anche ai fini dell'eventuale trasferimento dei migranti nei centri realizzati in Albania e il loro trattenimento colà al fine di accertarne «il diritto a entrare nel territorio dello Stato», considerato che la l. n. 14/2024, di ratifica ed esecuzione del Protocollo tra il Governo della Repubblica italiana e il Consiglio dei ministri della Repubblica di Albania, all'art. 3, ha giuridicamente equiparato le aree albanesi, ove quei centri sono ubicati, alle zone di frontiera o di transito (di cui all'art.28-bis, comma 4, d.lgs. n. 25/2008), nelle quali l'esame delle domande di protezione internazionale può avvenire con la procedura accelerata. E invero, per espressa previsione dell'art. 28-bis comma 2, lett. b) e b-bis), d.lgs. n. 25/2008la procedura accelerata trova applicazione nei soli casi in cui la domanda di protezione internazionale sia stata presentata direttamente alla frontiera o nelle zone di transito: da un soggetto fermato per avere eluso o tentato di eludere i controlli di frontiera (lett. b) oppure da un richiedente proveniente da un Paese designato di origine sicura ai sensi dell'art. 2-bis del medesimo decreto (lett. b-bis).

Trattasi in sostanza di centri di detenzione amministrativa dislocati in Albania in cui, in base alle previsioni dell'art. 3, comma 2, della predetta legge, possono essere condotti «esclusivamente persone imbarcate su mezzi delle autorità italiane all'esterno del mare territoriale della Repubblica o di altri Stati membri dell'Unione europea, anche a seguito di operazioni di soccorso». Il che peraltro dovrebbe ex se escludere l'operatività della lett. b) del menzionato art. 28-bis comma 2, d.lgs. n. 25/2008, come non ha mancato di ritenere il giudice capitolino nel decreto di non convalida del trattenimento di Shaker Ahmad Khamis Salah (v. infra).   

Non a caso il successivo art. 6 dispone che «le competenti autorità italiane adottano le misure necessarie al fine di assicurare la permanenza dei migranti all'interno delle Aree, impedendo la loro uscita non autorizzata nel territorio della Repubblica d'Albania, sia durante il perfezionamento delle procedure amministrative che al termine delle stesse, indipendentemente dall'esito finale» (comma 5) e che «in caso di uscita non autorizzata dei migranti dalle Aree, le autorità albanesi li ricondurranno nelle stesse» (comma 6).

Le aspre polemiche generate dai provvedimenti giudiziari che hanno negato la convalida dei decreti di trattenimento emessi dal Questore, hanno indotto il Governo in carica, nell'ottobre dello scorso anno, a meglio blindare la selezione dei Paesi sicuri, inserendola in una legge, e cioè in una fonte primaria (d.l. n. 158/2024, abrogato dall'art. 1, comma 2, l. n. 187/2024, di conversione di altro decreto legge, e precisamente del d.l. n. 145/2024, con salvezza, peraltro, degli atti e dei provvedimenti adottati e degli effetti prodottisi in virtù della fonte abrogata), con effetti sui poteri cognitivi dell'autorità giudiziaria sui quali allo stato non risulta che i giudici di merito si siano ancora pronunciati. 

Infine e conclusivamente, val la pena precisare che la variazione nel contesto normativo di riferimento, così introdotta, è rimasta fuori dallo scrutinio nomofilattico della Corte, posto che le vicende esaminate nei due provvedimenti di cui ci stiamo occupando, sono entrambe maturate in epoca antecedente, e cioè quando l'elenco dei paesi di origine ritenuti sicuri era contenuto in un decreto interministeriale.

I fatti e il rinvio pregiudiziale ex art. 363-bis c.p.c. del Tribunale di Roma

I fatti sono due, come due sono le pronunce oggetto della presente analisi.

La prima in ordine di tempo, la sentenza Cass. civ., sez. I, 19 dicembre 2024 n. 33398, parte dalla domanda di protezione internazionale di un cittadino della Tunisia, Stato inserito nella lista dei Paesi di origine sicuri dal decreto in data 7 maggio 2024 del Ministro degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, di concerto con quelli dell'Interno e della Giustizia.

In ragione di tanto, e della ritenuta, mancata allegazione di condizioni personali astrattamente idonee a legittimare comunque l'elargizione della protezione, l'istanza venne rigettata dalla Commissione territoriale.

Il tunisino impugnò la decisione innanzi al Tribunale di Roma e, senza addurre circostanze specifiche relative alla propria persona, dedusse l'intervento, nel Paese di origine, di una involuzione autoritaria dei pubblici poteri e un conseguente mutamento dell'assetto istituzionale e sociale riguardante la generalità delle persone, tali da escludere ormai ogni possibilità di qualificare la Tunisia come paese sicuro.

Il giudice di merito, rilevato che:

  1. che siffatta classificazione, ai sensi dell'art. 2-bis, d.lgs. n. 25/2008, incideva sulla procedura applicabile alle domande di protezione internazionale, riducendo le possibilità di difesa dei richiedenti;
  2. la sindacabilità da parte dell'autorità giudiziaria della valutazione di sicurezza di un Paese era controversa, sostenendosi da alcuni Tribunali l'esclusiva competenza, sul punto, dei menzionati  Ministeri e, da altri, la piena sindacabilità della stessa da parte del decidente, con possibilità di disapplicazione del decreto, ove ritenuto non conforme ai canoni previsti dalla direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio Dir. UE n. 32/2013,

con ordinanza del 1° luglio 2024, sottopose alla Corte di cassazione, ex art. 363-bis c.p.c., e cioè con rinvio pregiudiziale, il seguente quesito: «Se in caso di soggetto proveniente da Paese di origine sicuro, nell'ambito del procedimento conseguente al provvedimento di rigetto per manifesta infondatezza ai sensi dell'art. 28 ter, D.Lvo. n. 25/2008 emesso dalla Commissione territoriale per il Riconoscimento della Protezione Internazionale, il giudice ordinario sia vincolato alla lista … approvata con il decreto interministeriale, o se il giudice debba,  anche in ragione del dovere di cooperazione istruttoria, comunque valutare, sulla base di informazioni sui paesi di origine (COI) aggiornate al momento della decisione, se il Paese incluso nell'elenco dei “Paesi di origine sicuri” sia effettivamente tale alla luce della normativa europea e nazionale vigente in materia».

La questione, ridotta all'osso, era dunque la seguente: il G.O., nel valutare la domanda di protezione internazionale formulata da un immigrato proveniente da un paese di origine qualificato come sicuro dall'autorità ministeriale, può andare a verificare se detta qualificazione sia corretta, quanto meno con riferimento al momento in cui deve decidere, o deve attenersi alle indicazioni del decreto senza poterle sindacare?  

Cass. civ., sez. I, 19 dicembre 2024 n. 33398

Approdata la questione alla pubblica udienza della prima sezione civile, la Corte, per rispondere al quesito, è partita dalla ricostruzione dei diritti dello straniero che la Costituzione, «nel disegno personalista che lega la dignità alla solidarietà e all'accoglienza», protegge come fondamentali, sia direttamente, sia tramite le norme e i trattati internazionali ai quali rinviano gli artt. 10, 11 e 117 Cost.  Di talché – ha argomentato – per quanto molteplici siano gli interessi pubblici incidenti sulla materia dell'immigrazione e gravi i problemi di sicurezza e di ordine a essa connessi, «non può risultarne minimamente scalfito il carattere universale della libertà personale che, al pari di altri diritti che la Costituzione proclama inviolabili, spetta ai singoli non in quanto partecipi di una determinata comunità politica, ma in quanto essere umani (Corte cost., 10 aprile 2001, n. 105 )». 

Ha quindi ricordato l'ampio ventaglio di modalità di riconoscimento della protezione internazionale previsto dalle fonti comunitarie – status di rifugiato; diritto d'asilo,  permessi di soggiorno atipici «per motivi caritatevoli, umanitari o di altra natura» – istituti che, grazie all'opera adattatrice della giurisprudenza di merito e di legittimità, hanno reso effettiva la tutela dei diritti fondamentali della persona.

Dopo aver ribadito che spetta «alle istituzioni democratiche e rappresentative, attraverso le quali si esprime la volontà popolare … il compito di gestire il fenomeno migratorio, disciplinando i flussi, anche nei riflessi sulla sicurezza della comunità nazionale» e in vista della realizzazione di «condizioni materiali di effettiva integrazione di chi ha titolo per restarvi», ha poi espressamente collocato nell'ambito del circuito delle istituzioni rappresentative «la scelta politica di prevedere, in conformità della disciplina europea, un regime differenziato di esame delle domande di asilo per gli stranieri che provengono da Paesi di origine sicuri», con ricadute annesse e connesse (in tema, a tacer d'altro, di oneri probatori, dislocazione logistica della procedura amministrativa; tempistica di esame delle domande), sulle quali di qui a poco si tornerà.

Tale collocazione non ha peraltro impedito al collegio di escludere che il decreto ministeriale che individua i Paesi di origine sicuri sia tecnicamente qualificabile come «atto politico», per tal via necessariamente negando anche che esso sia «fuori dal diritto e dalla giurisdizione».

E invero proprio l'esistenza di una dettagliata disciplina procedurale e sostanziale posta a presidio dell'esercizio del relativo potere amministrativo, implica, a giudizio del collegio, la giustiziabilità della verifica del rispetto dei criteri fissati dalle fonti normative – e cioè dagli artt. 36 e 37 e dall'allegato I della Dir. UE n. 32/2013 nonché dall'art. 2-bis, d.lgs. n. 25/2008 – di talché in definitiva, pur dovendosi dare atto che la valutazione ministeriale non è soltanto un'operazione tecnico-giuridica e che non ha «un esito a rime obbligate», la qualificazione di un Paese come sicuro è scrutinabile dal giudice al fine di appurare se «il potere valutativo sia stato esercitato con manifesto discostamento dalla disciplina europea o non sia ictu oculi più rispondente alla situazione reale (come risultante, ad esempio, dalle univoche ed evidenti fonti di informazioni affidabili e aggiornate sul Paese di origine del richiedente, ai sensi dell'art. 37, Dir. UE n. 32/2013)», trattandosi dell'accertamento pieno della sussistenza di un diritto fondamentale che va condotto con riferimento all'attualità, se del caso azionando i poteri di cooperazione istruttoria.

A conforto della scelta decisoria adottata il giudice di legittimità ha segnatamente richiamato la pronuncia della Corte di giustizia dell'Unione europea (Grande Sezione) in data 4 ottobre 2024 nella causa C-406/22 laddove, collocata la designazione di un paese terzo come Paese di origine sicuro tra «gli aspetti procedurali della domanda di protezione internazionale…. suscettibile di comportare ripercussioni sull'accoglimento della richiesta», ne ha perciò stesso ammesso il controllo da parte dell'autorità giudiziaria.

Il collegio ha infine sottolineato la profonda diversità dell'oggetto del giudizio e dei relativi accertamenti laddove a sostegno dell'istanza non vengano addotte situazioni proprie del Paese di provenienza a carattere generale e costante, quanto piuttosto l'esistenza di gravi motivi che rendano insicuro quel Paese per la situazione specifica in cui si trova il richiedente. È invero evidente – ha detto – che in casi siffatti non si pone un problema di disapplicazione dell'atto amministrativo, dovendo il decidente, nella pienezza dei suoi poteri cognitori, rafforzati in ragione del principio della cooperazione istruttoria, accertare la situazione peculiare di quello specifico istante e, ove lo scrutinio abbia esito positivo, riconoscergli la protezione internazionale: tutela che evidentemente realizza la chiusura del sistema.

Si arriva così alla formulazione del seguente principio di diritto:

«Nell'ambiente normativo anteriore al decreto-legge 23 ottobre 2024, n. 158, e alla legge 9 dicembre 2024, n. 187, se è investito di un ricorso avverso una decisione di rigetto di una domanda di protezione internazionale di richiedente proveniente da paese designato come sicuro, il giudice ordinario, nell'ambito dell'esame completo ed ex nunc, può valutare, sulla base delle fonti istituzionali e qualificate di cui all'art. 37 della direttiva 2013/32/UE, la sussistenza dei presupposti di legittimità di tale designazione, ed eventualmente disapplicare in via incidentale, in parte qua, il decreto ministeriale recante la lista dei Paesi di origine sicuri (secondo la disciplina ratione temporis), allorché la designazione operata dall'autorità governativa contrasti in modo manifesto con i criteri di qualificazione stabiliti dalla normativa europea o nazionale. Inoltre, a garanzia dell'effettività del ricorso e della tutela, il giudice conserva l'istituzionale potere cognitorio, ispirato al principio di cooperazione istruttoria, là dove il richiedente abbia adeguatamente dedotto l'insicurezza nelle circostanze specifiche in cui egli si trova. In quest'ultimo caso, pertanto, la valutazione governativa circa la natura sicura del paese di origine non è decisiva, sicché non si pone un problema di disapplicazione del decreto ministeriale».  

Il che significa, in parole povere, che il giudice ordinario, investito di una richiesta di protezione internazionale da parte di un richiedente che non adduca ragioni di rischio a lui soltanto riferibili, ma circostanze di insicurezza a carattere generale, non solo può, ma deve scrutinare la perdurante validità della qualificazione del Paese di provenienza del migrante come sicuro.

I fatti, il provvedimento di non convalida del trattenimento del Tribunale di Roma e il ricorso

La vicenda su cui è intervenuta l'ordinanza Cass. civ., sez. I., 30 dicembre 2024 n. 34898 ebbe inizio nella notte tra il 13 e il 14 ottobre 2024, allorché Shaker Ahmad Khamis Salah, proveniente dall'Egitto, paese di cui si dichiarò cittadino, venne salvato in mare da una vedetta della guardia costiera italiana. Il migrante, che formulò richiesta di protezione internazionale, venne condotto, per l'espletamento delle procedure di frontiera o di rimpatrio di cui all'art. 28-bis, comma 2, lett. b e b-bis, d.lgs. n. 25/2008 in Albania, presso il centro Gjader, in applicazione dell'art. 3 del Protocollo tra Italia e lo Stato ospitante, ratificato e reso esecutivo dalla l. n. 14/2024

Il Tribunale di Roma non convalidò il trattenimento. Così ragionando.

L'applicabilità della lettera b) dell'art. 28-bis, d.lgs. n. 25/2008 – disse– doveva nella fattispecie ritenersi impraticabile, presupponendo essa che il richiedente fosse  «stato fermato per aver eluso o tentato di eludere i […] controlli», laddove le circostanze e le modalità di arrivo dei migranti presso i centri albanesi previste dal Protocollo e dalla legge di ratifica – e, nello specifico, le circostanze e le modalità di arrivo in Italia di Shaker Ahmad Khamis Salah – escludevano la ricorrenza di un'ipotesi siffatta e con essa il ricorso, per tal via, alla procedura accelerata di cui alla norma testé richiamata. 

Quanto ai presupposti per l'applicabilità della lett. b-bis) della medesima disposizione,  il decidente ne negò la sussistenza, considerato che nelle conclusioni dell'istruttoria svolta ai fini dell'aggiornamento del decreto interministeriale avente ad oggetto l'individuazione dei Paesi di origine qualificabili come sicuri, l'Egitto era sì definito tale, ma con eccezioni per alcune categorie di persone quali oppositori politici, dissidenti, difensori dei diritti umani o coloro che potessero ricadere nei motivi di persecuzione di cui all'art 8, comma 1, lett. e), d.lgs. n. 251/2007. Il che, in base a quanto stabilito dalla Corte di giustizia dell'Unione europea (Grande Sezione)  nella sentenza del 4 ottobre 2024, causa C-406/22, significava che non era un Paese sicuro. Evidenziò all'uopo che nel menzionato arresto la Corte di giustizia aveva affermato che l'art. 37, Dir. UE n. 32/2013 doveva essere interpretato nel senso che «esso osta a che un Paese terzo sia designato come Paese di origine sicuro qualora talune parti del suo territorio non soddisfino le condizioni sostanziali per una siffatta designazione» (par. 83), considerato anche che «il riconoscimento di una siffatta facoltà violerebbe l'interpretazione restrittiva cui devono essere subordinate le disposizioni derogatorie» (punto 71).

A parere del Tribunale il principio così enunciato doveva trovare applicazione anche nel caso in cui risultassero escluse determinate categorie di persone, posto che:

  • al punto 68 della pronuncia del 4 ottobre 2024 la Corte di giustizia aveva precisato che la designazione di un Paese come di origine sicuro dipendeva dalla possibilità di dimostrare che, in modo generale e uniforme, in quell'area geopolitica non si ricorreva mai «alla persecuzione quale definita all'articolo 9 della direttiva 2011/95, alla tortura o a pene o a trattamenti inumani o degradanti e che non vi (era) alcuna minaccia dovuta alla violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato internazionale o interno»;
  • la Dir. UE n. 85/2005, che consentiva l'esclusione di parti di territorio e di categorie di persone, era stata abrogata dalla Dir. UE n. 32/2013, attualmente in vigore e l'espressa intenzione di eliminare ogni possibilità di esclusione era confermata dalla spiegazione dettagliata elaborata dalla Commissione e fornita al Consiglio dell'Unione Europea.  

Ritenuto quindi che in base alla vincolante interpretazione del diritto dell'Unione fornita dalla sentenza dell'ottobre 2024 della Corte di giustizia non era possibile qualificare l'Egitto come Paese sicuro, il Tribunale non convalidò il trattenimento del migrante Shaker Ahmad Khamis Salah disposto dal Questore.

Il Ministero dell'Interno e il Questore di Roma non la mandarono giù e impugnarono con ricorso per Cassazione la decisione del Tribunale. Sostennero che l'ordinanza di non-convalida aveva disapplicato il decreto ministeriale del 7 maggio 2024 sulla base di un'erronea lettura della sentenza della Corte di giustizia, la quale aveva sì escluso la facoltà degli Stati di introdurre eccezioni territoriali nei decreti di designazione dei Paesi di origine sicuri, ma non la possibilità di somministrare, negli allegati del provvedimento, informazioni aggiuntive relative ad alcune categorie di soggetti, rispetto alle quali sussistevano, in un determinato Paese, criticità nel rispetto dei diritti. Sostennero che l'evidenziazione di siffatte difficoltà costituiva un'indicazione di cui il migrante poteva se del caso avvalersi, allegandole come circostanze specifiche di rischio a lui solo riferibili, evenienza non verificatasi nella fattispecie, ove il richiedente non aveva invocato gravi motivi suscettibili di far ritenere quel paese non sicuro nei propri confronti. 

Cass. civ., sez. I, 30 dicembre 2024 n. 34898

Chiamata a decidere se debba tout court escludersi la qualifica di Paese di origine sicuro quando dagli stessi allegati del decreto interministeriale emerga che un Paese qualificato tale non lo sia in realtà per determinate categorie di persone, la Corte ha deciso di non decidere, rinviando la causa a nuovo ruolo.

Ha evidenziato, a sostegno di tale scelta, che risulta già calendarizzata per il prossimo 25 febbraio l'udienza pubblica dinanzi alla Seconda Sezione della Corte di giustizia per la decisione del rinvio pregiudiziale operato dal Tribunale di Roma il quale, al pari di altri giudici di merito non solo italiani, ha chiesto alla Corte lussemburghese di stabilire:

  • «se il diritto dell'Unione, e in particolare gli artt. 36, 37 e 38 Dir. UE n. 32/2013, nonché il suo allegato I, letti anche in combinazione con i suoi considerando 42, 46 e 48, e interpretati alla luce dell'art. 47 della Carta (e degli artt. 6 e 13 della CEDU), osti a che un Paese terzo sia definito di origine sicuro qualora vi siano, in tale Paese, categorie di persone per le quali esso non soddisfa le condizioni sostanziali di siffatta designazione»; 
  • nonché – ma tali questioni non hanno avuto alcuna rilevanza ai fini della decisione del ricorso proposto dalla difesa erariale - se uno Stato membro sia competente ad operare la designazione di uno Stato terzo come Paese d'origine sicuro per via di legislazione ordinaria;
  • se tale Stato membro debba rendere disponibili gli elementi di fatto sulla cui base ha proceduto a siffatta designazione al fine di consentire al richiedente asilo di contestarla e al giudice di esercitare il suo sindacato giurisdizionale;
  • se il giudice possa d'ufficio utilizzare informazioni sul Paese al fine di accertare la sussistenza delle condizioni sostanziali della designazione come Paese d'origine sicuro.

La motivazione avrebbe potuto chiudersi qui.

Ma il collegio non ha voluto rinunciare a dire la sua sulla quaestio iuris che gli era stata sottoposta anche «al fine di contribuire al dialogo con la Corte di giustizia». E in tale contesto ha espresso l'avviso che la sentenza del 4 ottobre 2024 «si riferisca esclusivamente all'incompatibilità della previsione di Paesi sicuri con eccezioni di parti del territorio», espressamente escludendo dunque che abbia dettato anche un principio di incompatibilità della relativa nozione con la presenza di eccezioni personali. Né, ha aggiunto, siffatta incompatibilità può essere considerata un implicito corollario della scelta decisoria della Corte lussemburghese, non sembrando «esservi spazio per alcun automatismo di ricaduta» in tal senso, nel senso cioè che l'indicazione, nella scheda-Paese, di una categoria di persone insicura finisca per travolgere la designazione di sicurezza dell'intero Paese. Ha segnalato anche, il giudice di legittimità, l'indice ermeneutico desumibile dalla nuova disciplina dettata dal Regolamento (UE) 2024/1348 del Parlamento europeo e del Consiglio del 14 maggio 2024 che, nello stabilire una procedura comune di protezione internazionale nell'Unione e nell'abrogare la Dir. UE n. 32/2013, sia pure con effetto differito al 12 giugno 2026, stabilisce expressis verbis che la designazione di un paese terzo come Paese di origine sicuro, a livello sia dell'Unione che nazionale, può essere effettuata con eccezioni per categorie di persone chiaramente identificabili. Il che sembrerebbe deporre – a giudizio della Corte – per una interpretazione che non si ponga in contrapposizione frontale con la normativa destinata a divenire la regola di diritto per il futuro e dunque per un'ermeneusi che agganci la designazione del Paese sicuro a un criterio di prevalenza, piuttosto che di assolutezza delle condizioni di sicurezza, fatto salvo, naturalmente, il potere di verifica del complessivo rispetto, nell'area geopolitica considerata, della Convenzione EDU e della Convenzione di Ginevra.  

Tanto precisato con riferimento alla normativa comunitaria, la Corte è passata a verificare se la disciplina normativa contenuta nel d.lgs. n. 25/2008, là dove, all'art. 2-bis, consente di designare un Paese di origine sicuro con l'eccezione di categorie di persone, sacrifichi o meno i diritti fondamentali dello straniero protetti dalla Costituzione e dalle Carte internazionali alle quali essa rinvia. 

A tal fine ha ricordato:

  • che il diritto alla libertà personale di cui all'art. 13 Cost. spetta anche allo straniero che si trovi al confine del territorio della Repubblica italiana, conseguentemente operando come un primo, insormontabile limite alla disciplina della sua condizione giuridica;
  • che, secondo la giurisprudenza della Corte costituzionale (Corte cost., 4 dicembre 2023, n. 212), la misura del trattenimento dello straniero presso centri di permanenza e assistenza «comporta una situazione di assoggettamento fisico all'altrui potere, che è indice sicuro dell'attinenza della misura alla sfera della libertà personale»;
  • che, in tale contesto, la designazione “tabellare” del Paese terzo come sicuro, fondata sulla possibilità di dimostrare che non ci sono generalmente e costantemente persecuzioni quali definite nell'art. 9, Dir. UE n. 95/2011 e funzionale alla gestione del fenomeno migratorio in una prospettiva su larga scala, potrebbe cedere il passo di fronte alla posizione peculiare del richiedente la protezione;
  • che, invero, ove un istante prospetti validi motivi in base ai quali non possa ritenersi sicuro un certo Paese in ragione della sua situazione particolare, il giudice, più che procedere alla disapplicazione, in parte qua, del decreto ministeriale, che nel sistema costituisce una extrema ratio, deve semmai considerare venuta meno, nei confronti di quello specifico migrante, la presunzione relativa di sicurezza che alla designazione normalmente si ricollega. E tanto in conformità al disposto dell'art. 36, Dir. UE n. 32/2013 nonché dell'art. 2-bis, comma 5, d.lgs. n. 25/2008. In una evenienza siffatta – ha evidenziato la Corte – non parrebbe possibile procedere al trattenimento dello straniero per effetto del ricorso alla procedura di frontiera e, quindi, ove il trattenimento venisse invece disposto, dovrebbe negarsene la convalida;
  • che altro limite alla regolamentazione della stato giuridico dell'immigrato è la dignità della persona umana «che entra nell'art. 3 Cost., dove viene prima dell'eguaglianza»;  
  • che in definitiva, in tale contesto valoriale, le eccezioni personali, «pur potendo ritenersi di per sé compatibili con la nozione di Paese di origine sicuro, non sono ammesse a fronte di persecuzioni costanti, endemiche o generalizzate, perché altrimenti sarebbe messo in crisi il requisito del generalmente richiesto nell'allegato I della direttiva, e sarebbe pregiudicato il valore fondamentale della dignità».
  • che va pertanto ribadito il principio già enunciato nella sentenza Cass. civ., sez. I, 19 dicembre 2024 n. 33398, in base al quale il giudice ordinario, sebbene non possa sostituirsi all'autorità governativa sconfinando nel fondo di una valutazione discrezionale a questa riservata, ha, nondimeno, il potere-dovere di esercitare il sindacato di legittimità del decreto ministeriale, nella parte in cui inserisce un certo Paese di origine tra quelli sicuri, ove esso contrasti in modo manifesto con la normativa europea vigente in materia, anche tenendo conto delle fonti istituzionali e qualificate di cui all'art. 37, Dir. UE n. 32/2013, aggiornate al momento della decisione: principio che non può non valere – opportunamente declinato e adattato in forme e modalità compatibili con la scansione temporale urgente e ravvicinata del procedimento di convalida – là dove il giudice sia chiamato a valutare la legittimità del trattenimento.

Considerazioni conclusive

La complessità delle questioni trattate nei due provvedimenti della Suprema Corte qui sintetizzati consiglia di schematizzare al massimo, per non appesantire ulteriormente l’esposizione, le considerazioni conclusive.

Esse sono le seguenti:

  1. al netto di quello che dirà la Corte di giustizia il 25 febbraio prossimo sul secondo quesito postole dal Tribunale di Roma con rinvio pregiudiziale – e cioè se uno Stato membro possa operare la designazione di uno Stato terzo come Paese d’origine sicuro per via di legislazione ordinaria – è addirittura ovvio che ogni fonte normativa, anche a carattere primario, non può sottrarsi al metro dei principi costituzionali e di quelli del diritto comunitario. Segnatamente il contenuto della legge che opera la selezione sarà pur sempre scrutinabile dal giudice delle leggi, se non altro per manifesta irragionevolezza, ove ne dovessero ricorrere le condizioni, sia pure con l’imbarazzo istituzionale derivante dall’improprietà di un controllo della Consulta su un atto legislativo solo nella forma, ma amministrativo nella sostanza;  
  2. le polemiche divampate dopo le decisioni di non convalida dei giudici di merito e anche dopo quelle che hanno operato il rinvio alla Corte di giustizia, hanno consegnato alla stampa e all’opinione pubblica una narrazione alquanto distorta delle vicende umane e giudiziarie degli immigrati coinvolti nei relativi procedimenti. E invero, per quanto risulta alla scrivente, le reazioni politiche e mediatiche sono state nel segno della lettura delle decisioni di non convalida dei trattenimenti come decisioni volte a sancire tout court l’insussistenza delle condizioni per l’espulsione dei migranti ai quali esse si riferiscono, laddove non di questo si tratta, quanto piuttosto della ritenuta mancanza dei presupposti per l’operatività della procedura accelerata e del corredo probatorio connesso alla qualifica del loro Paese di origine come Paese sicuro. Questo significa che le richieste di asilo da essi avanzate seguiranno l’iter ordinario, impregiudicato l’esito finale cui metteranno capo, positivo o negativo che sarà (cfr. Giulia Mentasti, Trattenimento dei richiedenti asilo in Albania in Sistema Penale/SP).

Vedremo quel che dirà la Corte di giustizia.

Intanto teniamoci stretta, come giuristi e come cittadini, la lucida, completa e appassionata ricostruzione del contesto valoriale in cui va collocata la gestione del fenomeno migratorio, operata dal nostro giudice di legittimità.

Riferimenti

  • Cass. civ., sez. I, 19 dicembre 2024 n. 33398;
  • Cass. civ., sez. I, 30 dicembre 2024 n. 34898.

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